Riaffiora al Flowers la (ri)nascita Catartica dei Marlene Kuntz
“È certo un brivido averti qui con me
In volo libero sugli anni andati ormai
E non è facile, dovresti credermi
Sentirti qui con me perché tu non ci sei”
Lo devo ammettere: per lungo tempo avevo pensato, affermato, sventolato ai quattro venti e ai sette mari che a questo tour dei Marlene Kuntz non ci sarei quasi sicuramente andato. E contata sicumera derivava da ragioni incrollabili, incontrovertibili, finanche granitiche, molte delle quali ben argomentate, decisamente e nitidamente sentite e razionalmente garantite.
La prima e più blanda delle quali aveva a che fare tanto per cominciare con ragioni di tempo e quantità. Tempo, nel senso che in mezzo a tutti gli impegni lavorativi, personali e musicali, difficilmente sarei riuscito a raggranellare abbastanza minuti di libertà per un concerto di un gruppo che, in vita mia, ho ascoltato live almeno una trentina di volte. Non che una in più avrebbe guastato, intendiamoci: per quanto mi riguarda, andare a sentire i marleni è quasi un ritorno in famiglia, un abbraccio consueto e risaputo, ma non per questo meno caloroso. Ma in un’ottica di ottimizzazione degli impegni di cui sopra, avrei potuto probabilmente farne a meno, laddove c’erano altre band, ben più raramente incontrate, che avrei volentieri deliziato – o, nel caso, ammorbato – con la mia presenza.
La seconda ragione, in effetti, era invece assai più seria e sentita, melanconicamente avvalorata dai sentimenti e dai ricordi di una mente anziana ma non ancora vecchia: io, i Marlene del Tour di Catartica, li avevo incontrati già 30 anni fa, per la primissima volta di quella miriade che poi sarebbero arrivate negli anni. E mi li ricordavo bene, giovani – loro e me – e forti, avvolti in quel loro rock scintillante e tagliente, abrasivo e distorto che denunciava tutte le loro fortissime referenze a me tanto care (Sonic Youth tra le tante, e Gun Club qui e là, ndr) e il loro carisma e le loro capacità detonanti: qualità che gli allora veterani CSI subito gli riconobbero, per opera di Maroccolo e, soprattutto, di Lindo Ferretti. Tutte medaglie, queste, che me li avevano fatti amare già prima di capire da dove venissero e chi fossero veramente.
Insomma, io quell’album lo ascoltai e lo consumai nel formato cassetta, e poi ebbi la fortuna di ascoltarlo live, proprio dalle mani e dalle voci di quei tre ragazzi cuneesi, poco più grandi di me: Il diafano e schivo Riccardo Tesio, il dinocolato, emaciato e vibrante Cristiano Godano, e l’energico, esplosivo, deflagrante Luca Bergia.
Già, proprio Luca era la terza e definitiva ragione per la quale avevo deciso che, no, questa volta negli spalti non sarei andato, non avrei risposto alla chiamata di Sonica, o alla rabbia di Festa Mesta, e neppure al dolce sussurro di Lieve.
Credevo che quella mancanza mi avrebbe fatto troppo male, io che di solito i batteristi, a vent’anni, non li calcolavo mai: ma dalla prima volta che lo vidi fendere l’aria con le sue bacchette al fulmicotone, esplodendo nell’atmosfera circostante con decibel roboanti, avevo capito che quel Luca aveva qualcosa di più.
O forse c’era qualcos’altro di più recondito che mi aveva soggiogato, che si muoveva da là dietro al sottoscritto, e me lo rendeva congeniale, e che allora non capivo ancora molto bene.
Comunque sia, il mio stato d’animo era quello di un convinto e annunciato assente, fino a pochissime settimane fa. Eppure sbagliavo, e anche tanto.
Sbagliavo.
Innanzitutto a non volerci essere: perché chi si assenta, chi non partecipa, chi si fa da parte di solito – almeno a dar retta ad un vecchio adagio italico – non ha mai ragione.
Perché invece Luca, ieri sera, c’era eccome: lui e i suoi richiami ritmati, soffocati ma realmente palpabili, sotto una falce di una luna distratta dal cielo torinese ormai limpido e in mezzo ai vecchi e giovani ragazzi accorsi a raccolta.
C’era, tra le battute picchiettate sui piatti e poi pestate di M.K., e tra i cori e le distorsioni di Trasudamerica, o ancora c’era di certo nell’incipit per batteria e chitarra di Gioia (che mi do).
C’era certamente in mezzo ai ragazzi del gruppo, che – per bocca di un Cristiano Godano, davvero in gran spolvero in quanto a voce e virtuosismi schitarranti – gli hanno dedicato il tour.
“Piena di te è la curva del silenzio” diceva parecchi decenni fa Pablo Neruda, cantando probabilmente a quella stessa luna che pareva ieri scintillante e malinconica più del solito: pochi invece coloro i quali all’oscuro, si sono messi a pensare solo più al dito che di solito la indica, non ammaliati dalla forza e dall’energia di un gruppo che quest’anno festeggia i suoi trentacinque anni di attività, ma che ha dimostrato ‘sul campo’ di essere a buon diritto ancora una delle band rock migliori del bel Paese.
In due ore di decibel e distorsioni, di voci che urlavano testi portentosi, sostenuti dall’energia e dalle indubbie capacità musicali di Luca Lagash al basso e Davide Arneodo a tastiere, percussioni e voci, Cristiano e Riccardo hanno snocciolato quasi tutti i quattordici brani di Catartica, più qualche opportuna aggiunta de Il Vile e di Ho ucciso Paranoia, dissetando l’arsura dei vecchi fan più esigenti, come dei nuovi e dei nuovissimi più curiosi.
Grazie davvero al Flowers Festival, che quest’anno si è davvero impegnato a proporci una lineup rock senza eguali.
Grazie sempre a Catartica, un album che davvero non invecchia mai, o che – se lo fa – lo fa da dio.
E grazie ai Marlene Kuntz, perché ci siete sempre stati, in tutti questi decenni.
Alla fine, ciò che rimane di questi 30 anni – di certo passati ma non invano – è pur sempre musica, con una M colossale. Che forse, sicuro, è il bene più radioso che c’è.