Mono

Bill Fay – Oltre il Giardino

Quell’uomo, seduto sulla panchina, è in attesa che la pioggia lo ricopra e il gelo ridesti la sua anima. È stato accomodato così a lungo che le foglie hanno finito per posarsi sulla sua giacca. Tiene le gambe incrociate, la testa tirata, con attenzione, all’indietro, gli occhi volgono lo sguardo a sinistra. Guardano fra i cespugli e nelle aiuole, scrutano in profondità il tronco degli alberi, cercando di sentirne, anche se solo per un istante, l’età.
L’immagine è riprodotta sul retro di copertina dell’omonimo album d’esordio di Bill Fay, uscito nel 1970. Sul fronte copertina, in bianco e nero, Fay avanza timidamente verso la macchina fotografica, posta, come in una inquadratura di Ozu, quasi a livello del suolo. Sembra che stia scivolando su di uno specchio d’acqua, un miracolo in un pomeriggio grigio ad Hyde Park.
Bill Fay aveva suonato il pianoforte fin da adolescente. Frequentando, in Galles, la Bangor University per studiare elettronica, mentre i compagni venivano impiegati in lavori top secret per tracciare campi elettrostatici intorno ai missili, lui fu esiliato nella biblioteca a leggere tutto ciò che avesse a che fare con le trasmissioni radio. Per consolarsi, passeggiava sulle colline e si fermava per ore in perpetua contemplazione. Terminati gli studi, condivise un cottage con alcuni amici e si comprò un armonium sul quale iniziò a scrivere canzoni. Era sempre al pianoforte a scrivere e a cantare. L’occasione arrivò con Terry Noon, che all’epoca gestiva gli Honeybus (quelli di Pete Dello e Colin Hare). Gli propose di firmare un contratto. Registrò alcuni potenziali singoli con una band del South End, The Fingers. E le sue demo finirono nelle mani di Peter Eden, il manager di Donovan e Mick Softley, che nel 1970 lo scritturò per la Nova (Clark-Hutchinson, Sunforest tra gli altri), il marchio underground della Decca. Con la produzione di Eden e Fay al pianoforte, fu riunito un gruppo – il chitarrista Ray Russell, i batteristi John Marshall e Trevor Taylor, il bassista George Bird – e l’arrangiatore Michael Gibbs a scrivere le orchestrazioni per un ensemble di ventisette elementi. Le sessioni di registrazione furono completate in un solo giorno. L’interazione tra gli arrangiamenti di Gibbs, la voce e i testi di Fay rafforzarono la costante fluttuazione tra la sua speranza e la totale insoddisfazione per la vita moderna.

I testi erano estremamente sensibili all’impatto urbano e suburbano del divario generazionale del dopoguerra. Nelle famiglie britanniche degli anni Sessanta, i ricordi della guerra influenzavano in modo quasi surreale il tessuto delle vite familiari, dove i più giovani si scontravano con i veterani di due conflitti mondiali. Fay, un sognatore di periferia, si trovò incastrato tra le due tendenze. La sua canzone Parasite Child racconta proprio il punto di vista di un giovane tossicodipendente. L’aspetto della droga non è autobiografico, ma esprime il dilemma del frainteso. “And your Uncle Sid said/He moves like the whole world is after him/He’s a chewing gum kid, got a head like a sieve/Everything about me, it seems to me/I just can’t be what you want me to be/Ain’t no use surrounding me, hey can’t you see? / I just can’t be what you want me to be”. Un mondo popolato di personaggi in un’Inghilterra che viveva ancora con i suoi sogni, con i suoi ricordi che internamente potevano nascondere anche ferite più profonde. Come il vecchio May di Sing Us One of Your Songs May che durante la Grande Guerra perse la sua ragazza, ma ancora oggi lancia i suoi canti d’amore “The ones we know so well”. O come lo Stan di Goodnight Stan, “an innocent soul in a vastly changing world“, che di notte si rifugia nella sua casa proteggendosi con un innaffiatoio dai rapimenti alieni. Su Marte? “Or was it Jupiter?”. O ancora il marinaio Willie di Gentle Willie, che, in guerra, abbandonò il suo plotone e si ritrovò in una carneficina ancora più grande “So he bought himself a watchtower/And locked himself inside/But the tower looked o’er a battlefield/Where men laid down their lives/And Willie had to laugh but then he cried.”. Questi erano i suoi disperati, questi “quelli che si erano battuti” e che si sentivano esclusi dall’età dell’Acquario.
L’album si apre con Garden Song. In piena allegoria Fay pianta sé stesso in un giardino per sfuggire alle distrazioni insensate del mondo moderno e per sviluppare un suo rapporto diretto con la natura. “I’m planting myself in the garden, believe me/Between the potatoes and parsley”. La partitura di Fay è quasi inquietante: non potrebbe suonare meno assurda. “And I’ll wait for the rain to anoint me/And the frost to awaken my soul/I’m looking for lasting relations/With a greenfly, spider or maggot”. La sua beatitudine è di breve durata, canzone dopo canzone, si fanno strada le intrusioni della violenza e dell’alienazione nelle frontiere più isolate della solitudine personale. Anche la natura stessa è insoddisfatta, disperata.  “And the moon is praying”, canta Fay in The Sun Is Bored, “It wants to get away to some other place/Any place”. Questo è il primo Fay. Un uomo che cerca di sincronizzare la sua mente con il “presente” del tempo organico, collocandosi in una realtà oscura, per risvegliarsi poi in un universo ancora più profondo: il mondo della natura, gli alberi, gli altri esseri viventi.
Poco dopo il suo debutto, Fay si imbatté in vecchi testi biblici e sviluppò una seduzione per i libri dell’Apocalisse. Con la guerra del Vietnam ancora in corso e i morti della Kent State University in prima pagina sui giornali, il tono cupo e apocalittico dell’antica letteratura profetica sembrava inquietante, ancora più attuale. Fay iniziò a leggere anche gli scritti di Pierre Teilhard de Chardin, gesuita, scienziato e filosofo della metà del ventesimo secolo, che credeva che tutta la realtà, umana e non, si stesse rapidamente evolvendo verso uno stato eterno di unità e di pace. I travagli attuali della terra (guerra, ingiustizia, povertà), per quanto travolgenti potessero sembrare, erano in realtà il rito di passaggio verso l’imminenza paradisiaca di un mondo nuovo.
Armato di queste nuove risorse intellettuali, Fay realizzò un secondo album. Più oscuro e disperato, ma alla fine anche pieno di speranza.

Peace be in your breath and in your sighing.

Peace be in your jack and in your blade.

And peace be in your Sunday picnic

And your old school friends who’ve passed away.

But tell it like it is

Così inizia la delicata ma incisiva ballata folk Tell It Like It Is, il cuore del secondo album, “Time of the Last Persecution” (1971). Come molte altre composizioni di Fay, la canzone si libra a disagio tra una sorta di quietismo sereno e un realismo sociale senza compromessi. La canzone è piena del lirismo hippy, a tratti ingenuo di un Donovan, e delle stridenti, arrabbiate, a volte esplosive tirate della Plastic Ono Band di Lennon. I repentini cambi di testo sono accompagnati da altrettanto bruschi mutamenti nella musica, spesso all’interno della stessa canzone. Come a Day, il brano più calmo e rassicurante del disco, inizia con un lento e semplice motivo al pianoforte e un allegro duetto trombone-tromba, prima di esplodere improvvisamente in un ruggente e cacofonico assolo free-jazz che avrebbe potuto essere tolto direttamente da “Fun House” degli Stooges. “Time of the Last Persecution” è dominato dalla visione dell’imminente apocalisse, vividamente descritta in canzoni come ‘Til the Christ Comes Back, Plan D. L’escatologia di Fay è ben lontana dal cinismo dell’ortodossia religiosa, per la quale il popolo eletto viene eternamente ricompensato mentre il resto finisce gettato in un lago di fuoco senza fondo. Per Fay, come per Teilhard prima di lui, la liberazione è liberazione per tutti (hippy e soldati, giovani e vecchi), dalle strutture e dalle istituzioni che opprimono e alienano. E la venuta del messia indica che tutta la realtà – per quanto possa sembrare insensato, oggi – ha un valore e un significato. Un intervento spirituale nel mondo. Ma c’è un approccio diverso nell’apparente follia e nell’eclettismo di Fay. L’ascolto ripetuto rivela una visione unificata e profondamente personale della realtà, e uno stile musicale altrettanto singolare, coerente e compulsivamente coinvolgente. Nel mezzo delle sue osservazioni, Fay continua a sperare e esorta i suoi ascoltatori a fare lo stesso. “Be not so nervous; be not so frail,” consiglia in e Not So Fearful, penultima canzone del primo album. “Someone watches over you; you will not fail”. Se il “qualcuno” in questione sia Dio, la natura o lui stesso, non è importante.
Nell’era del Vietnam, nell’era di Altamont, a volte la registrazione stride e geme sotto il peso della sua prospettiva di salvezza. “The only time I’m not tired is when I’m asleep” canta su Let All the Other Teddies Know, confessando sia la sua stanchezza che la difficoltà di mantenere la fede. “Everywhere there are angels, but we never meet”. Fay canta come un traumatizzato veterano di guerra piuttosto che come un beatificato profeta new age. Confrontate ancora la rassicurante “Be Not So Fearful” dell’album di debutto con l’altrettanto ottimistica Come a Day di “Time of Last Persecution”, con la fragile voce di Fay che si spezza e vacilla, mentre ci promette che le nostre sofferenze finiranno presto. Alla fine, rimane la semplice e dolorosa umanità della performance, una voce testarda che piange nel deserto, che rende quel disco, un disco unico.
Ma, la Decca, dopo l’uscita dell’album, lo abbandonò. Fay, negli anni successivi, ha continuato a scrivere, esibirsi e occasionalmente a registrare nuovo materiale, anche se in maniera non convenzionale. Accresceva un misero reddito impacchettando il pesce da Selfridges e lavorando come giardiniere in un parco londinese. E questo iato durò ben quarant’anni.
In questo secolo, vari musicisti (Wilco, Jim O’Rourke, Matt Deighton, David Tibet) hanno riscoperto le sue canzoni. Nel 2003 la Wooden Hill ha pubblicato “From the Bottom of an Old Grandfather Clock”, una raccolta di demo e outtake della fine degli anni Sessanta, seguito da “Tomorrow, Tomorrow and Tomorrow” (Durtro 2004), con le inedite session con il Quartetto Acme registrate tra il 1978 e il 1981. Nel documentario dei Wilco “I Am Trying to Break Your Heart”, poi, Jeff Tweedy è filmato mentre si esibisce in “Be Not So Fearful”. Ricorda Fay: “Volevano che cantassi con loro? Per me è stato uno shock scoprire che i Wilco si esibissero in “Be Not So Fearful” e alla fine hanno voluto che salissi sul palco e cose del genere. Ogni volta che sono venuti a Londra sono sempre andato a vedere il loro spettacolo, a salutarli e a fare una chiacchierata dietro le quinte”.
Le ristampe del 2005 dei primi due album lo sdoganarono presso una nuova comunità di artisti.  Più di ogni altra eccentrica, oscura influenza, i due album di Fay, “Bill Fay” e “Time of the Last Persecution”, hanno stabilito uno standard per quanto riguarda il testo, la bellezza della musica.  Così, per il suo nuovo album “Life Is People” (Dead Oceans 2012), Fay torna in studio. Insieme a lui, uno stuolo di musicisti guidati da Matt Deighton e la produzione di Joshua Henry, da sempre, suo fan. E “Life Is People” è l’album con il quale assurge a vette altissime come uno dei più grandi cantautori britannici di sempre.

Una delle tante cose ammirevoli di Fay è sempre stata la sua capacità di essere schietto, di evitare la banalità. Così, mentre “Time of the Last Persecution”, fu in gran parte un esercizio di condanna, “Life Is People” è assolutamente ottimista tanto da decontaminare e riscattare qualsiasi ascoltatore impantanato dalla depressione di una vita frenetica. The Never Ending Happening parla di acquietarsi e meravigliarsi della vita, di come anche l’essenzialità del mondo naturale sia impressionante. “Yearning for the day to be/When God will roll his stone away/The never ending happening/Of what’s to be and what has been/Just to be a part of it/Is astonishing to me”. E, anche se questo argomento era già stato trattato in passato, è una gioia sentirlo esposto in modo così solerte. La sfumatura della voce è una benedizione; è un uomo che ha vissuto e che ora è pronto a riconoscere i migliori momenti della propria esistenza. È quasi come se, raccontando gli aspetti più minacciosi del passato, Fay fosse riuscito a dissiparli. Tweedy si unisce a Fay in This World, il brano musicalmente più esuberante dell’album. La cover di Jesus etc. dei Wilco, viene ridotta a una lenta ballata per pianoforte, è così potente che tutto ciò che segue sembra un puro riempitivo. Senza il riff del violino e l’approccio vocale di Tweedy, Fay trasforma la canzone in una versione che trascina le parole nel profondo del cuore.

Anche se sporadico, l’uso di un coro in tutto il disco riduce l’impatto di alcuni brani. Ma in canzoni come Be at Peace with Yourself, il suo impiego sembra un passaggio appropriato, altre canzoni, come Empires, si indeboliscono all’istante una volta che il coro le sovrasta. Eppure, è difficile scremare l’opera di un artista di talento che è appena sopravvissuto alla sua storia. “Life Is People” esprime una perfetta unità di stile, l’impressione di essere stato scritto e interpretato una sola volta, una sera in concerto, nel bel mezzo di un gelido inverno durante un’improvvisazione. In realtà è stato registrato in tredici giorni a nord di Londra presso i leggendari Konk Studios di Ray Davies.
E così, come Sixto Rodriguez e Vashti Bunyan, Bill Fay continua la sua strada meritoria verso la notorietà. La nuova produzione “Who Is the Sender?” (Dead Oceans 2015) segue il lavoro precedente e lo completa in modo ammirevole. L’evoluzione è delicata. Come per il precedente, la copertina di questo album lo fissa mentre si esibisce, mentre suona il pianoforte in modo quasi religioso, entra in conversazione con l’amico di una vita. Il suo genio, l’eleganza della produzione e la finezza della costruzione musicale continuano a illuminare. Il Purgatorio, il ricordo dei tempi difficili è nell’oblio. The Geese Are Flying Westward, la prima canzone, annuncia la ricongiunzione. “The geese are flying westward/The geese are going home/Maybe I should have travelled/To places I didn’t know/Maybe I should have ventured/Outside the places that I know/But I don’t think so/I’m so glad to have seen/The clouds unfurl/And heard the echo of the deep”. Qualche nota sull’organo Hammond, il violoncello che batte il tempo, la voce rassicurante che emette i primi suoni, sappiamo in quel momento che la magia funzionerà di nuovo. War Machine, How Little, Underneath The Sun sono divinamente incatenate insieme. Queste miniature piene di emozioni fungono da rivelazione. La modalità intima di Fay è accattivante. La sua musica è morbida, sobria, limpida e malinconica, ma soprattutto senza tempo. Tutto sembra fluire. “Who Is the Sender?” è un classicismo che si confonde con la materia e una fonte inesauribile di gioia che favorisce la meditazione.

Ascoltando Bring It On Lord, ci si immerge in un sogno. Fay ci porta nella campagna inglese. Ci aggiriamo, poi un magico intermezzo, qualche nota di musica scappa da una piccola chiesa, apriamo la porta, il reverendo Bill è lì al suo pianoforte. Il culmine di questo ritorno, World Of Life, alla fine del viaggio, è un inno alla speranza – accogliente e ottimista – sotto una cascata di violini e fiati. “May the All Presence dear be with you/May beacons everywhere be lit to guide you/May gates be thrown opened wide to receive you/into the World of Life/Is this got to be all there is?/This can’t be all there is?”.
Ma chi è l’uomo che il “New York Times”, in questi giorni, ha descritto come una “gemma nascosta”?
L’ultimo album “Countless Branches” (Dead Oceans 2020) cede il passo a un approccio più sobrio e intimo, anche se Fay riesce ancora a sorprenderci. Ascoltare questo anziano e timido signore – che preferisce evitare le esibizioni dal vivo – è ascoltare una carriera quasi completamente oscura. Fay ha trascorso decenni a comporre con pianoforte e registratore, con un appeal musicale straordinariamente diretto. “Countless Branches” mostra il volto rugoso e vissuto di un uomo di 77 anni con una visione precisa della fine della sua vita. L’artista illumina il velo del soprannaturale senza affrontare direttamente temi come la fede o l’aldilà. Salt of the Earth è un singolo con un bellissimo video che riesce a coglierne la fragilità. Pensate al Bowie che lascia la sua eredità in “Blackstar”. Fay, tuttavia, non è criptico e osa chiamare le cose con il loro nome. “I don’t know now/Maybe one day/I’ll know/If time has a plan, has a goal”, in Time’s Going Somewhere. La maggior parte delle composizioni sono dedicate alle meraviglie della natura e alla transitorietà del tempo. In How Long, How Long sono trattati entrambi i temi: “I heard voices echoing/In through the forest of family trees”. In luogo del pianoforte, Fay mette al centro la chitarra. Your Little Face cerca la bellezza nelle cose più semplici; come il miracolo dell’universo sprofonda nel nulla alla vista di un volto umano. “In the furthest reaches of outer space/Slowly, but surely, a globe was made/But the sprawling sky and the rolling sea/Ain’t nothing compared to the eyes that I see on your little face.
In contrasto con la tematica dell’oscurità, che, da giovane, affrontava, nelle sue canzoni non c’è alcun segno di delusione o risentimento. Il messaggio di Filled With Wonder Once Again non ha bisogno di spiegazioni, proprio come quello di Love Will Remain. L’interazione sommessa tra pianoforte e chitarra qui è seducente, anche se il quadro sembra solenne. “L’amore resterà/quando gli altri linguaggi avranno fallito” è un adagio che siamo felici di fare nostro.
Mentre scrivo mi tornano alla mente due romanzi. Due suggestioni. “Il libro illustrato del giardino”, di Vita Sackville-West, con la sua visione “botanica” del universo e “Il Giardino di Elizabeth” di Elizabeth Von Arnim, un inno alla solitudine, semplicemente in compagnia di noi stessi e delle cose che ci rendono felici. Ma soprattutto la scena finale di “Oltre il giardino” (Being There, in originale, è anche il titolo di un album dei Wilco) di Hal Ashby, i politici pensano a Chance il giardiniere come a un possibile successore, mentre a lui basta sapere che non lo cacceranno, che potrà restarsene radicato negli stessi luoghi, dove ha vissuto a lungo, proprio come una pianta: Peter Sellers cammina su un lago come un profeta disarmato. Un miracolo.
Esattamente come Bill Fay, in uno specchio d’acqua, in un pomeriggio grigio ad Hyde Park.

Riccardo Magagna

"Credo in internet, diffido dello smartphone e della nuova destra, sono per la rivalutazione del romanticismo e dei baci appassionati e ho una grande paura dell'information overload"