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Malcolm Strachan – About Time

About Time”: era ora, insomma. Dopo un ventennio buono di militanza nel mondo jazz-pop britannico, il trombettista scozzese Malcolm Strachan si ritaglia una parentesi personale dalla carriera della formazione madre, The Haggis Horns, e pubblica il suo debutto solista.
Le esperienze maturate in seno al gruppo l’hanno visto accompagnare, tra una moltitudine, Amy Winehouse, Mark Ronson, Corinne Bailey Rae, Jamiroquai, Martha Reeves, John Legend & The Roots, fino ai New Mastersounds e Lou Donaldson, sassofonista di casa Blue Note che non ha certo bisogno di presentazioni nel mondo degli appassionati di jazz. E proprio al marchio Blue Note, all’eleganza di quel sound (e alla cura maniacale delle confezioni: grafica, foto di copertina, incisione e stampa del disco), si rivolge più volte la mente mentre ascolto l’album.
Impegnato alla tromba e al flicorno, Strachan è accompagnato da alcuni membri degli Haggis Horns (George Cooper al piano, il batterista Erroll Rollins, Atholl Ransome al sax tenore), cui si aggiungono il contrabbassista Courtny Tomas, Rob Mitchell (The Abstract Orchestra, sax baritono) e il trombonista Danny Barley. Special guest, lo straordinario percussionista Karl Vanden Bossche: uno che ha lavorato con una lista impressionante di artisti appartenenti agli stili più disparati, da Steve Winwood a Robert Palmer, dagli Incognito ai Pasadenas, da Sade a Joss Stone, fino a un paio di creature di Damon Albarn, Blur e Gorillaz.
Le atmosfere di “About Time” si distaccano dal funk-groove del gruppo di appartenenza, lasciando emergere la passione per il jazz dell’autore (le composizioni sono tutte scritte e arrangiate dal titolare del progetto).
Il jazz è un genere solitamente riservato ai cultori, l’ascoltatore occasionale deve maneggiarlo con cura, onde non prendere cantonate colossali, ma la godibilità di questo album è davvero adatta ad ogni palato, da quello più esigente a quello meno smaliziato, naif. I brani sono lunghi il giusto, le orchestrazioni (i violini, quando presenti, sono arrangiati dall’esperto Richard Curran), mai debordanti, ottengono efficacemente il risultato di avvicinare brani come l’iniziale Take Me To The Clouds, o la più sommessa Aline, alle colonne sonore italiane degli anni 60 e 70, mentre in altre occasioni il respiro degli arrangiamenti ci conduce oltre Oceano, quasi fossimo negli studi di Rudy Van Gelder (Mitchell’s Landing, unico brano a vedere presente l’intera formazione degli Haggis, Better Late Than Ever), ballade evocative (Just The Thought Of You, la conclusiva Where Did You Go?), ma c’è anche spazio per ritmi più funky (Time For A Change, Uncle Bobby’s Last Orders).
Un bellissimo album ricco di sfumature, dunque: la prescrizione consiglia di tornarci a più riprese nelle parentesi necessarie a “pulire” l’udito, resettarlo e ripartire con slancio.

 

Massimo Perolini

Appassionato di musica, libri, cinema e Toro. Ex conduttore radiofonico per varie emittenti torinesi e manager di alcune band locali. Il suo motto l'ha preso da David Bowie: "I am the dj, I am what I play".