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Smile – The Name of This Band is Smile

The Name of This Band is SmileOgni vent’anni la musica si ostina a riciclare se stessa, riappropriandosi delle sue componenti, una sorta di continua palingenesi, un prolungato ciclo di provocazione e contaminazione. E, allora, negli anni sessanta, il ritorno al blues e al folk portò al folk rock e alla British Invasion. Negli anni settanta quel “guardarsi indietro” fece scatenare il punk. Quando, nei primi anni ottanta, band come R.E.M., Db’s, Feelies salirono su quel carro poi battezzato “college rock”, fiorì una repubblica libera e sintonica fondata sul suono della chitarra jangle. Gruppi devoti all’etica del DIY e all’indie rock prendevano delle belle melodie, le attaccavano ad amplificatori sfuocati e te le sparavano addosso, direttamente nelle orecchie. Così, a Minneapolis e a Boston, Hüsker Dü, Replacements e Mission Of Burma liberavano il pop per poi calarlo in una struttura tipicamente hard core o post punk mentre, a Manchester, “pills ‘n’ thrills” sfilavano per le città dove le pazzie autodistruttive della new wave s’imbarcavano nel pop di Echo And The Bunnymen e Primal Scream.
Anche oggi come allora, negli anni venti di un secolo non più breve, nella Torino aristocratica dei portici, delle piazze e dei caffè, in quella post-industriale degli ex quartieri operai, degli ex stabilimenti Fiat, dei nuovi club to club, nella giungla urbana che si risveglia avvolta dalle nebbie sonore, quattro ragazzi, Michele Sarda, voce, Hamilton Santià, chitarra,  Francesco Musso, batteria e Mariano Zaffarano, basso cercano di raccontare l’atroce quotidianità con canzoni da tre minuti nel vigore dell’indie anglo-americano degli anni ottanta e novanta.
SmileE il segno degli Smile è sfacciatamente derivativo, le otto canzoni di “The Name of This Band is Smile” (ricordate i Talking Heads?) sono compatte, dirette. “How the Race is Done” è il perfetto punto di partenza e non appena si sente il respiro delle chitarre, prevale l’impressione di rivivere un’esperienza giovanile, ci prepara al disco, all’incedere a strappi e all’armonia solare della successiva “Every New Mistake”. “Just So You Know” gioca su riff crudi e malinconici come sono i tormenti nelle canzoni, così come “Time to Run” mantiene la sua indole scanzonata anche in età adulta. Infine, quando, in “Broken Kid” il suono, man mano che ogni ritornello e ogni strofa prendono il loro posto, diventa più agitato e ci si ritrova in una tempesta di melodie. Se siete ancora arrabbiati, incazzati, se avete il cuore spezzato e vi siete persi nel romanticismo, non guardate più in là degli Smile per scrutarvi dentro. Il disco esce per l’etichetta Subjangle / Dotto, ed è stato inciso agli Studio Cane, Torino, tra il 2020 e il 2021.

INTERVISTA

WLRR – Nel viaggio al termine della pandemia, raccontato anche dai vostri video, come si tinge il rapporto con Torino?
Smile
– Torino è la città della fabbrica. La città dell’industria. La città dritta. La città nella quale si producevano cose. Adesso Torino è la città del rancore e del futuro perduto. La fabbrica non c’è più. Le cose non si producono più. Si vive in questo interregno tra diversi livelli di nostalgia, bloccati e spaventati. È una situazione che va raccontata e va raccontata senza filtri. È in queste strade vuote, in questi spazi abbandonati, in queste fabbriche trasformate in centro commerciali e appartamenti di lusso, in questa città della speculazione che non ha portato nulla e non ha prodotto niente, desertificando, che nasce la musica degli Smile. È una sensibilità che nasce nelle radici profonde del post-punk, nell’unione tra melodia e distorsione, tra quadratura secca e apertura empatica. È una musica per un presente perduto.

WLRR – Risposta secca: Minneapolis, Athens o Manchester?
Smile
– Il terzo triangolo magico: è qui che si sviluppa la nostra passione musicale, il nostro cuore pulsante. C’è un filo che lega la voglia di prendere la chitarra elettrica, rovesciarne l’assunto machista e metterla a servizio degli accordi e della melodia; la capacità di costruire testi per immagini, evocazioni e trasformazioni personali; la possibilità di creare orizzonti con le figure ritmiche di un basso che letteralmente apre lo spazio e una batteria che disegna i contorni in modo netto. Senza nasconderci, la nostra musica nasce da lì. Dai cd nice-price di “The Queen is Dead” e “Automatic for the People”, dagli amici che si passavano i vinili di “Murmur” e “Warehouse Songs and Stories”, dalla sensazione di riscatto nella sconfitta di una “Here Comes A Regular”. Tutto universale, tutto locale. Tutto legato al luogo. È un alfabeto. Noi abbiamo provato a imparare la lingua, ma la traduciamo dentro il nostro specifico.

WLRR – Underrated, overrated or just rated?
Smile
– Le parole hanno perso significato e tutti le usano per dire qualsiasi cosa. Però sappiamo che non è sempre così. Abbiamo trent’anni e sappiamo benissimo come “indie” sia da circa quindici una categoria di mercato sussunta dal capitale per venderci la nostra differenza in piccole dosi e in modo sempre diverso. Però “indie” vuol dire altro, e lo sappiamo. L’esercizio di sincerità al quale siamo chiamati. Ci porta naturalmente a stare dalla parte di chi resiste. Gli underrated. La galassia di etichette discografiche che in giro per il mondo continuano a buttar fuori musica fatta con le chitarre, dove non importa se hai 20, 30 o 40 anni. Importa cosa scrivi e come lo canti. Che tu sia più melodico o distorto, più a bassa fedeltà o pulito, che abbia a casa tutti i sette pollici della Sarah Records o il santino di Robert Smith, conta il recupero di uno spirito. Il portare avanti un’idea. È un gesto politico se vogliamo, perché permette di riconoscersi tra simili, dimenticandosi concetti dannosi come merito e competizione. La musica come strumento di uguaglianza tra persone. È giusto così. Anzi, sarebbe più giusto facendolo ai concerti, ai festival.

WLRR – La distorsione rappresenta lo sporco, è l’elettricità statica. Trattiene energia e storia. È il suono del fallimento, delle cose che vanno fuori controllo, di un mezzo che si spinge oltre i suoi limiti e si rompe. Brian Eno scriveva: “Whatever you now find weird, ugly, uncomfortable and nasty about a new medium will surely become its signature”. Insomma melodia o distorsione?
Smile
– Johnny Marr toglieva di torno la distorsione perché non voleva suonare la chitarra come tutti quelli che la suonavano in quegli anni. Allo stesso tempo, i Sonic Youth usavano il rumore per andare oltre la coltre di quel rumore “loud” da festa delle medie portata all’eccesso che poteva essere un concerto dei Twisted Sister. O qualcosa del genere. Gli Hüsker Dü hanno scritto alcune delle più grandi canzoni pop dell’universo immergendole nella rabbia dei feedback assordati. E i Jesus and Mary Chain avrebbero sempre voluto scrivere “Be My Baby” suonandola come se fossero gli Einsturzende Neubauten. Sono due elementi che convivono, che devono convivere, perché rappresentano la doppia misura del mondo nel quale viviamo e che vogliamo raccontare. Una senza l’altra sarebbe manchevole, monca, zoppa.

Photo Credits: Andrea Sassano

Riccardo Magagna

"Credo in internet, diffido dello smartphone e della nuova destra, sono per la rivalutazione del romanticismo e dei baci appassionati e ho una grande paura dell'information overload"