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“So long, and thanks for all the fish”, Luca Bergia.

“L’amore è sempre incompleto, goffo, parziale, e non bisogna aver paura di cantare anche il dolore, l’altro ingrediente inevitabile della vita.”
La frase in questione, visto il virgolettato, è dell’immenso Nick Cave, il reverendo del rock, ed è una citazione. Lo confesso: non sapevo assolutamente come sarebbe iniziato questo pezzo. Anzi, non ero nemmeno sicuro che sarei riuscito a scriverlo, in verità. La qual cosa, per uno che suppone di riuscire a scrivere in maniera perlomeno decente e abbastanza credibile di quasi qualsiasi argomento (laddove musicale), è quasi un paradosso.
Tutte le volte in cui le emozioni si accumulano, congestionando ogni pensiero e impegnando ogni minima parte di intelletto, anche quella più razionale, forzare le proprie ritrosie diventa un’operazione estremamente complessa e, a volte, quasi sovrumana. E certe emozioni soverchiano, senza lasciarti scampo. In quei casi tocca rifiatare, recuperare energie e ossigeno, tentare di riavviare i pensieri con l’anima che boccheggia ed il cuore stretto in una morsa.
Tocca farlo soprattutto perché trattenere tutta quella miriade di trepidanti turbamenti potrebbe risultare qualcosa di ben più deleterio che non l’esatto opposto: bisogna invece farli sgorgare quei pensieri, suppurare, in modo che poi quella ferita – così impalpabile da sembrare quasi irreale – possa prima o poi cicatrizzarsi, lasciando un segno visibile, certo, ma ben meno letale di quella lacerazione di cui era conseguenza.
“Non bisogna aver paura di cantare il dolore” diceva Cave, che certo di ferite dolorose e di lacerazioni dell’anima ha parecchia esperienza: e non bisogna aver paura nemmeno di scriverlo, quel dolore, ho pensato ad un certo punto.
Perché non è mai facile dover accettare la dipartita di un amico, soprattutto quando arriva improvvisa e tagliente come il fendente di una spada affilata: non lo è se quella persona ha rappresentato, con i suoi gesti e la sua capacità, una pagina importante della tua vita, anche se in maniera per lui del tutto inconsapevole.
E non lo è a maggior ragione se quell’artista ha incarnato il ruolo di collante, ironico e gentile, all’interno di un sodalizio musicale che, per tanti aspetti, può chiamarsi a buon diritto “famiglia”. In quel caso, ogni scelta – dal silenzio riservato, al messaggio condiviso fino addirittura al soliloquio diffuso via etere – diventa legittima e personale scelta, fatta di istinto più che di razionalità.
In questo contesto, la serata che i Marlene Kuntz hanno voluto confermare sabato sera in quel del Teatro Magda Olivero di Saluzzo, ha assunto i contorni di una riunione allargata tra intimi e amici, in un consesso che sapeva di memoria e commozione condivisa, più che di tappa di un concerto già programmato. “Come la fai, sbagli” avevano preannunciato il giorno prima i Marleni, affidando ai social le parole scritte dall’eloquente Cristiano Godano: lui è sempre stato l’anima verbale del gruppo, il collettore dialogico di un trio di amici da anni perfettamente amalgamati, artisticamente e sentimentalmente, e cementati da quella buona personalissima musica rock che, negli anni (“trentacinque, quasi quaranta se si considera la nascita dei Marlene, e la fratellanza tra Riccardo e Luca”, ha detto ad un certo punto Godano), ha avuto modo di maturare, di allargare orizzonti e temi, di crescere e di farci crescere – loro, e noi con loro – senza mai farci percepire un distacco o il fantasma di uno scollamento tra ciò che tramite quella ci comunicavano, e le riflessioni e la poetica che la fondavano.
Un sodalizio nel quale a Riccardo Tesio è toccato il ruolo (forse, per- come pare essere fatto lui, più comodo) della riflessione, del bilanciamento di note, pensieri e parole, e nel quale Luca, invece, era “l’anima leggera”, un collante necessario almeno quanto era di lui fondamentale quella “ironia sagace, i tuoi giochi di parole, la tua prontezza di riflessi, la tua sensibilità nascosta, la tua bontà”.
Ma il dolore pur sempre rimane: anche quando tocca sublimarlo, e saperlo fare con quelle armi che hai affinato per tutta una vita, con il tramite dell’arte. O della Musica, con quella “M” maiuscola, ineluttabile e possente, almeno quanto lo erano i ritmi che Luca Bergia ha saputo regalare alle canzoni dei Marlene.
Sabato scorso è stato davvero un lunghissimo, poderoso, fragoroso “grazie” con cui i suoi Marlene hanno voluto accompagnare il viaggio di Luca: senza nascondere mai quel dolore che albergava nei cuori di tutti i presenti, di certo lancinante in quello delle persone a cui ha voluto bene e che lo hanno ricambiato in vita. E quelle canzoni, quei pezzi che lui ha lasciato qui a noi, hanno un po’ attenuato quel senso di smarrimento, “chiarificando il dolore a qualsiasi grado esso si manifesti”, per usare ancora una volta le parole di Godano.
Così come è stato durante questi 30 anni di percorso insieme a loro – ascoltando tutte le loro canzoni, seguendoli in decine di concerti e manifestazioni – serberò dentro di me parecchie delle emozioni che mi hanno saputo donare, tutti e tre insieme anche in questa serata così diversa dalle altre: fuori dal mondo, in un certo senso.
Ricorderò il ‘prima’, così silenzioso e denso, e il ‘durante’, con quel continuo esorbitare di immagini e suoni e sentimenti; e di certo, serberò anche il ‘dopo’ con l’abbraccio tra il gruppo, la sua famiglia e tutti noi: noi tutti accorsi a salutare Luca, a ringraziarlo per tutta la musica, per ciò che era, per il tempo prezioso che ci ha fatto vivere ai concerti.
Ho chiamato questo pezzo (così lontano dall’essere una recensione di un concerto che è stato ben più di una semplice esibizione) “So long, and thanks for all the fish“, che tradotto in italiano significa “Addio, e grazie per tutto il pesce”, mutuando il titolo del quarto libro della ‘Guida galattica per gli autostoppisti’,  scritta da Douglas Adams.
Il titolo ricalca il messaggio lasciato dai delfini abbandonando il pianeta Terra, poco prima che questo venga demolito per costruire una superstrada spaziale: qualcosa di assolutamente straordinario e fuori dal mondo, una metafora che qui di certo mi conforta e mi appare come perfetta mimesi di un addio arrivato assai presto, e troppo inatteso.
E’ che siamo diventati grandi insieme, siamo cresciuti nello spirito e nel corpo, e siamo anche invecchiati: io, lui, tutti, e con noi i Marlene.
Certo non ci è dato sapere cosa ci aspetta nel prossimo futuro, né tantomeno so cosa ci riserverà ciò che verrà ancora dopo, ma una cosa però rimane certa: la musica, che per fortuna ci governa e regna su di noi, e ci sopravvive.
Così come l’amore.

Il ritratto di Luca Bergia è opera del suo fraterno amico Alex Astegiano, co-fondatore e prima voce dei Marlene Kuntz ora acclamato fotografo.
Le foto dell’evento sono state gentilmente concesse da Francesca Barbero, giornalista e fotografa.

Stefano Carsen

"Sentimentalmente legato al rock, nasco musicalmente e morirò solo dopo parecchi "encore". Dal prog rock all'alternative via grunge, ogni sfumatura è la mia".