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La classe infinita, Burt Bacharach 1928 – 2023

Si vi capita di ritrovarvi con una canzone che vi ronza in testa e ne fischiettate il motivo per tutta la giornata ma non riuscite a risalirne al titolo o all’ autore, provate a cercare nel catalogo di Burt Bacharach: avrete buone opportunità di scoprire che quella melodia provenga proprio dal suo scrigno di canzoni.

Ci sono canzoni e melodie che sono scolpite nel DNA dell’umanità. Sono nel nostro patrimonio genetico, le abbiamo dentro fin dalla nascita, innestate grazie a qualche strategico imprinting prenatale.
Alcune sembrano più antiche del mondo stesso, come esistessero da sempre, trasmesse nell’etere grazie a qualche diavoleria inventata da Nikola Tesla tanto tempo fa, oppure appese con un filo a qualche nuvola, in alto sopra alle nostre teste con la voglia di scendere ogni tanto per farsi fischiettare un po’. Alcune di queste sono talmente famose che in un modo o nell’altro ci si imbatte in loro involontariamente.
Chiedete a qualsiasi persona non appassionata di musica se conosce Burt Bacharach. La risposta sarà un automatico “no”; fischiettategli la melodia di Raindrops Keep Falling On My Head e la vedrete annuire con un largo sorriso, “allora si”. Quanto è meravigliosa la musica.

Nel 2011 ebbi la fortuna di assistere al concerto che Burt Bacharach tenne nella fantastica cornice del Forte di Bard in Valle d’Aosta. Credo, avendo avuto modo di vedere la registrazione di un suo live trasmesso dalla BBC per la serie “Electric Proms” di qualche anno prima, che le scalette delle sue serate fossero tutte piuttosto simili tra loro, ripetute decine, centinaia di volte in carriera. Nonostante ciò, traspariva in modo davvero netto l’immenso amore che il Maestro rivolgeva alla propria musica, ai suoi capolavori, ai suoi tesori.

I suoi gesti erano così spontanei, eleganti ma decisi quando guidava gli stacchi e le entrate dei suoi musicisti, e spesso lo si sorprendeva mormorare a occhi chiusi le parti vocali dei tre bravissimi cantanti.
Pareva librarsi in alto leggero, sospinto solamente dalla sublime melodia dei suoi pezzi più famosi e, nonostante i seri problemi alle anche, trovava la forza di alzarsi dal seggiolino per domare il suo pianoforte verso i finali dei pezzi più movimentati. Era un prigioniero felice di quel paradiso sonoro creato da lui stesso: il concerto non era altro che un limbo infinito dove poter continuare a perdersi in melodie perfette, sublimi e inattaccabili dall’incedere inesorabile del tempo, ancora e poi ancora , sera dopo sera, concerto dopo concerto, per sempre e fino alla fine.

Vi posso parlare dell’incanto che avevo scorto sui volti degli spettatori dopo l’interpretazione di Alfie, uno dei suoi pezzi più famosi, l’unica cantata interamente da Bacharach stesso, a 83 anni, con appena un filo di voce. Lui che non è mai stato un cantante, offrì una versione pianoforte e voce che mi fece venire i brividi per la profondità e la dolcezza profusa in quegli istanti. Avrei voluto abbracciarlo e ringraziarlo per avermi regalato uno di quei tanto preziosi quanto intimi  dove per l’enorme intensità, non riuscii a trattenere una lacrima.

Nel maggio del 2012 Burt Bacharach e il suo paroliere degli anni d’oro Hal David vinsero il Premio Gershwin per la musica popolare della Biblioteca del Congresso. Nella serata tenuta in loro onore alla Casa Bianca furono eseguite interpretazioni delle loro canzoni da parte di artisti come Stevie Wonder, Lyle Lovett, Diana Krall, Rumer, e altri. Un tenerissimo e all’ apparenza sempre più fragile Burt era seduto a fianco del presidente degli Stati Uniti ad ascoltare l’esecuzione dei suoi capolavori. Barack Obama poté consegnare il premio solamente a Bacharach in quanto Hal David era stato colpito da un infarto qualche tempo prima. Le condizioni del suo paroliere, complicate anche dall’età avanzata, non migliorarono e morì il primo settembre di quell’anno all’età di novantuno anni.

Si divise definitivamente una coppia di autori che all’apice della loro creatività sfornò decine di brani di una qualità talmente alta da guadagnarsi un posto d’onore tra i migliori autori pop di sempre, sullo stesso piano di Lennon e McCartney e almeno un gradino sopra a Nat King Cole, Holland & Dozier, Jimmy Webb, Jagger & Richards, Paul Simon, George Gerswin, Irving Berlin, Lieber & Stoller, Carole King e Jerry Goffin, per citarne alcuni.

Troppo sovente la musica di Burt Bacharach è stata erroneamente confusa con quella di dozzinali direttori d’orchestra alla James Last e catalogata come robetta kitsch buona forse come sottofondo in un lounge bar all’ora dell’aperitivo. 

La verità, come spesso accade, sta tutta da un’altra parte. 

Per averne prova basta impadronirsi di “The Look Of Love”, cofanetto triplo edito nel 1998 dalla mai troppo decantata Rhino. E’ il modo migliore di percorrerne tutta la carriera, dagli esordi fino alla collaborazione con Elvis Costello grazie alle 75 canzoni incluse. 

Dopo aver studiato violino e pianoforte ed aver fatto palestra come direttore d’orchestra al seguito di Marlene Dietrich, Burt Bacharach nasce discograficamente al Brill Building di New York, vera e propria fabbrica di successi americani. E’ in questo luogo che Burt fece la conoscenza di Hal David ed è da questo edificio situato tra la 49ma e la 53ma Strada che si fecero le ossa, tra gli altri, autori come Carole King, Neil Sedaka, Jerry Lieber, i cui brani mandarono in orbita i famosi gruppi femminili (e non solo) di fine anni ‘50 come le Shirelles, le Ronettes, le Shangri-las e le Chiffons (per approfondire ci si può affidare al cofanetto a forma di cappelliera intitolato  “Girls Group Sounds” sempre della Rhino, e alle produzioni targate Phil Spector).
Dal 1958 e per tutti gli anni sessanta fu un impressionante susseguirsi di successi con brani destinati a divenire dei veri e propri standard interpretati negli anni a seguire da decine e decine di cantanti. 

Iniziando dalla ultra-famosa Magic Moments e proseguendo per la magnifica Only Love Can Break Your Heart, si ha l’opportunità di scoprire autentici capolavori come Baby It’s You, Walk On By, Close To You, Whishing And Hoping, The Look Of Love, la già citata Raindrops Keep Falling On my Head e Anyone Who Had A Heart. Tutte canzoni poi divenute immortali.
Imbattersi nelle favolose Make It Easy On Yourself, Reach Out For Me, Don’t Make Me Over e nella più bella di tutte, almeno per chi scrive: This Guy’s In Love With You. Trovo che questa canzone, più ancora che l’altro super standard The Look of Love, sia la sublimazione del “Bacharach Style”, lo zenit assoluto della sua arte, dove la teoria degli accordi sospesi trova il perfetto equilibrio con l’interpretazione di Herb Alpert (un altro non-cantante, era famoso per la sua tromba) e una melodia ariosa, struggente e indimenticabile. La canzone perfetta. La meraviglia.

A proposito di interpretazioni, qui si è in compagnia, tra i numerosi altri, di gente del calibro di Gene Pitney, dei Drifters, della fantastica e indimenticata Dusty Springfield, di Lou Johnson e naturalmente della sua musa per antonomasia Dionne Warwick, che da sola meriterebbe un trattato a parte. Gli arrangiamenti non sono mai sopra le righe, e se è facile immaginare un largo uso di invadenti parti orchestrali meglio scordarsene, basta fare attenzione all’utilizzo della tromba (sdoganata più avanti negli anni anche da insospettabili gruppi pop-rock), a quello delle percussioni, del pianoforte e, ebbene si, delle chitarre: noterete che molto spesso a suonare sono dei piccoli combo con strumentazione tradizionale: chitarra, basso, batteria e uno strumento a fiato, mentre l’utilizzo di strumenti meno tradizionali (le fisarmoniche, il fischio, la tuba, le percussioni etniche, etc.) è in funzione dell’ atmosfera che il brano vuole creare. L’orchestra, alla pari del coro, è utilizzata negli arrangiamenti in modo piuttosto parco, sovente tende a sottolinearne le melodie e a sostenerne le armonie. Solo raramente prende il sopravvento. Sinonimo di genialità accompagnata da tanta classe e dal buon gusto, oltreché dallo studio approfondito della materia e alla perfetta conoscenza non solo delle tecniche del jazz e del soul, ma della musica tutta.

Il cofanetto non tralascia nulla e comprende alcune canzoni che hanno fatto parte di famose colonne sonore che gli valsero Oscar e Grammy, What’s New Pussycat?, Casino Royale, Arthur’s Theme, The Blob e naturalmente Raindrops, gemme meno famose e alcuni brani tratti dagli album a proprio nome ( l’accoppiata “Reach Out e “Make it Easy on Yorself” non dovrebbe mancare sugli scaffali di ogni amante della musica) e tocca appena il periodo meno creativo del grande compositore. E’ un Bacharach meno ispirato e davvero sul precipizio della pacchianeria quello che approda agli anni ottanta, periodo che lo ha visto separarsi, oltre che dalle mogli, dal partner artistico Hal David con tanto di cause in tribunale. E’ un Bacharach che però ha ancora in serbo grandi successi con brani interpretati da Christopher Cross e Patti LaBelle anche se il materiale è di grana più grossolana. 

Il vero colpo d’ala è però stata God Give Me Strenght, scritta con Elvis Costello. Una canzone (ma tutto l’album in coppia è notevole) che non solo lo riportò in un lampo alla qualità indiscussa degli anni d’oro, ma che favorì l’acquisizione di un numero sempre maggiore di fan: non c’è da stupirsi se tra questi vi siano, solo per citarne alcuni, Noel Gallagher degli Oasis, Paul Weller (lui non poteva mancare), Frank Zappa, Paddy McAloon, Morrissey, Mike Patton, Jack White e Dr.Dre. Artisti che di sicuro non hanno fatto dell’ easy listening la loro cifra stilistca. 

Burt Bacharach ci ha appena lasciati alla bella età di novantaquattro anni.

C’è un frammento della durata di una cinquantina di secondi che si può ascoltare alla fine della versione di “Whoever You Are I Love You” contenuta in “Make It Easy On Yourself”. Una spinetta conduce il brano al finale, poi c’è un brevissimo momento di pausa quando arrivano ancora una volta le parole Sometimes your eyes look blue to me, un pianoforte disegna una melodia fatta di tre note, un solo accordo leggero di chitarra acustica come leggere sono le spazzole della batteria, un delicato sfondo di archi e poi una tromba che regala un attimo di malinconia, e il pezzo sfuma.
La bellezza assoluta, il garbo, l’eleganza, la classe infinita.
Vorrei durasse per sempre e mi piace immaginare Burt Bacharach che la ascolta mentre è alla guida di una decappottabile che pennella le curve di una sinuosa strada californiana che costeggia l’oceano, col sole basso sull’orizzonte.
Lui giovane, abbronzato e sorridente, occhiali di tartaruga, una sventola sul sedile a fianco, il vento in faccia, il futuro davanti a sé. 

La mia canzone preferita? Alfie, sicuramente. Mi piace quello che dice e come lo dice. Il brano è stato scritto da Burt, come sempre, partendo dalle parole. Mi ricordo un passaggio del testo: What’s is all about, Alfie, is it just for the moment we live? / Are we meant to take more than we give? (“Di cosa si tratta, Alfie, è per colpa dei tempi in cui viviamo? / Dobbiamo prendere più di quello che diamo?”).
Poi Burt ha composto la musica che si è incastrata benissimo tra le parole. Io mi sono limitato a aggiungere alla fine: “What’s it all about when you sort it out, Alfie?”.  HAL DAVID.

In fin dei conti, di cosa si tratta, Burt?

 

 

 

Roberto Remondino

"Wishin' and hopin' and thinkin' and prayin' Plannin' and dreamin' each night of her charms That won't get you into her arms So if you're lookin' to find love you can share All you gotta do is hold her and kiss her and love her And show her that you care".