Mono

Townes Van Zandt – For The Sake of the Song – Pt.1/2

È una notte gelida a Londra, il 3 dicembre 1996, un texano filiforme si esibisce sul palcoscenico del Borderline sulla Charing Cross Road. Scuote e agita la sua chitarra. Sarà il suo ultimo concerto. Un mese dopo morirà. Townes Van Zandt è stato un grande scrittore americano che ha trasformato la propria vita nel grande romanzo americano. Era una romantica canaglia che viveva come la reincarnazione di un musicista bluegrass degli anni Venti. Ha girato gli Stati del Sud, vagabondo e musicista, con giusto il necessario per mangiare e ubriacarsi, dormendo dove capitava, ammaliato dal sogno di libertà delle highways. Il viaggio di Van Zandt si è frantumato attraverso il Texas, il Colorado, il Tennessee, e infine lo ha portato a Charing Cross Road. Quella sera entrò e uscì da Londra di nascosto, senza clamore. Quando morì, il giorno di Capodanno del 1997, all’età di 52 anni, lo stesso giorno del suo eroe Hank Williams, la cosa più sorprendente fu che avesse vissuto così a lungo. È stato definito “il James Joyce della canzone texana” e “uno dei più grandi poeti americani del XX secolo”. Gli ultimi 18 mesi sono stati forse i più fortunati della sua vita.
Non ha mai pubblicato un album su una grande etichetta. Non è mai stato nel music business e non si è mai preoccupato molto della sua carriera. Non si è mai preoccupato di nulla, tranne scrivere e andare in tour. Amava il suo paradosso: viverlo e diffonderlo. Nato nel benessere, preferì la compagnia dei poveri e dei disperati. Era uno sfacciato burlone che scrisse alcune delle canzoni più tristi del secolo. Cantava di quanto fosse prezioso essere vivo, eppure passava buona parte della sua vita uccidendosi con droghe e alcol. Dalle canzoni di Van Zandt si ha l’impressione che non si aspettasse di vivere a lungo. Andava alla deriva spostandosi da un posto all’altro, a volte suonando, a volte semplicemente bevendo. Le sue canzoni vagano lungo una strada che non porta da nessuna parte. Riconosce fin dall’inizio i suoi viaggi come un modo per segnare il tempo. “I guess I’ll keep a gamblin’,” canta, “lots of booze and lots of ramblin’. It’s easier than just waitin’ around to die”. Quelle canzoni – precise, poetiche, profetiche e tanto peculiari quanto belle – lasciano un’eredità destinata a crescere, mentre la musica di molti dei suoi più noti contemporanei semplicemente svanisce. In tutto ciò che scriveva si profilava una tristezza metafisica e una grazia naturale; le sue melodie avevano una bellezza unica, mentre una voce fiacca reggeva al suo interno i tradimenti e i sogni infranti di mille vite perdute. La sua immagine era quella dell’astuto, fragile vagabondo che cercava di lenire l’anima tormentata con canzoni, viaggi, bevute e relazioni intime. Ogni tanto parlava di una depressione consumante che lo mandava in un incantesimo di “perdita totale di significato e di motivazioni”. “Non sono riuscito a trovarne la causa. Ci sono state molte volte in cui la depressione con me è diventata fisica, mi ha fatto veramente male. Mi stava straziando, straziando il mio cervello, tutto il mio corpo, fino al punto in cui mi tenevo la testa e urlavo”. Quando l’album “The Late Great Townes Van Zandt” uscì, nel 1973, Townes abitava in una baracca con un tetto di lamiera nei boschi del Tennessee e sopravviveva mangiando carne di procione. Questo era il suo modo di farcela nel mondo della musica. Si è trasferito con l’idea di lavorare con i produttori di Nashville, ma non arrivò mai dove aveva sede il mercato della musica. Invece, coltivò le meraviglie del mattino. Quando l’album apparve, con quel titolo scritto a caratteri gotici, neri, la gente pensò che fosse morto. Era già morto due volte. A volte era in preda alle convulsioni: in privato, in pubblico e sul palco. Una volta scommesse un dente d’oro in una partita a carte e perse. Con qualche sorso di Southern Comfort come unico anestetico, istruì un amico a estrarre il dente con una pinza, per poi scoprire che l’uomo aveva estratto il dente sbagliato.”The Late Great” è il migliore degli album in studio di Townes, ma la sua registrazione più avvincente è “Live At The Old Quarter”, che cattura un’esibizione in un club del centro di Houston. Si può sentire il malessere del pubblico mentre scivola dall’adorabile “To Live’s To Fly” a “Thunderbird Blues”. Era come se fosse due persone. Per questo aveva due case: ma una sola era la sua casa.La Highway 59 è una riga tracciata attraverso il cuore del Texas, un filo teso sulla carta stradale che lega tante piccole città, tanti nodi da Laredo a Texarcana, sul confine settentrionale. Per la gente nata e cresciuta ai margini del percorso, ha sempre rappresentato un arco di possibilità e di speranze.
Non per Townes, però. Lui era texano da generazioni, sia dal lato paterno sia da quello materno. La convinzione di essere speciali, di avere la fibra per sopportare quel che altri non potevano, era il segno più marcato del suo adattamento alla vita. Un’arroganza nata da autentica forza d’animo: uno scudo omerico contro le gelosie meschine e le ingiustizie che occupavano buona parte del tempo, contro gli sguardi oppressivi e invadenti che frugavano ogni aspetto della vita: quel che mangiavi, chi sposavi, come ti vestivi o portavi i capelli, quale musica ascoltavi.

 

To Live’s To Fly

John Townes Van Zandt, nato il 7 marzo 1944. Nel 1842 il suo trisavolo Isaac Van Zandt era stato nominato Incaricato d’affari negli Stati Uniti dal Presidente del Texas Sam Houston. Isaac morì mentre era in corsa per la carica di governatore, cinque anni dopo; la Contea di Van Zandt, circa cinquanta miglia a est di Dallas, prese il suo nome. Le generazioni successive dei Van Zandt furono protagoniste della sua storia civile e costruirono Fort Worth, trasformandola da una polverosa città piena di bestiame in un centro commerciale del Nuovo West. Townes deve il suo nome a John Charles Townes, il suo bisnonno da parte di madre, a lui è intitolato il “Townes Hall”, l’edificio principale dell’Università del Texas alla Austin School of Law. Quando Townes aveva nove anni, vide Elvis Presley all’Ed Sullivan Show e chiese, per Natale, a suo padre una chitarra. Anche se la famiglia si spostava frequentemente, la sua infanzia fu serena: praticava la lotta libera e giocava a baseball e a football. Era un bambino allegro e divertente, ed era intelligente. Townes era un piccolo genio e per gli ultimi due anni del liceo, i suoi genitori lo mandarono alla Shattuck Military Academy di Faribault, Minnesota. Amava il teatro e i sonetti di Shakespeare. Scriveva poesie.
Era fondamentalmente pronto a diventare un avvocato o un senatore del Texas. Nel 1962 si iscrisse all’Università del Colorado a Boulder, suonava per divertimento soprattutto Lightnin’ Hopkins e Hank Williams. Era un bravo studente, ma non tutto, però, andava bene. Fu durante gli studi di legge che Townes decise di scoprire “what it was like to fall”. Fino a quel momento era stato uno studente esemplare. Cominciò a bere in modo incontrollato, come avrebbe fatto per il resto della sua vita. Nella canzone “Fraternity Blues” mette una luce spensierata sulla sua alienazione dalla vita universitaria, raccontando come andando a una festa della sua confraternita la trovasse piena di fighetti “a bere whisky, alexanders, daquiri e a recitarsi addosso l’alfabeto greco”. Townes finì per vomitare su un divano. Quando beveva faceva cose folli. Una sera si lasciò cadere all’indietro da un balcone al terzo piano. Nella primavera del secondo anno, i genitori, che vivevano a Houston, volarono a Boulder per riportarlo a casa. Tutti pensavano fosse un alcolizzato con istinti suicidi. Lo ricoverarono al reparto medico dell’UT Medical Branch di Galveston. Tre mesi di elettroshock. Era un periodo in cui si usavano misure estreme per cose del genere, sembrava stesse bene, sembrava un normale universitario.Nella primavera del 1965, Townes si iscrisse all’Università di Houston come studente di diritto e ad agosto si sposò con Fran, che aveva conosciuto a Boulder. Voleva l’avventura e la disciplina, cercò di entrare nell’aeronautica militare, ma i medici erano contrari. Il suo stato era quello di “maniaco depressivo acuto”. Dopo anni passati a suonare la chitarra per sé e per i suoi amici, decise di finalmente esibirsi davanti a un pubblico. Frequentava il Jester Lounge di Houston, dove apriva per artisti come Lightnin’ Hopkins, Guy Clark, Jerry Jeff Walker e Doc Watson. Dall’ascolto di Hopkins, sviluppò la sua scrittura. E iniziò a comporre brani inediti come la già citata “Fraternity Blues”. Più tardi raccontò al deejay Larry Monroe di Austin che aveva ascoltato The Times They Are a Changin’ di Bob Dylan e aveva deciso: “Questo è quello che farò”. Se la musica era nel suo cuore, stava ancora studiando per diventare avvocato. Molte personalità di Townes facevano le cose perché era quello che dovevano fare, ma nel gennaio 1966 il padre morì all’età di 52 anni, lo spinse a lasciare definitivamente la scuola, e a voltare le spalle al suo passato per dedicarsi alla musica. Era come una versione ingenua del personaggio di Jack Nicholson in “Five Easy Pieces”, il figlio di talento di una famiglia privilegiata che aveva scelto di trasformarsi in un signor nessuno. Aveva sempre visto suo padre come un uomo sensibile, ma in trappola. Allora, per la prima volta, si mise in viaggio, suonando con Walker e Clark, e cominciò seriamente a scrivere canzoni. Una delle prime fu “Waitin’ Around to Die”, una sorta di road map per i suoi anni da adulto: “Now I’m out of prison, I got me a friend at last/He don’t steal or cheat or drink or lie/His name’s codeine, he’s the nicest thing I’ve seen/Together we’re gonna wait around and die”. E visse secondo quelle parole: “Sarei stato un bluff a cantare il blues senza viverlo”. Si trasferì ad Austin dove entrò a far parte della scena musicale della fine degli anni Sessanta. Anzi, per un po’ di tempo visse anche con Roky Erickson dei 13th Floor Elevators, e lì arrivò l’eroina, anche se l’alcool, la droga della malinconia del sud, fu sempre la sua principale dipendenza. Lightnin’ Hopkins gli aveva insegnato a imparare da tutti, ad “assaporare l’oscurità”. Nel 1967, Townes si recò a Nashville, dove una sua registrazione catturò l’attenzione di Kevin Eggers, che andava in cerca di artisti per la sua neonata etichetta indipendente, la Poppy Records. L’anno successivo, Eggers pubblicò il primo album di Townes, “For the Sake of the Song”, che contiene alcune delle canzoni più struggenti – “Waitin’ Around to Die”, “Tecumseh Valley” oltre a “The Velvet Voices” e “All Your Young Servants”. Nei cinque anni successivi, il “Texas blue blood” trasformò “il Texas bluesman” e realizzò altri cinque album, tutti sulla piccola Poppy. A volte erano sovraprodotti, il melange di Nashville rischiò di distruggere la sua cupa immaginazione, ma le canzoni che scrisse in quel periodo erano tra le sue migliori. Influenzate da Shakespeare tanto quanto da William Carlos Williams e Bob Dylan, raccontavano del romanticismo del vagabondo, del sacro fardello dei sentimenti, del fascino silenzioso, dei dolorosi fallimenti dell’amore e della totale solitudine degli esseri umani. Inni alla gioia privi di sentimentalismo, blues privi di autocommiserazione e melodie dolorose. Townes credeva che l’universo fosse colmo di canzoni che aspettavano solo di essere portate giù. Diceva che “Pancho e Lefty” era comparsa dalla finestra di una squallida camera d’albergo e che “If I Needed You” gli fosse venuta nel sonno, in un sogno febbrile causato dall’influenza. “Mi hanno dato un colpetto sulla spalla dall’alto e mi hanno detto di scrivere queste canzoni”. “Quello che faccio è tra me e il Signore, per modificare lo stato di Grazia nel quale vivo e lo stato di Grazia di chiunque ascolti”.

 

Il suo impatto fu indiscutibile. Emmylou Harris ricorda di averlo visto al Gerde’s Folk City a New York nel 1969. “Sono rimasta sbalordita, non avevo mai visto niente del genere. Pensavo fosse il fantasma di Hank Williams”. Nel 1969 Townes, mentre si trovava a Lubbock per andare a Houston in autostop, con lo zaino pieno di copie del suo “Our Mother the Mountain”, chiese un passaggio al giovane Joe Ely dei Flatlanders. Si sdebitò con una copia del disco; quella notte Ely e Jimmie Dale Gilmore rimasero svegli ad ascoltarlo: “Ogni canzone sembrava un sogno” disse Ely, “Erano dipinte di blu scuro”. Così scoprirono Townes.
Nel 1971 finì in overdose di eroina. Lo salvarono all’ultimo. Nel documentario del 1975, “Heartworn Highways”, lo si vede girovagare a Austin in un campo pieno di rifiuti in pieno giorno con una lattina di Coca Cola e un fucile armato a pallini. Un po’ più avanti è nella cucina di una baracca con Cindy, la sua fidanzata, e la leggenda locale Uncle Seymour Washington. Si accende una sigaretta e canta “Waitin’ Around To Die”. Trascorse la maggior parte degli anni Settanta spostandosi tra Austin, Houston, Nashville, New York e le montagne intorno a Crested Butte, Colorado. Lui e Fran divorziarono nel 1970; nel decennio successivo si sposò e divorziò di nuovo. Stava vivendo la vita della quale scriveva forse perché era cresciuto in una società d’élite, ne rifiutò un’altra: la rarefatta gerarchia della scena musicale di Nashville. Si circondava di gente disperata, non aveva bisogno di  spiegare loro il suo modo modo di vivere. L’ultimo decennio di Townes gli diede molti spunti. Nel 1987 pubblicò “At My Window” su una nuova etichetta, la Sugar Hill Records. A 43 anni viveva a Nashville con la sua terza moglie, Jeanene, e il loro figlio di quattro anni, Will (l’altra figlia, Katie Belle, sarebbe nata nel 1992). Una nuova generazione di musicisti lo stava scoprendo. I Mudhoney registrarono la sua “Buckskin Stallion Blues”, i Cowboy Junkies lo invitarono a fare un tour con loro. Ma in ogni momento alto della vita di Townes, c’è sempre stato un momento basso. Una esistenza dura che pretendeva gli interessi. Lo si sentiva nella sua voce, che era diventata più bassa e sottile e, talvolta, si arrestava; spesso recitava i testi invece di cantarli. Lo si sentiva nelle sue nuove canzoni,  meno frequenti, meno sottili del passato. “A Song For”, la prima canzone, inesorabilmente tetra, del suo ultimo album “No Deeper Blue” (1994) era un messaggio d’addio. Lo si poteva vedere nelle sue performance dal vivo, dove a volte sembrava che stesse morendo sul palco. Cercava di razionare il bere. Smetteva tra le quattro e le nove di sera nel giorno dello show. Eppure la gente arrivava, per curiosità, per vedere se si sarebbe schiantato, ma soprattutto perché Townes era dalla loro parte, e il suo cuore riempiva il locale. Mostrava il suo dolore più profondo sotto le luci. Si metteva a piangere nel bel mezzo di uno spettacolo. Amava suonare davanti alla gente, si sentiva al sicuro sul palco. Una sera suonava all’Austin’s Cactus Cafe, era nel 1996. Traballava, cercava di non bere troppo. Aveva il cavo del microfono attorcigliato intorno alla cinghia della chitarra. La folla cominciò a mormorare e, alla fine, il tecnico del suono corse su e gli fissò la cinghia. Fu un calvario di quaranta secondi. Era tutto così silenzioso che non si sentiva cadere uno spillo. Townes alzò lo sguardo dal suo braccio, ancora tremante, e disse: “Non vi preoccupate, peggiorerà ancora molto”. E tutti risero. L’unica cosa che avrebbe voluto, era scrivere la canzone perfetta. Quella che avrebbe salvato la vita di qualcuno. L’unica cosa che i suoi amici e la sua famiglia volevano era aiutarlo a salvarsi. Si era fatto portare in un centro di cura di Nashville, ma non prima di aver bevuto un ultimo drink all’aeroporto di Dallas. “Amigo, sono trent’anni che bevo”, gli disse Townes. “Non posso sentirmi in colpa se non riesco a fermarmi”. “Quando gli ho detto che beveva troppo”, racconta Susanna Clark, mi ha risposto: “Susanna, vai in India, là c’è gente sobria”.Townes si aggravò negli ultimi tre anni, quasi morì nel 1994 quando Jeanene, ormai terza ex moglie, lo portò al Vanderbilt di Nashville per una polmonite. Poi, la vigilia di Natale del 1996, cadde e si distrusse l’anca; accettò di andare in ospedale solo la settimana dopo, i medici dissero che la frattura era grave. Dopo aver fatto promettere a Jeanene che non lo avrebbe abbandonato, all’una del mattino del primo gennaio lasciò che i medici lo operassero. Jeanene lo riportò a casa lo stesso giorno. Alle dieci di quella sera, mentre era a letto a mangiare formaggio, cracker, e roast beef, con Will e Katie Belle intorno, mentre Jeanene era al telefono con Susanna Clark, Townes ebbe un infarto e morì. Suo padre era morto di infarto a 52 anni. Townes sapeva che la stessa sorte sarebbe toccata a lui.
Ebbe due funerali, uno per ciascuna delle sue vite. Nella città di Didone, nel nord del Texas, dove era nato suo padre, fu per lo più un affare di famiglia. Le sue ceneri furono sepolte sotto una lapide con l’epitaffio “To Live’s to Fly”. Durante la funzione, il figlio maggiore del cantautore, J.T. Van Zandt, raccontò di aver sentito della morte del padre mentre era in viaggio con il suo pick-up per andare a pescare a Corpus Christi Bay. Di recente, erano stati insieme in Alaska, in un viaggio tortuoso attraverso il Canada. Lungo il tragitto, gli parlò di un angelo bianco che gli era apparso e gli aveva offerto conforto avvolgendolo “nella soffice lanugine delle sue ali”. Non sapeva cosa pensare di tutto questo, perché suo padre, in altri tempi, diceva di vedere folletti e streghe. Ebbene, dopo una performance particolarmente intensa in una chiesa di Juneau, in Alaska, J.T. ascoltò suo padre mentre conversava con uno sciamano locale. Non capiva molto di quello che dicessero i due, ma vedeva che comunicavano in modo profondo. Ricordava di essere rimasto sbalordito quando lo sciamano gli disse che un angelo bianco si librava dietro di lui, proteggendolo. Per J.T. fu la conferma del suo legame raro e forte con il mondo spirituale. “Avrò sempre il ronzio delle sue automobili nel mio cuore”, disse il figlio, “era un uomo meraviglioso”.
La funzione di Nashville, invece, fu un evento musicale. Amici come Steve Earle e Lyle Lovett fecero lelogio funebre. Come spesso accade dopo la morte di qualcuno gli omaggi e i necrologi non mancarono. Il New York Times, per esempio, lo definì un ragazzo ricco che aveva trascorso “molti dei suoi anni della sua adolescenza in un istituto psichiatrico e mangiava cibo per cani per sopravvivere. Shit”.
Al momento della sua morte Townes e Steve Shelley dei Sonic Youth stavano preparando un album per la Geffen Records, sarebbe stato il suo esordio in una major. Si divertiva a farsi scoprire dalle giovani generazioni. “Sono lo stampo in cui è cresciuto il grunge” diceva. Registrarono quattro canzoni, tra le quali “Screams From the Kitchen”; il ritornello faceva “Good-bye to the highway, good-bye to the sky. I’m headed out, good-bye, good-bye”.
Il 28 marzo all’Austin City Limits andò in scena “A Celebration of Townes Van Zandt” lo spettacolo in sua memoria con Emmylou Harris, Willie Nelson, Lyle Lovett, Nanci Griffith, Steve Earle, Guy Clark. Guy Clark raccontò di come Townes avesse avuto un sorta di epifania a scuola quando un insegnante parlava di come il sole alla fine si sarebbe spento. Allora Townes sbottò: “Fermi tutti. Vuol dire che dovrei arrivare in orario a scuola, lucidarmi le scarpe, sedermi eretto, stare attento e il sole sta per spegnersi? Amico, ma tu sei matto? Il sole sta bruciando!”. Quindi Clark suonò “To Live’s to Fly”, il capolavoro silenzioso sul laico riscatto di fronte alla disperazione e alla perdita. Se “Waitin’ Around to Die” era la sua road map, “To Live’s to Fly” era la sua dichiarazione di intenti. Non era il miglior giocatore d’azzardo, ma era stato fortunato. Che fosse stato toccato sulla spalla da Dio o semplicemente sfiorato, aveva capito cosa doveva fare: scrivere canzoni, cantare, salvare vite umane. Volare. È buffo come a volte chi è così bravo a morire sia così bravo a vivere. L’ex manager John Lomax ricordò il suo arresto a Boulder quando, frustrato dall’impossibilità di ottenere un drink in un bar affollato, chiamò da un telefono pubblico inventandosi una bomba nel locale per potersi servire liberamente. Joe Ely ricordò l’episodio dell’autostop. Nanci Griffith aveva 14 anni quando suo padre la portò per la prima volta a vedere Van Zandt; le disse che sarebbero andati a vedere “il più grande cantautore folk che il nostro stato avesse mai dato alla luce”. Steve Earle aveva 17 anni quando vide per la prima volta Van Zandt esibirsi. Aveva fatto l’autostop da San Antonio a Austin per imbucarsi alla festa di compleanno per Jerry Jeff Walker. E per i due anni successivi, ogni volta che Van Zandt andava in tour in Texas, Earle lo seguiva di spettacolo in spettacolo. Quasi tutti gli articoli pubblicati su Van Zandt hanno dentro una famosa citazione di Earle: “Townes Van Zandt è il miglior cantautore del mondo, e io starò in piedi con i miei stivali da cowboy sul tavolo da caffè di Bob Dylan e lo urlerò”. Pochi sentirono la risposta di Van Zandt: “Ho incontrato le guardie del corpo di Dylan, e se Steve pensa di poter stare sul tavolo da caffè di Bob Dylan coi suoi stivali, si sbaglia di grosso”.

Le storie

Townes era un gran puttanaio, la sua vita un misto tra il sublime e terribile. Townes non divise la sua vita in categorie. Non aveva una carriera, una vita personale e una vita sociale. Per lui erano tutte la stessa cosa. “Mi ero prefissato di essere un folksinger al verde, girovago, fanatico del gioco d’azzardo, e così feci”, disse una volta. Realizzò completamente le sue ambizioni. Townes non si è mai concesso il lusso delle ovazioni. Le sue canzoni erano come scarpe nuove. Dovevi indossarle un po’ prima di sentirle davvero tue. Quasi tutte le sere, salendo sul palco, chiedeva se ci fosse una canzone che desideravano ascoltare. Gli chiedevano sempre “Second Lover’s Song”, perché non la suonava spesso. E lui raccontava barzellette. La migliore era quella del poliziotto che vedendo un ubriaco per strada,  gli urla: “Ehi, amico, sei un po’ sbronzo, dovresti andare a prenderti un caffè”. E il tizio risponde: “Agente, sono proprio contento di averti incontrato. Vedi, qualcuno mi ha appena rubato la macchina”. “Dov’era la macchina quando l’hai vista l’ultima volta?” E l’ubriaco risponde: “Proprio dove finisce questa chiave”. Il poliziotto guarda la chiave con sconforto e aggiunge: “Beh, vai due isolati più in giù alla Station House e fai rapporto al sergente”. “Grazie, agente. Mi è stato di grande aiuto. Il poliziotto guarda i pantaloni del tipo: “Ehi, amico, prima di andare, è meglio che ti tiri su la cerniera”. “Oh, cazzo, allora mi hanno rubato anche la ragazza!”. Se guardate il film “Blaze” di Ethan Hawke, il film inizia proprio con Townes che racconta questa barzelletta. Poi c’era quella storia suo zio. Nella sua fattoria era caduto da una mietitrice che aveva strappato un braccio. Lo riportarono a casa, chiamarono il medico e qualcuno seppellì il braccio nel campo. Un po’ di tempo dopo lo zio cominciò a lamentarsi di avere un crampo al braccio, quello che aveva perso. Allora, qualcuno uscì e disseppellì il braccio, lo raddrizzò e lo seppellì di nuovo. Dopo di che, lo zio disse: “Grazie, così va molto meglio”. Il pubblico guardava Townes in silenzio quando raccontava. Non si è mai preoccupato di spiegarle. Townes non era esattamente un tipo alla moda. Se qualcosa in lui cambiava, accadeva sempre lentamente. E poi c’era la storia di Sugar Bear. A Philadelphia, dopo un tour, si trovava al terzo piano di una casa per una partita a poker. Era estate e le finestre erano aperte. Sugar Bear, un omone messicano, stufo del gioco, scese per prendersi una tequila e continuò a berne fino a moltiplicarne i bicchieri. Sugar Bear era un vecchio ubriacone e dopo una buona mezzora urlò: “Ecco fatto! Adesso non ho più sete”. Tornò nella casa a fatica e bussò alla porta. E proprio in quel momento tutta la tequila gli entrò nel sangue. Cominciò a distruggere la stanza. Lo inseguivano per cercare di controllarlo, tutti tranne Townes, che rimase sulla sua sedia vicino alla finestra aperta. Poi Sugar Bear inquadrò la finestra e decise che doveva volare. Si tuffò dalla finestra, come se si fosse tuffato in un lago. Townes balzò in piedi e lo afferrò per le caviglie proprio mentre volava fuori. Ci fu un forte tonfo quando Sugar Bear sbatté contro il muro esterno della casa. Lo trascinarono e lo recuperarono. Townes aveva già preso le carte in mano e aspettava che la partita riprendesse.
Una delle più storie più note era quella di un ubriaco Earle e di un arrabbiato Townes, o forse si trattava di un tranquillo Townes e di un arrabbiato Earle e una partita alla roulette russa. In ogni caso, i giocatori furono fortunati. Patta. In una delle sue ultime canzoni, “Blazes Blues”, nell’album del 1994, “No Deeper Blue”, Van Zandt racconta di Blaze Foley, il Duct Tape Messiah, cantante texano, amico fraterno e compagno di bevute. La storia narra che Blaze invitò Townes ad andare con lui in Alabama per registrare ai Muscle Shoals. Townes non voleva partire, perché era appena nato suo figlio, ma Blaze riuscì comunque a trascinarlo con sé. Non si avvicinarono mai agli studios. I manager li abbandonarono in un hotel tra pinte di vodka. Blaze si ubriacò così tanto che cominciò a credere che gli Iracheni stessero per circondare il motel. Quando Blaze strappò il telefono dal muro, la polizia dell’Alabama si presentò e finirono entrambi in prigione. La canzone è un’elegia per Blaze. “You know you’re going to miss me when I’m gone”.
In questi giorni, se sento qualcuno nominare Townes, o se vedo il suo nome da qualche parte, mi viene in mente una foto di lui che sta lì in piedi con quel vecchio Stetson appoggiato su una montagna di capelli e il suo vecchio cappotto di camoscio. Ha la custodia della chitarra in una mano e una vecchia valigia blu nell’altra. Alla valigia manca il manico sostituito con dello spago da imballaggio. Non era che cercasse di mantenere l’immagine stracciata del troubadour errante. Semplicemente credo non gli sia mai venuto in mente che fosse di qualche importanza. La sua vita era un vita semplice, senza complicazioni.

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Riccardo Magagna

"Credo in internet, diffido dello smartphone e della nuova destra, sono per la rivalutazione del romanticismo e dei baci appassionati e ho una grande paura dell'information overload"