Live Reports

37° di autentico godimento – I Pixies Live @OGR

Ciò che si vive davvero, direttamente, senza filtri e senza intermediari, è abitualmente più saporito e articolato, e di norma molto meno ‘piatto’: la differenza è sostanziale, quanto quella tra un disegno a due dimensioni e un ologramma tridimensionale.
Eppure c’è gente – e anche parecchia, a quanto pare – che non va ai concerti, forse perché li ritiene non essenziali, inutili o (mi rendo conto dell’eresia che sto per scrivere, perdonatemi) ridondanti: perché, d’altra parte, “andare a sentire un gruppo o un artista che suona dal vivo non può aggiungere molto di più alla musica che si può ascoltare comodamente a casa, seduti sul sofà”.
Basterebbe poco per confutare questa teoria assurda, formulata appositamente da esseri di poco spirito, e di alcuna propensione alla percezione multisensoriale di note e modulazioni di frequenze strumentali: così poco che, per quanto mi riguarda, potrei anche interrompere qui la redazione di questo articolo senza fornire altra dimostrazione ulteriore.
Sempre che stia cercando di convincere qualcuno della teoria opposta: cosa che ovviamente non è.
Pixies
Perché così come vivere dal vivo la musica mentre viene suonata è un atto di passione, scriverne il giorno dopo può solamente essere una manifestazione di assoluto amore: una specie di lettera di manifesto soggiogamento, una presa di coscienza palese e arresa di ciò che quella musica è riuscita a farti, entrandoti nelle arterie e solcandoti ogni più piccola ruga del tempo così come se fosse puntina, e tu un oscuro e brunito vinile che – nella musica – rischiari.
Sabato sera quasi duemilaottocento corpi oscuri di diversa rotondità e incisione hanno vibrato all’unisono sotto la ruvida carezza del braccio sonoro dei Pixies: loro si autentica puntina di diamante grezzo, che direttamente da Boston – cuore pulsante del capoluogo della contea di Suffolk e capitale del Commonwealth del Massachusetts – è discesa, in una trepidante Torino già immersa nella frescura di un ottobre non ancora pienamente autunnale, con il suo movimento carico di aspra e rocciosa sapienza.pixies
Due ore di ‘rock dissonante’ fatto di sequenze infinite di suoni imperfettamente calibrati, condotte con appassionata resistenza dalle corde – sia quelle fatte di nitido metallo in distorsione della sua fedele Martin, sia quelle di puro zaffiro della sua estesa voce da “folletto”, che sa spaziare con disinvoltura dall’urlato alle semplici e tradizionali melodie – di Charles Michael Kittridge Thompson IV (in arte Frank Black), affiancato dai suoi sodali di sempre: il virtuoso chitarrista Joey Santiago, il poderoso e preciso David Lovering alla batteria, e Paz Lenchantin, seconda voce e anima ritmica di tale incalcolabile capacità e presenza scenica da riuscire quasi a far dimenticare l’ormai acclarata assenza della stupenda Kim Deal.
E che i Pixies siano venuti a Torino non per giocare ma per dar vita ad una serata di autentico e assoluto rock senza fronzoli, lo capisce subito anche tutta l’immensa sala delle Officine Grandi Riparazioni: tra quelle pareti dove una volta mani muscolari e abili riparavano le grandi locomotive che macinavano chilometri su rotaia, ora mani sonoramente poderose riparano tutto ciò che solo il grande rock può riparare.
Spiriti, cuori, e anime.
Così come avevano fatto la sera prima a Bologna, i quattro paladini dell’alternative anni 80 attaccano con le note dell’unica cover della serata (“Cecilia Ann” dei Surftones) seguite subito da “St. Nazaire”, prima canzone delle otto del set di serata tratte dall’ultimo loro lavoro Beneath the Eyrie (di cui abbiamo parlato circa un mesetto fa qui ): “I’m all done talking to you, oh – And I don’t wanna be true, no – I’m all done talking to you”, grida Frankie, mentre i decibel in elettrica distorsione dei loro strumenti si accoppiano ai suoi modulati saliscendi vocali colando inebriante rock sulla folla. Non c’è spazio per elzeviri dal palco, non c’è necessità di ammiccanti saluti in platea: c’è solo voglia di sentirli suonare e cantare al meglio e al massimo delle loro volitive possibilità.
Ed è proprio questo che fanno; e mentre i pezzi si inseguono uno dopo l’altro senza tregua, le teste iniziano a scuotersi, le gambe a muoversi su e giù quasi da sole. Fra “River Euphrates” e “Brick is red”, primi due pezzi di Surfer Rosa, mi metto a guardare le facce di fan che – come me – si stanno facendo innalzare sempre più in alto da quella musica che unisce il nostro e il loro passato a questo presente come farebbe qualsiasi altra ‘time machine’: e tra facce che di primavere ne han viste certo più di Doolittle, e occhi sorridenti che quasi brillano per la giovinezza che gli si legge dentro, incrocio lo sguardo di un giovane ragazzotto biondo con la maglia dei Butthole Surfers, con occhi spalancati appena quanto lo dev’essere il suo incendiato spirito.
E nel vedere il suo trasporto mi viene da pensare ad un Kurt Cobain molto giovane e ancora non famoso, perso più di 30 anni fa nella platea di un loro concerto di fine anni 80; lo stesso ragazzo appassionato che, parlando poi di “Smells like teen spirit”, dichiarò il suo amore sincero per la musica dei Pixies, a cui si sentiva “connesso in maniera così pesante che avrei dovuto farne parte, o almeno far parte di una loro cover band.” Siamo quasi come lui, a destra e a sinistra del palco, in connessione: sulle distonie di “Where is my mind” – dopo essere da poco passati per le melodiche assonanze di “Here comes your man”, saltellando su e giù – non c’è più nessuno nella sala che non si senta assalito da tutte quella musica senza pausa, in continua caduta.
Non una parola, non un sorriso, non una schitarrata fuori posto: non c’è tempo. Lo spirito punk che albergava nella scena alternative anni 80, che animava gruppi come i Sonic Youth, Dinosaur Jr, Husker Du e gli stessi Pixies, sta aleggiando dall’inizio del concerto sopra le nostre teste e dentro le nostre viscere. Siamo lì per vivere quello che ci era promesso: una serata di rock autentico, senza sbavature né intingoli. E mentre dalle parole di “Gouge Away” (Gouge away, You can gouge away, Stay all day, If you want to) saltiamo accennando quel tanto di headbanging che serve fino a “Hey “ e “Debaser” (Wanna grow up to be, Be a debaser), siamo tutti certi che quei 4 cavalieri dell’Apocalisse in rock non siano dei “Debasers”: nulla di meno falso in loro, nulla di meno artefatto.
Autentici strumenti del rock tonante, un dio di calibrata e possente accordatura.
Il concerto si conclude sulle note del trentasettesimo brano in scaletta, “No. 13 Baby”, tra acclamanti applausi e urla di soddisfatto e sfamato appetito musicale e, uscendo dalla sala, io non posso fare a meno di canticchiare un vecchio adagio non di proprietà dei quattro musicisti che, con un semplice gesto della mano e un veloce inchino, hanno appena salutato i presenti in quel di Torino.
Quell’australianissimo mantra rock da cui tutti, prima o poi, siamo passati e che ammonisce ironicamente tutti: “If you think it’s easy doin’ one night stands, Try playin’ in a rock roll band”. Energia per energia, io quella che hanno distribuito i Pixies me la sono assorbita tutta. Ne ho anche un po’ per quelli che si ostineranno ad ascoltare la musica solamente in “differita”: un tocco veloce, un assaggio da “folletto”.
Che la loro pignatta del rock, io, me la sono conquistata: e me la tengo stretta, ancora per un bel po’. Di sicuro, fino al prossimo ‘Live’.

Se inve

Stefano Carsen

"Sentimentalmente legato al rock, nasco musicalmente e morirò solo dopo parecchi "encore". Dal prog rock all'alternative via grunge, ogni sfumatura è la mia".