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Andrea Sigona – Un disco Klandestino

Di Luca Battaglia – Foto di Riccardo Rossi


Non effetti speciali ma storie che vale la pena raccontare, Klandestino, il quarto album di Andrea Sigona, reinterpreta così l’antica arte del cantastorie. Senza compromessi, con piglio da rocker, voce profonda e artigianato chitarristico, quello di chi continua a pensarla la migliore delle “machine kills fascists”.

Non volevo fare la cover di nessuno, men che meno di me stesso. – spiega durante una chiacchierata fiume che solo con una certa fantasia potremmo definire intervista – Volevo far sentire chi è Andrea e chiudere il percorso, un ciclo durato più o meno 25 anni. Con Klandestino ho scelto una strada mia, solitaria ma non da solo: nel senso che non mi sono mai sentito da solo. Quella del crowdfunding è stata un’esperienza di scambio veramente partecipata, la paragono a una pietra lanciata nel fiume che sta avendo un bellissimo rimbalzo”.

Tredici storie per le quali parteggiare, di certo partigiane. Non a caso Andrea ripete come un mantra la necessità di creare ponti tra generazioni; “oggi la vera questione stia nell’insegnamento a scuola, la Resistenza Partigiana dovrebbe diventare materia di studio”.
Klandestino è un disco in cui si avvertono chiari e netti gli echi della canzone politica più nobile, eredita il meglio del Cantacronache o dei Dischi del Sole, in alcuni passaggi il cantato ripercorre in maniera precisa lo stile di Paolo Pietrangeli. Ci sono cronache puntute dal mondo dei sommersi, feroci come le storie di mafia, politica e tangenti che Franco Trincale sbatteva in faccia alla “Milano da Bere” nel salotto di piazza del Duomo. Trincale suonava sotto il balcone di Craxi, Sigona si affaccia sul globo terracqueo dalla posizione privilegiata di una Genova che dalle più che ventennali ferite del G8 ha saputo conservare comunque uno spirito di accoglienza straordinario.

Parliamo dei comuni amici dei Music For Peace, persone che vivono la solidarietà tra il porto e i carrugi come nelle più remote e dimenticate guerre del pianeta, ed è lo spunto per riflettere su una città che “continua ad essere molto particolare ma per quanto riguarda gli artisti non ha più la stessa spinta, forse anche mitizzata, dei cantautori storici. Io continuo comunque a sperare ri-succeda qualcosa di bello qualcosa che possa rimanere nel tempo”.
Quella che doveva essere un’intervista si trasforma quasi in un flusso di coscienza collettivo ed eccoci a parlare della ripetitività nei recenti lavori di alcuni cantautori storici, per Sigona finiscono spesso con “adattarsi al momento che è quello che non volevo per questo disco”.
La K nel titolo richiama fortemente la calligrafia distintiva degli anni ’70 ma il nostro ammette di averla inserita “perché c’è stato chi mi ha fatto notare che Clandestino era già il titolo di uno dei dischi più celebrati di Manu Chao. Volevo comunque distinguerlo un pochettino, poi spero il risultato sia comunque diverso. Manu Chao è un grande artista che fa cose totalmente diverse dalle mie ma un comune denominatore credo comunque ci leghi, ed è quello di parlare delle persone”.

Nel caso di questo disco soprattutto lavoratori, con una visione “ad ampio raggio”. Dal manovale che “si fa il culo tutti i giorni a quello che si mette una giacca e una cravatta come ad esempio nella storia del giornalista”. Un brano, gli dico, che mi ha colpito profondamente, non solo per come ha saputo ritrarre l’ipocrisia contemporanea delle redazioni che comunque frequento, anche per quell’andamento da chansonnier in bilico tra Brassens e Ferré. Un paragone che ad Andrea piace e nel quale si riconosce, spiega infatti che è anche merito del “tempo portato dalla stessa canzone, lo aveva fatto anche De André sia chiaro: io non ho inventato niente, io non posso reinventare la musica e se dovessi reinventarla probabilmente farei qualcos’altro”.

Ho fatto – prosegue – quello che sono più o meno capace, sono capace a mettere in nota quei 7/8 accordi, a volte anche meno, e mettere in rima le parole che ovviamente devono avere e hanno un senso. Deve esserci un senso dietro e non dev’essere qualcosa di forzato, alla fine ho scritto davvero quello che mi veniva fuori dal cuore”.

Nella narrazione dell’album l’autore genovese spiega di avere sempre cercato di immedesimarsi in “tante piccole grandi situazioni che hanno a che fare con la Resistenza, hanno a che fare con la memoria storica, hanno a che fare con qualcosa che ci appartiene e che è il quotidiano. Ci sono tipi diverse di storie all’interno dell’album: quelle dei braccianti o degli operai nelle fabbriche ma anche quelle dei camalli, i ragazzi che lavorano nel porto di Genova. Ci sono, poi, storie di chi ha lasciato  un segno e mi piace ricordare la figura di Edo Parodi”. Edo, morto a 22 anni, dopo aver respirato il fumo dei lacrimogeni a Davos nel 2002 durante una manifestazione contro la globalizzazione “era comunque un operaio, pur vivendo la stessa città e gli stessi ambienti non l’ho mai conosciuto direttamente ma sono molto legato alla sua famiglia e il pezzo in realtà era già venuto fuori da un po’ di tempo”.

Klandestino suona in apparenza semplice, ci spieghi meglio le scelte che hai portato avanti in fase di produzione? “Queste secondo me sono canzoni che possono essere cantate e musicate da chiunque vada per la strada, a me serviva quello, il resto non interessava. Musicalmente abbiamo scelto una tecnica alla Springsteen, in ogni pezzo le chitarre sono registrate due volte. Non abbiamo spostato il cursore sinistra destra per far sentire che abbiamo registrato due chitarre, abbiamo fatto canale sinistro, canale destro e poi li abbiamo assemblati. Il disco poi è fatto senza mastering, senza bilanciare i suoni con un missaggio del missaggio per fare venire fuori certe sfumature”. 

Parla al plurale adesso ma non è un vezzo, Andrea divide meriti e responsabilità con il suo produttore (“e amico di sempre” come tiene a sottolineare) Giorgio Ravera. Uno a cui dobbiamo la realizzazione di alcuni degli album di Paolo Bonfanti e protagonista in proprio della trentennale e gloriosa storia de La Rosa Tatutata, e che a un certo punto “dopo aver ascoltato le registrazioni mi ha detto: senti questo è un disco che va bene così”.

La carriera di Andrea Sigona è d’altra parte costellata da incontri belli e preziosi, incontri che lo hanno portato in più occasioni a condividere il palco con Gang e Modena City Ramblers e a collaborare in alcune delle produzioni proposte dal giornalista e scrittore Daniele Biacchessi. Sue le musiche del reading teatrale Il Lavoro Rende Liberi, sue alcune canzoni presenti nelle colonne sonore dei docufilm (l’ultima Placido Rizzotto, scritta per Le Mani in Pasta, è stata ripresa anche per il disco Klandestino. Una carriera dove ha chiaramente un posto importante la produzione discografica, degli album precedenti Sigona racconta: “siamo partiti nel 2008 con Passaggi che è di fatto una demo, poi l’anno successivo Santi e Delinquenti è stato suonato a più mani, sono ritornato alla musica d’autore nel 2015 con Memorie Ritrovate e adesso c’è Klandestino che considero come il capitolo finale. Questo non vuol dire che non farò altri dischi o che non farò altre cose ma la strada è segnata. Ci vuole la coscienza che oggi un musicista o si adatta oppure sceglie di andare da un’altra parte. Io ho scelto un’altra parte, fatta di libertà e dignità”.

Dignità è una parola bellissima, la si ritrova nello svolgimento dell’intero disco, mi sono convinto che il processo di ricerca dell’immediatezza che avete portato avanti rappresenti nel quadro musicale nazionale quasi un gesto rivoluzionario. Alla fin fine è un disco basato sull’utilizzo della chitarra, della voce e, mi sento di aggiungere, dei toni che sono un po’ come l’uso calibrato di luce e ombra per un pittore. “In studio avremmo potuto divertirci come meglio credevamo, potevamo utilizzare tutti gli strumenti che volevamo, bastavano due telefonate e ti posso garantire che chi voleva farne parte ne avrebbe fatto. Tanti amici musicisti sarebbero venuti perfino gratis, è un attestato di stima prezioso che conservo e del quale sono orgoglioso ma ho scelto di metterci anima e corpo di Andrea Sigona, se vogliamo ho voluto riempire con un senso di responsabilità diretto la realizzazione di tutti i brani. Questo l’ho firmato interamente io, parole e musica di Andrea Sigona. Sono 13 pezzi nuovi più altri dieci inediti, questi ultimi distribuiti in esclusiva ai sostenitori del progetto via WhatsApp”.

Una scelta innovativa, potresti aver precorso una strada per la distribuzione indipendente del futuro. Come è stata accolta dal tuo pubblico? “L’operazione di crowdfunding è andata straordinariamente bene ma per fare un doppio album vero e proprio sarebbe servito il doppio di quanto ci eravamo proposti di raccogliere. L’idea di mandare gli MP3 tramite messaggistica insieme ai testi, riprodotti dai fogli originali della composizione con tanto di correzioni e cancellature, e ad alcune fotografie, in effetti è qualcosa che credo non sia mai stato fatto prima, può darsi anche sarò l’ultimo a percorrere una strada del genere ma sinceramente del confezionamento mi interessa poco o nulla. C’è stato anche chi mi ha detto non hai fatto la copertina, ma ce l’avete già è stampata direttamente sul supporto fonografico”.

A me questa cosa del CD nella bustina di carta è piaciuta molto. Ricorda i vecchi floppy disk e la riallaccio un po’ allo spirito della produzione: un passo indietro rispetto alla tecnologia, un passo avanti rispetto ai contenuti. “Ma sì, se volete la copertina gonfiabile con 22 pagine non sono più il tipo. L’ho fatto in passato ma oggi ho preferito dare fondo alla mia produzione, non ho più un brano che sia uno nel cassetto, a parte uno degli inediti in cui reinterpreto un Claudio Lolli meno conosciuto non ho messo cover”.


Ed eccoli tornare questi cantautori, e anche un po’ quel senso di “appartenenza” che personalmente considero soprattutto oggi una gemma preziosa, da salvaguardare e di cui tu non hai mai fatto certo mistero. Forse è qualcosa che manca un po’ in questi tempi, cosa ne dici? “Mah. Forse c’è, o forse è il gusto delle persone che non riesce più a trovare quello che proprio Claudio Lolli definiva ‘lo sfiato’, ovvero quel punto in fondo che oggi magari non ti dà la giusta attenzione. Io credo che la morte per uno come Claudio non sia stata la fine, parafrasando Terzani potremo forse leggerla come un nuovo inizio. Se tu un artista me lo porti come tesi di laurea vuol dire che c’è di più, che c’è qualcosa di magico, e tra i giovani (chiaramente non tutti) non solo viene ascoltato ma, come dicevo, c’è chi l’ha preso come riferimento per laurearsi. Parliamo di una di quelle persone che meriterebbero molto più spazio per quello che hanno fatto nel corso degli anni e del quale ho preso in prestito una delle ultime canzoni: Sai com’è, testo di Lolli e musica di Marino Severini dei Gang. Un capolavoro in cui si ripercorre la storia d’amore e di ideali tra Giovanni Pesce e Onorina Brambilla, eroi della resistenza che non ho avuto il piacere personale di incontrare di persone ma che comunque sento molto vicini. Alla figlia Tiziana poi la mia versione è piaciuta molto”.

Giovanni e Nori sono andato a trovarli una domenica mattina a casa poco meno di vent’anni fa, era inverno e noi in ritardo anche un po’ per la poca dimestichezza con il traffico milanese. Lui ci aspettava comunque ritto e intabarrato davanti al portone, doveva avere già 86/87 anni ma i miei 30 o poco più impallidirono di vergogna. Fortunatamente ci presentammo con del Barolo Chinato e apprezzò il regalo, la moglie credo avesse capito bene il nostro maldestro tentativo di accaparrarci immeritate simpatie ma non ci ributtò in strada. Quel “lato umano” intercettato da Lolli era parte integrante di due personalità che sono nella storia dell’Italia (e non solo, il Comandante Visone aveva prestato la propria opera anche nelle Brigate Internazionali in Spagna) migliore, quella che ha sconfitto il fascismo e ricostruito il Paese dalle macerie nel dopoguerra.

Ora però al governo ci sono i pronipoti di Almirante ed è anche responsabilità nostra, di una Sinistra che si è sgretolata o ha finito con l’accomodarsi placidamente su posizioni che un tempo avremmo definito “piccolo borghesi”. Le radici del disastro sono senz’altro da cercarsi parecchio in là ma non credi che un bel pezzo di terreno fertile sia franato proprio a Genova nei prima grandiosi e poi terribili giorni del G8 di luglio 2001? “E ma lì sono proprio andati a pesca, il governo che c’era in quel periodo è proprio andato a pesca. Dopo le proteste di Seattle del 1999, Genova avrebbe potuto rappresentare una grande possibilità di cambiamento: parliamo di più di 200mila persone che hanno sfilato in quei giorni. Io ricordo bene quell’espressione “abbiamo avuto il morto a Genova”, volevano forse dire che c’era volontà che capitasse qualcosa? C’era quantomeno la volontà di cercare l’incidente e non mi sembra nemmeno questo grande mistero. L’Italia d’altra parte è un continuo di sabbie mobili e anche quando provi a far capire le cose finisci spesso per sbattere contro un muro. Penso anche a quando durante i miei concerti parlo dell’inferno che si vive nelle miniere del Congo e suono Coltan, mi trovo davanti quelli che si mandano i messaggini senza capire che proprio dentro quel telefonino c’è il problema. Lo sforzo è quello di tentare strade per comunicare e aiutarli a riflettere. Per i nipotini di Almirante invece non mi prendo neanche la fatica di provarci, c’è chi dice che dovrei cercare di essere più democratico ma io non dialogo con quella gente. Mio zio che è stato Partigiano, Partigiano vero, alla fine dei suoi giorni continuava a ripetere che avevano fatto un solo un grande errore: quello ad aprile di posare il fucile”.

Facciamo quello che in armonia potrebbe essere considerato un salto di quinta e proviamo a tornare un attimo a Claudio Lolli, cosa vuol dire oggi riproporne le canzoni? “Direi che fa parte di una sorta di completamento. Con i dovuti metri di paragone pensiamo a Bruce Springsteen che va a riprendere Woody Guthrie, ci sarà ben un motivo. Parliamo di un artista che realizza dischi della portata di The River, Nebraska o The Ghost of Tom Joad e che se ne strafotte di quello che è il panorama musicale attuale e fa quello che piace a lui. Quella è filosofia, quella è filosofia, non è musica ma filosofia. In tutto il lavoro che abbiamo portato avanti per Klandestino, compresi gli inediti, mi sono detto che la dignità è la cosa più importante che ci può essere all’interno di una canzone”.

Ma questo è ancora un mestiere da consigliare ai giovani? “I ragazzi vivono in maniera differente rispetto alla nostra realtà di 30/35 anni fa. Io ho 53 anni, quello che mi sento di dire è che non basta essere un po’ fighi e fare gli scemi sul palco: bisogna credere in quello che si fa. Oggi c’è un circo musicale in cui tutti credono di fare qualcosa di diverso, in realtà non è così. Se poi devo raccontare quella che è stata la mia esperienza, posso dire che per dieci anni non ho fatto altro: mi sono mantenuto con quello che facevo, poi però mi sono anche mezzo rovinato la vita. Anche il discorso del live, io ho girato tutta l’Italia e accettato condizioni alle quali non sono assolutamente più disponibile ad assoggettarmi. Alla fine come dice sempre Giorgio Ravera, noi siamo dei tirannosauri”.


Eppure continuo a pensare che in questo disco si respiri tanto di nuovo, forse proprio perché per certi versi sei tornato all’antico. Vogliamo dare un recapito a quanti volessero scoprirlo? “Questo disco è la mia libertà, ho qualche copia in più rispetto a quelle stampate per il crowdfunding. Chi volesse può contattarmi direttamente via WhatsApp al 3341350312”.

Un’artista che lascia direttamente il proprio numero di telefono, allora davvero forse un mondo diverso è ancora possibile? “Non vorrei schernirmi troppo ma davvero io mi sento dalla stessa parte di quelli che mi ascoltano. Per quanto riguarda il nostro ‘mondo possibile’ sono convinto che comunque lo si voglia chiamare, sogno o utopia, qualcosa dovrà pur succedere”.

Il video del singolo “I Disertori”