BackpagesMono

Willy DeVille – The Greaser

All’inizio c’erano Elvis e Buddy Holly, Jerry Lee Lewis e Phil Spector, ma negli anni successivi, il rock and roll è stato psichedelico, sintetico, abbrutito, barbarizzato, omologato e in generale disumanizzato fino all’autodistruzione. Ma voi prendetevi tutto il mio cuore; qui c’è un sopravvissuto, è qui per far risorgere in voi quell’idea primitiva, quella del rock duro e dolce, duro e delicato, che fa gioire, che fa piangere. La contraddizione è stata per molto tempo il fondamento del rock and roll e io ero una contraddizione. Allo stesso tempo sorprendentemente genuino e filosoficamente surreale, sono cresciuto per le strade di New York come un reietto tra gli emarginati, ma non sono un punk. Un lupo mannaro, forse. Un punk, mai. Forse un filosofo compassionevole e da strada, il gatto più selvatico del quartiere. Quello che per sopravvivere si affidava all’occasionale bidone della spazzatura o ai topi e aveva scarsissimi contatti con gli esseri umani.
New York è stata la mia casa, amico, ma mi ha sempre preso a calci sui denti, mi si incastrava addosso e mi ghignava in faccia, si incastrava, si incastrava e io non ci stavo. Guarda, la vita è un cazzo di ricevimento e la maggior parte dei poveri bastardi non sono invitati. Si deve lottare in questo mondo. C’era gente a New York che flirtava col nulla. Ero troppo in relazione con il nulla per farlo. Sapevo quanto fossi grande nell’universo e tutto per me era stato scritto molto tempo prima che io nascessi. Sono stato influenzato dalla musica fin da giovanissimo. La radio era lì ogni mattina, sul tavolo a colazione. La prima volta che mi ricordo di aver urlato: “Wow! Che cos’è? Mi piace questo!” Era una canzone delle Crystals, forse “Da Doo Run Run Run” o “Then He Kissed Me” – una di quelle con quel suono davvero profondo. Avevo tipo dodici anni e ho iniziato a cantare insieme alla radio. La prima volta che ho voluto salire su un palco e cantare davanti alla gente è stato in questo localino di quartiere, quello fu il nostro primo concerto e, Gesù, non credo nemmeno che avessimo i microfoni eppure abbiamo suonato. Poi c’era un tizio, Rog, era il cattivo della scuola, era un duro, era veramente cattivo. Veniva a scuola tutti i giorni vestito con una camicia increspata, un gilet rosso, pantaloni neri iridescenti, scarpe nere col tacco alto, era molto latino, così Rog si alza e inizia a cantare “Valerie” di Jackie & the Starlites e a metà della canzone, questo ragazzo cosa fa, piange e continua a piangere. Era davvero giù, amico, stava facendo Jackie Wilson, il sudore che gli scorreva via e piangeva e io gli dissi ‘Hey, wow!“.Willy DeVille - guitar

Ho lasciato la scuola al decimo anno. Sono sempre stato considerato uno stronzo, non mi sono mai inserito a scuola, sono sempre stato guardato come “lo stronzo“. Mi diressi verso il West Village per provare a far musica. Era come se avessi semplicemente passato un po’ di tempo con me stesso. Ho sempre voluto suonare musica, ma nessuno l’aveva mai fatta con me. Avevano tutti gruppi psichedelici, ma non era roba per me. Era un po’ tutto così “I love you, I love you, I have a flower, and that whole God trip“. Facevano cagare. I migliori erano i Moby Grape e Sly Stone e Santana, i Doors? Mah, gli Airplane avevano come cantante una pollastrella, Janis Joplin faceva Etta James.
Disilluso, dissociato, disincantato, annoiato e ancora alla ricerca di qualcosa, decisi di lasciare New York per Londra. Me ne sono andato tutto da solo. Ho venduto tutto e sono partito. Hanno iniziato a dire che mi avrebbero odiato perché ero americano, ma poi ho capito che, se sei un artista e vivi sulla strada, non importa da dove vieni.
Non ci volle molto tempo prima che i soldi e il visto finissero così tornai negli Stati Uniti. Decisi di andare a San Francisco – a New York non c’era davvero più niente, il flower power era morto, era la vera ‘Night Of The Living Dead‘. Così ho comprato un furgone e mi sono diretto a ovest. Ho viaggiato in tutto il paese per un paio d’anni, alla ricerca di musicisti che avessero cuore, non cazzoni da assoli di 20 minuti e alla fine li trovai. Ho incontrato Manfred a una festa. Aveva suonato in giro con John Lee Hooker e un sacco di altri bluesman. Ho incontrato Rube durante una jam in una cantina e a lui piaceva tutto quello che piaceva a me dai Drifters a Fritz Lang. Le fondamenta dei Mink DeVille erano state gettate. Ma c’erano poche opportunità di lavoro a San Francisco e tornammo presto a New York. Il lavoro era scarso anche lì, il circuito era ristretto e cambiammo una serie di chitarristi prima dell’arrivo di Louis X. Erlanger, un altro rifugiato da Frisco. Fu con il contributo di Erlanger che il materiale originale per la band cominciò a prendere forma e di conseguenza la nostra reputazione crebbe. Il CGBG’s è stato lo sfondo dell’album che ci ha permesso di avere visibilità al di fuori di New York, nonostante non fosse veramente rappresentativo del gruppo. L’unica cosa che volevo metterci dentro era “Cadillac Moon” sul resto, beh non avevo scelta. Sono salito in studio e un tizio mi ha detto: “Ogni volta che qualcuno viene qui mi costa 100 dollari” e io gli ho risposto: “Okay, risparmia“. Ha impiegato 45 minuti per mixare tre canzoni. Voglio dire, le chitarre erano così fuori sintonia. Stavo suonando una chitarra giapponese con una cazzo di pelle di leopardo. Ma c’era qualcosa che mi piaceva. Non so cosa. Era tutto così entusiasmante.Willy DeVille - club
Al CBGB’s incontrammo anche Ben Edmonds della Capitol Records. Era venuto a vedere i Tuff Darts e credo che pensasse che fossimo un po’ troppo macho per lui. Quella sera non avevamo nemmeno il nostro tastierista e suonammo un set molto corto, ma gli piacemmo. E molto. In un men che non si dica ero in questa grande stanza d’albergo a bere vino e a parlare con lui. Per produrre il nostro primo album ingaggiarono Jack Nitzsche. Fu una scelta del tutto naturale, dato che Jack aveva lavorato con gruppi che avevano costruito la nostra colonna sonora – come le Crystals e le Ronettes. Mi trovavo benissimo con Jack. Era un rapporto spirituale. A volte con lui era come guardarsi allo specchio. Arrivammo al punto che non dovevo nemmeno parlare, bastava dire: “Jack!” e lui rispondeva: “Sì, credo di sì“. Era tutto molto magico – un sacco di pressione, ma una pressione positiva. C’è qualcosa in “Cabretta” che nemmeno capisco. Ma tutto quello che c’era poteva essere riprodotto su un palco. Doveva essere a tutti gli effetti, crudo e maleducato. Un po’ come un party album. Volevo che la gente se ne innamorasse. Voglio dire, ai ragazzi piacciono ancora le ragazze, vero? Sarebbe stato come andare a un ballo. La gioventù non cambia mai. Stavo riportando il rock and roll da dove era partito – ricordate tutte quelle canzoni sull’amore adolescenziale; le brave ragazze e i cattivi ragazzi; le notti calde e le macchine calde? Allora mettetevi comodi, rannicchiatevi sul divano con qualcuno che amate e ascoltate, sentirete l’inizio della mia leggenda. Fanculo le palpitanti linee di basso. Se solo farai un respiro profondo e ascolterai, sentirai il suono del rock and roll rinascere – sanguinante, nudo e piangente, pieno di vita.
Io sono Willy DeVille, nome d’arte di William Paul Borsey Jr., un romantico lupo mannaro.

Sempre sulle nostre pagine, a questo link, puoi leggere l’articolo “Un ricordo di Willy DeVille (25/08/1950 – 06/08/2009)”, scritto in occasione del decennale della scomparsa.

Riccardo Magagna

"Credo in internet, diffido dello smartphone e della nuova destra, sono per la rivalutazione del romanticismo e dei baci appassionati e ho una grande paura dell'information overload"