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“The United States of America” – Psichedelia al potere

Nelle case di Milano fa sempre caldo. Anche se è Febbraio. Soprattutto se vivi in un monolocale di 30 mq circa e hai il riscaldamento a pavimento. Soprattutto nel 2012, che se anche avevi il riscaldamento con i termosifoni comunque non potevi regolare la temperatura con le termovalvole. Me li ricordo come ieri quei giorni di Febbraio. Non mi ricordo esattamente quale schifezza avessi ingurgitato per calmare lo stomaco quella sera, né in quale delle 2 Esselunga vicino a casa l’avessi comprata, ma ricordo perfettamente quanto per me quei giorni fossero importanti. Avevo da poco conosciuto una persona speciale che era appena tornata da Cuba e avevo l’abitudine di farle sentire a distanza una mia canzone del cuore la sera, per darle la buonanotte, perché facesse dei bei sogni, perché quei 140 km di distanza si annullassero all’istante. Una di quelle sere di Febbraio la mia scelta cadde su: “Love song for the dead Che”. Mi sembrava un titolo perfetto per un’amante dello spirito cubano. Mi sembrava un’ottima scelta perché è una canzone splendida, sospesa in una dolce psichedelia sognante che solo nel 1968 si poteva fare in quel modo, che solo una band con il nome della nazione più importante al mondo poteva fare.
Gli United States of America sono la band del poeta bohemien Joseph Byrd che, a cavallo tra Los Angeles e New York, raduna amici e compagni di college, eccellenti strumentisti, per comporre un self-titled tanto dimenticato dalle luci della ribalta quanto importante per la musica psichedelica di ogni epoca e non solo. Dorothy Moskowitz alla voce, Rand Forbes al basso, Gordon Marron al violino e modulatore ad anello, Craig Woodson alla batteria e percussioni e lo stesso Byrd alle tastiere sono riusciti a creare un album perfetto, senza riempitivi, con la dea dell’ispirazione che aleggia in stato di grazia in tutte e 10 le tracce, per tutti i 37 minuti di durata del disco.
Si parte sin dalla prima “The American Metaphysical Circus” con un’atmosfera circense, festosa ma inquieta e quando la calda e sinuosa voce della Moskowitz appare per la prima volta e squarcia il velo capisci perché. “And the price is right, the cost of one admission is your mind” sono le sue parole nell’acme del pezzo che fanno immaginare il classico telone da circo tenuto da un clown dal perfido sorriso che si scioglie, si dissolve e fanno capire che quel telo è la tua mente. Benvenuti nel 1968. Benvenuti nel circo metafisico americano. Benvenuti nel magico mondo della psichedelia.
La seguente “Hard Coming Love” è splendidamente acida, il sound è iperattivo, mefistofelico, spumeggiante. C’è bisogno di accasarsi sulle nuvole prima di continuare ed è proprio quello che accade con “Cloud song” dove, con una fievole voce e un’atmosfera paradisiaca, Dorothy immagina quanto debba essere dolce essere una nuvola fluttuando nel blu del cielo. I droni psych tornano a lanciare i loro laser in “The garden of earthly delights” prima del divertissement vaudeville fuori di testa di Byrds che si ritaglia il suo esordio vocale nel disco con “I won’t leave my wooden wife for you, sugar”, splendido non-sense che pesca a pieno titolo dal più classico umorismo british più che americano. Giusto il tempo che l’outro di trombe concluda il pezzo che l’atmosfera si fa cupa, pesante, angosciosa. L’incipit di “Where is yesterday” è in latino e sembra di presenziare ad una messa funebre officiata da Mozart, pescata direttamente dal suo “Requiem”. Il sacerdote designato è Joseph Byrd e sembra quasi impossibile che si possa passare dalla leggerezza della moglie di legno all’inquietudine che pervade la ricerca del passato. La successiva “Coming Down” è un giusto ponte tra le due tracce precedenti e le 3 finali e, poco dopo aver sentito Dorothy dirci che la realtà è solo temporanea, eccoci avvolti dalla soffice piuma di “Love song for the dead Che”, una carezza in un mondo di pugni, un abbraccio in un mondo di spinte. Il confine tra sogno e realtà è solo una convenzione, lo steccato tra la terra e il paradiso è solo un’idea inventata da Dio per non farci godere della sua mela e della sua succosità. Gli elegantissimi violini di “Stranded in time” ci fanno ballare un walzer stilosissimo in un enorme salone di Versailles alla corte di Maria Antonietta e del re di Francia prima di approdare definitivamente, in un mondo più pazzo e psichedelico che mai, nella opulenta e fuori controllo traccia finale “ The american way of love”. Il pezzo riassume, a mo’ di campionamento, tutte le tracce sentite sino a quel momento, quasi a voler dire: “Ve le ricordate? Ora le frulliamo tutte e di loro non rimarrà più niente o se preferite tutto e ancora di più!”. Quanto dev’essere stato bello suonare ed ascoltare questo pezzo dal vivo! Con le sue derive astruse e geniali che live avrebbero potuto durare come dei loop anche per una vita intera.
”How much fun it’s been” continua a ripetere nella parte finale un estasiato Byrd prima di abbandonarci e farci tornare alla nostra noiosa realtà quotidiana. Eh si caro Joseph, è stato tremendamente divertente godere appieno di questa pietra miliare della musica del novecento.
Sembra quasi che tu, consapevole della perfezione del tuo lavoro, ci abbia voluto salutare per sempre così, con questi 37 minuti, prima di tornare alla tua vita da cittadino qualunque. Sapendo che l’eternità a volte è racchi udibile in 10 canzoni.

 

 

Andrea Castelli

“All I want in life is a little bit of love to take the pain away, getting strong today, a giant step each day” (“Ladies and Gentlemen we’re floating in space” - Spiritualized)