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Bob Dylan – Rough And Rowdy Ways

Era come dentro un sogno. Dylan stava nel mezzo della corrente. Immobile, mentre una brezza fresca lo circondava, rotolando lentamente, come una pietra, come un tuono nel temporale, finendo lì dove crescono le rose selvatiche, solo per osservarci. Per quanto fosse buio, c’era ancora fede, c’era ancora speranza. E fu allora che il profeta scese dalla montagna.
Oggi, 19 giugno 2020, Dylan pubblica “Rough And Rowdy Ways”, un album atteso, anticipato, in questi mesi, da tre singoli, “Murder Most Foul”, “I Contain Multitudes” e “False Prophet”; il primo dei tre finito in cima alla classifica di Billboard, cinquantotto anni dopo il debutto del suo autore. Dylan è una candela che brucia lentamente nel vento, non sembra mai svanire. Esattamente quel 19 giugno: il giorno in cui gli afroamericani celebrano, metaforicamente, la fine della schiavitù. Potrebbe anche essere un’innocua coincidenza, ma ricordo un’intervista del 2013 per l’edizione francese di Rolling Stone dove, interpellato sul razzismo negli Stati Uniti, affermava:

“This country is just too fucked up about colour. It’s a distraction. People at each other’s throats just because they are of a different colour. It’s the height of insanity, and it will hold any nation back – or any neighbourhood back. Or any anything back. Blacks know that some whites didn’t want to give up slavery – that if they had their way, they would still be under the yoke, and they can’t pretend they don’t know that”.Bob Dylan

Profeta o no, eccolo, che stava arrivando.
Negli ultimi anni, Dylan è ossessionato dal senso e dal significato del valore della memoria.
“Well the future/For me is already a thing of the past” sono le parole di “Bye And Bye” su “Love And Theft” (2001), lo stesso disco nel quale canta “I’m drownin’ in the poison, got no future, got no past”. Anche se l’io narrante a distanza di vent’anni potrebbe non essere più lo stesso, il tempo è dentro e fuori la sua testa. Qualunque cosa significhi, che il futuro è una cosa del passato, la nuova fase, dal 2001 in poi, è stata per Dylan un lavoro di riscoperta della tradizione che amava: le si è tuffato dentro in allegra libertà, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Da sempre ladro gentiluomo, dal 2001 rivive e fa rivivere la sua ispirazione musicale, mescolando Shakespeare con Ovidio e Omero, le poesie di Henry Timrod e i delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe con Willie Dixon, Sleepy John Estes e Memphis Minnie, compiendo l’ennesimo giro di quella ricetta dylaniana di canzoni, pensieri, parole e musica, dove tutto il pasto, tutto lo sforzo di unire i punti e di tracciare le linee, vale molto di più della diversità dei singoli ingredienti. Il passato, non il “suo” passato, è il suo futuro. Scalare la montagna dell’American Songbook, respirando vita e anima, eppure, ancora una volta, rimanendo fastidioso e sfacciato. Così come è “Rough And Rowdy Ways”. Poesia per le orecchie e per il cuore. Un invito ad ascoltare un altro capitolo, a entrare in un’altra stanza, a sbloccare la chiave di un luogo dove non siamo mai stati prima.
In tempi in cui la falsa notizia è sinonimo di verità, ci si può solo chiedere: quali parole non sono più infette e contagiose, quali parole si possono usare senza filtro? Quale lingua? Le sue chimes of freedom, i lampeggianti rintocchi di libertà resistono ancora, è lui il conquistatore e creatore della sua lingua, secondo a nessuno, che usa ancora i mattoni del tempo, il sanscrito e il libro egiziano dei morti con il blues? L’intero nuovo album scoppia di avanzi di pane grattugiato, scampoli di letture e ascolti, pensieri vecchi di migliaia di anni, canzoni e musiche vecchie di secoli, un’interminabile conversazione con tutto ciò, in un modo che fa di ogni pensiero, vecchio o nuovo che sia, una possibilità per il nostro contemporaneo di nuove intuizioni e di nuove conoscenze. E impiegheremmo ancora anni per dipanare la sottile trama di “Rough And Rowdy Ways”, e sarà gratificante. Ora, proprio ora dobbiamo ascoltare l’album, dobbiamo ascoltare le canzoni, dobbiamo ascoltare la sua voce, il suo suono, il suono di “Rough And Rowdy Ways”.
C’è qualcosa che sembra molto personale in questo album. Anche se parla per tutti noi, l’uso dell’io è particolarmente imponente. Nonostante la varietà delle canzoni e il loro temperamento, sembra che siano state scolpite come un tutt’uno nella stessa pietra. “Murder Most Foul” è eccezionale, legata all’umore e al colore dell’intera creazione. Già le registrazioni di “Shadows In The Night”, “Fallen Angels” e “Triplicate” facevano parte del segreto, quanto all’uso di strumenti, microfoni. È tornato come l’uomo dalle molte voci, gestendo la tensione tra il blues più ruvido e rozzo e il croon più morbido. Si alterna, senza soluzione di continuità, tra recitazione e canto, ma mai senza quel suo spiccato istinto per il ritmo e il fraseggio, che fa sì che ogni parola sia importante. Basterebbe ascoltarlo cantare “I hope that the gods go easy with me/I knew you’d say yes, I’m saying it too” in “I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You” per capire cosa intendo. Nascosta da qualche parte c’è una palpitante sensazione di sincerità.
Bob Dylan è il re dell’intertestualità, ma forse mai come in questo album i suoi oceani di conoscenza della musica, della storia, della religione, “I played Gumbo Limbo spirituals/‪I know all the Hindu rituals” in “Key West (Philosopher Pirate), della letteratura, scorrono ancora liberi e creativi, un’intertestualità che include accenni al suo stesso lavoro, forse sia conscio che inconscio, o addirittura in trance, come lui stesso la descrive nell’intervista al New York Times del 12 giugno, quando parla di “I Contain Multitudes”:

“It’s one of those where you write it on instinct. Kind of in a trance state. Most of my recent songs are like that. The lyrics are the real thing, tangible, they’re not metaphors. The songs seem to know themselves and they know that I can sing them, vocally and rhythmically. They kind of write themselves and count on me to sing them”.

Anche il resto dell’album contiene moltitudini.
Il blues sporco di “False Prophet”, è costruito sul riff di “Early Roman Kings” in “Tempest”. Seppure nell’intervista insista nel ricordare quanto poco sia coinvolto nello sviluppo dei brani, dalla loro continua improvvisazione, essi evolvono. Dal vivo, di anno in anno, a volte di notte in notte, passando da uno dei brani meno interessanti di “Tempest” a una fenomenale performance live, “False Prophet” è un brano davvero impressionante; limitatevi a considerare la qualità di questo verso:

“Well I’m the enemy of treason
Enemy of strife
I’m the enemy of the unlived meaningless life
I ain’t no false prophet
I just know what I know
I go where only the lonely can go
I go where only the lonely can go”

Sta parlando da “enemy of the unlived meaningless life”:

“I’m first among equals
Second to none
The last of the best
You can bury the rest
Bury ‘em naked with their silver and gold
Put them six feet under and pray for their souls”.

È la sua etichetta. L’adesivo stampigliato sulla copertina dell’album.
“My Own Version of You” è Dylan che fa il pieno di Mary Shelley e delle sue creature, “visiting morgues and monasteries” per trovare ciò di cui ha bisogno, cercando di ricreare un “tu, mostro perfetto” che potrebbe anche essere lui stesso, usando Al Pacino e Marlon Brando come materie, e suonando il pianoforte come Leon Russell, come Liberace: “I’m gonna make you play the piano like Leon Russell/Like Liberace, like St. John the Apostle/I’ll play every number that I can play/I’ll see you maybe on Judgment Day”. La canzone è un valzer veloce, una sorta di paesaggio in stile Brecht/Weill, una tensione drammatica e un ritmo nervoso, come se tutto dovesse accadere in fretta, prima che sia troppo tardi. È avido di tempo, quando canta.

“Can you tell me what it means, to be or not to be?
You won’t get away with fooling me
Can you help me walk that moonlight mile?
Can you give me the blessings of your smile?
I’ll bring someone to life, use all of my powers
Do it in the dark, in the wee, small hours”.

La mia preferita è “I’ve Made Up My Mind To Give Myself To You”; tira dritta al cuore, una ballata malinconica diversa da qualsiasi cosa abbia mai sentito da questo artista, la voce è morbida, in sottofondo un coro accenna la melodia della “Barcarolle” di Offenbach, come l’orchestra sul Titanic la notte nella quale affondò. Il testo profondamente toccante di un narratore che contempla la sua vita, in uno stato d’animo malinconico che sta semplicemente ricordando: “I saw the first fall of snow/I saw the flowers come and go”, “Lot of people gone/lot of people I knew”. È pronto per la sua nuova svolta mistica, per un ultimo salto di fede. Bello oltre misura.

“I’m sittin’ on my terrace, lost in the stars
Listening to the sounds of the sad guitars
Been thinking it all over and I’ve thought it all through
I’ve made up my mind to give myself to you
I saw the first fall of snow
I saw the flowers come and go”.

Dylan ha spesso fatto riferimento all’Apocalisse quando necessitava di immagini forti, così ancora in “Black Rider”: “Ed ecco, mi apparve un cavallo nero e colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano” (Apocalisse 6, 5-6), il cavaliere nero proprio come una carestia, una speculazione, come espressione dell’avidità umana. A volte è come se si rivolgesse al cavallo pallido della stessa Morte, lottando con essa fino alla fine. È una mistica canzone popolare, trovata in fondo a una biblioteca sperduta da un Alan Lomax disperato. Il lavoro al mandolino aggiunge alla canzone una sensazione quasi ottocentesca.

“Black rider, black rider, tell me when, tell me how
If there ever was a time, then let it be now
Let me go through, open the door
My soul is distressed, my mind is at war
Don’t hug me, don’t flatter me, don’t turn on the charm
I’ll take a sword and hack off your arm”.

Nell’ultima strofa la canzone si collega ancora all’American Songbook e alla tradizione popolare: “Some enchanted evening, I’ll sing you a song/Black rider, black rider, you been on the job to long”, mentre si accenna a “Some Enchanted Evening” di Rodgers e Hammerstein, una canzone già recuperata su “Shadows In The Night”. Di nuovo trova la misura perfetta. Tutto si combina. Tutto funziona.
Sembra vedere Jimmy Reed sorridere e battere il piede nell’aldilà, mentre Dylan spara il blues di “Goodbye Jimmy Reed”. Mi rimbalza attraverso gli altoparlanti, mi fa venire voglia di ballare. È stanco di essere pungolato, lui stesso si accontenta di un vecchio incantesimo, di una old time religion:

“I live on a street named after a Saint
Women in the churches wear powder and paint
Where the Jews, and Catholics, and the Muslims all pray
I can tell they’re Proddie from a mile away
Goodbye Jimmy Reed, Jimmy Reed indeed
Give me that old time religion, it’s just what I need”.

Non è difficile da comprendere, elabora lo stesso pensiero nell’intervista al New York Times, chiedendosi come mai non ci sia stata più attenzione alla musica gospel di Little Richard:

“Probably because gospel music is the music of good news and in these days there just isn’t any. Good news in today’s world is like a fugitive, treated like a hoodlum and put on the run. Castigated. All we see is good-for-nothing news. And we have to thank the media industry for that. It stirs people up. Gossip and dirty laundry. Dark news that depresses and horrifies you”.

C’è un proclama di fede verso le canzoni e i cantanti, lui stesso come ognuno di noi. È la nostra religiosità. Dobbiamo solo ascoltare ogni canzone, ogni ricchezza, ogni complessità, senza essere mai sicuri di aver compreso tutto, sicuri di avere tutto, bisogna ascoltare ancora una volta, le parole, la musica, le voci. E poi un’altra volta, di nuovo.
“Mother of Muses” è una preghiera ai poteri superiori dell’ispirazione. La madre delle Muse, Mnemosine, la dea del ricordo e della memoria (ancora la memoria), quella alla quale ci si può avvicinare col passare degli anni. La figlia di Urano e Gea, del Cielo e della Terra, Mnemosine madre delle nove Muse, ispiratrici dei poeti e protettrici di ogni attività intellettuale. Muse concepite, secondo il mito, dopo aver dormito con Zeus.

“Mother of Muses sing for me
Sing of the mountains and the deep dark sea
Sing of the lakes and the nymphs of the forest
Sing your hearts out, all your women of the chorus
Sing of honor and fate and glory be
Mother of Muses sing for me”.

Poi cadendo di nuovo in trance,

“Sing of Sherman, Montgomery, and Scott‬
And of Zhukov, and Patton, and the battles they fought
Who cleared the path for Presley to sing
Who carved the path for Martin Luther King
Who did what they did and they went on their way
Man, I could tell their stories all day”.

Sta cadendo tra le braccia di Calliope, una delle nove, la musa della poesia epica, la musa di Omero, di Virgilio, dell’Ariosto, del Tasso, del “e qui Calïopè alquanto surga” di Dante Alighieri. Ora sta implorando sua madre:

“I’m falling in love with Calliope
She don’t belong to anyone, why not give her to me?
She’s speaking to me, speaking with her eyes
I’ve grown so tired of chasing lies
Mother of Muses, wherever you are
I’ve already outlived my life by far”.

Ancora ambizioso, ha ancora voglia di scrivere.
Alea iacta est. Giulio Cesare sta attraversando il fiume Rubicone prima della guerra civile, prima dell’ascesa alla dittatura, prima dell’Impero Romano, il punto di non ritorno. “Crossing The Rubicon” inizia con “I crossed the Rubicon on the 14th day/Of the most dangerous month of the year”, ma si snoda in “Three miles north of purgatory/One step from the great beyond/I prayed to the cross, I kissed the girls” un blues fantasma dal suono di John Lee Hooker, con cambiamenti tra la parte più morbida e quella più violenta nel testo e nella voce:

“Well, you defiled the most lovely flowers
In all her womanhood
Others can be tolerant
Others can be good
I’ll cut you up with a crooked knife
Lord, and I’ll miss you when you’re gone
I stood between Heaven and Earth
And I crossed the Rubicon”.

È dura come l’inferno.
La lenta esecuzione della ballata “Key West (Philosopher Pirate)” rende il finale simile a “Highlands” di “Time Out of Mind”, le descrizioni sono le medesime, la tematica è simile, il luogo per cercare l’immortalità. Lì il caprifoglio che fiorisce “gentle and fair”, qui la bouganville di Key West “fine and fair” mentre il Dylan di “Highlands” recita “The sun is beginning to shine on me/But it’s not like the sun that used to be/The party’s over and there’s less and less to say/I got new eyes/Everything looks far away”, quello di Key West descrive che si può ancora “Feel the sunlight on your skin, and the healing virtues of the wind/Key West, Key West is the land of light/Wherever I travel, wherever I roam”. Non è ancora la fine del viaggio, ma “Key West is on the horizon line” e, come sappiamo, “Beyond the horizon it is easy to love”. Sento di nuovo un senso di urgenza, arrivare in cielo prima che si chiudano le porte, se mai ce ne siano state, ma questa volta il momento si sta avvicinando. I suoni semplici di un accordion e una dolce ritmica, il coro in sottofondo, la voce imponente e allo stesso tempo tenera nel fraseggio, tutto si compenetra perfettamente.
“Murder Most Foul” è un secondo capitolo a sé stante, una guida. Non dimenticate di ascoltare. State attenti. Ascoltate. Ascoltate. Ascoltate. Senza smettere di osservare ciò che vi circonda.
Il futuro è una cosa del passato. Non esiste un pensiero originale, dobbiamo solo tornare indietro e recuperare le grandi questioni dell’esistenza, e che l’oceano senza limiti, dell’esperienza e dell’arte, sia ancora uno strumento efficace da usare quando scaliamo la montagna della conoscenza e della comprensione di questo strano e bellissimo mondo, dove “wisdom is thrown into jail”.
“Rough And Rowdy Ways” è un nuovo tassello della mappa della tua anima. Ci sono voluti sassi e ghiaia per costruire una strada solida, e i viaggi sono stati difficili.
Eccolo è il 39esimo disco e Bob Dylan condivide con noi la sua prospettiva su questi anni. Una canzone alla volta, esattamente quando ne avevamo più bisogno, quando, ancora una volta, “A Hard Rain’s A-Gonna Fall”, quando la marea intorno a noi è cresciuta.
Ricordo di aver pensato che “Tempest” sarebbe stato il canto del cigno.
Questo sembra altresí più vero per il testamento di “Rough And Rowdy Ways”.
Tuttavia, non credo lo sarà. Neanche questa volta.

Bob Dylan – voce e chitarra
Bob Britt – chitarra
Matt Chamberlain – batteria
Tony Garnier – basso
Donnie Herron – steel guitar, violino e accordion
Charlie Sexton – chitarra
Fiona Apple – voce
Blake Mills – harmonium
Alan Pasqua – pianoforte
Benmont Tench – Hammond

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Riccardo Magagna

"Credo in internet, diffido dello smartphone e della nuova destra, sono per la rivalutazione del romanticismo e dei baci appassionati e ho una grande paura dell'information overload"