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Un ricordo di Willy DeVille (25/08/1950 – 06/08/2009)

Rullata, pennata di chitarra, voce: “This must be the night I can feel it to my fingertips. Maybe just around the corner something’s waiting for me” .

Me ne innamorai subito. Ora date un’occhiata alla lista delle uscite discografiche dell’Anno di Grazia 1980: capogiro? Non siete i soli, tranquilli: è l’effetto naturale che può causare quella lista. Nell’anno in cui Bruce Springsteen pubblicava “The River”, i Talking Heads “Remain In Light”, a fianco di “Sandinista!” dei Clash e “Boy” degli U2, un album incorniciato in una copertina virata in blu (capolavoro già di suo) faceva sfracelli nei cuori degli appassionati di quel genere dell’ East Coast che, leggermente a nord rispetto ad Asbury Park, mischiava il classico r&b al punk del CBGB’s e alle atmosfere latine della Lower East Side newyorkese. Non era esattamente un suono “à la page” (pensate ai titoli dei tre gruppi citati sopra: un abisso, dal punto di vista del sound), ma se avevi un cuore pulsante non passavi oltre.

William Paul Borsey Jr.era nato il 25 agosto di trent’anni prima a Stamford, cittadina del Connecticut sufficientemente vicina alla Grande Mela da consentire a questo eccentrico dal look gitano di subirne il fascino e lasciarsi influenzare, ribattezzandosi DeVille. “Le Chat Bleu” era già il terzo album dei Mink DeVille, il suo gruppo, e dopo essere stato folgorato il Vostro umile cronista avrebbe immediatamente arricchito la collezione, prima di capitolare definitivamente all’altezza del seguente capitolo, “Coup de Grâce”. Il 6 agosto 2009 Willy DeVille lasciava questa terra, dopo una vita di eccessi, dipendenze e lotta contro quella maledetta malattia. L’ultima volta che l’avevo visto dal vivo era tredici mesi prima, ad Asti, in compagnia di un caro amico. A un certo punto osservandolo mentre cercava di togliersi dalla spalla la cinghia della chitarra e, irritato per il fallimento dell’impresa, saltava un pezzo in scaletta perché non riusciva a cambiare strumento, ci guardammo e simultaneamente domandammo l’un l’altro: “Lo vedremo ancora?”. In quel gesto, in quel nervosismo, si percepivano la sua sofferenza e la debolezza che lo costringevano ad esibirsi appoggiato a uno sgabello, condizione che non gli impediva di offrire comunque la solita, favolosa performance. Non potevamo immaginare quanto fossimo profetici, in realtà speravamo di aver dato prova di augurio scaramantico.

Ma si sa: col Loup Garou non si scherza. Quella voce soulful, annegata nel bourbon, quella chitarra immersa nel blues, le canzoni intrise di romanticismo da strada, lo stesso delle backstreets di Springsteen, delle lune vagabonde di Willie Nile e delle luci notturne di Elliott Murphy, la passionaccia per i Drifters e Lou Reed: quante cose ci mancano di lui? Anche quel look che si aggiornava man mano che il riferimento sonoro cambiava pelle, passando da New Orleans e lambendo il jazz-blues, il folk (persino quello messicano) e le sfumature del country. Ascoltateli, i suoi dischi: scoprirete di conoscere perfettamente un suo pezzo ritmatissimo e “latino”, risalente a ben prima che il genere tornasse di moda, e cercate di ricordare la sua apparizione nella trasmissione televisiva che quella canzone utilizzava come sigla, ma scoprirete anche un Artista vero, come ne nascono sempre meno.

Massimo Perolini

Appassionato di musica, libri, cinema e Toro. Ex conduttore radiofonico per varie emittenti torinesi e manager di alcune band locali. Il suo motto l'ha preso da David Bowie: "I am the dj, I am what I play".