Talk Show

“Memories are made of this. I Groovers a Radio Flash”.

I GROOVERS ERANO ARRIVATI A UN PUNTO TALE NELLA LORO VITA CHE POTEVANO FARE SOLO DUE COSE, ESSENDOCI I MONDIALI DI CALCIO NON NE FECERO NESSUNA
(con Carlo Bordone e Pierpaolo Vettori)

Succede anche a me. Quando ti prendono alla gola le madeleine radiofoniche non basta un infuso al biancospino per mandarle giù. Quando ti trovi in auto, fa sera e ti sintonizzi su uno sciattone che non sa cosa bene sta dicendo. Il mio ricordo agisce come una lente convergente in una camera oscura: raccoglie tutto e l’immagine che ne risulta è sempre più bella dell’originale. Ma è magnifico così. E un po’ mi fa male…
Ehi ci siete dall’altra parte del vetro?

– Mi è sempre piaciuta quella frase sugli anni Sessanta, “se ti ricordi i Sixties vuol dire che non c’eri”. Io invece alla metà degli anni ’90 – che è quanto di più vicino ai Sessanta la mia generazione abbia potuto vivere – c’ero e me li ricordo bene, benissimo. Forse anche più di quanto vorrei o dovrei. In parte dipende dal fatto che come gran parte dei miei coetanei non sono stato capace di crescere davvero, e, nonostante lavoro, figli, bollette, tasse, millennial che ti spingono ai margini, alla fine sei ancora lì che vorresti essere davanti a un microfono tenuto su dallo scotch a passare l’ultimo singolo dei Boo Radleys. Ma credo dipenda anche dal fatto che è stato bello. È stato davvero bello. Può essere che gli anni abbiano addolcito il ricordo, cancellando gli scazzi, i litigi, i problemi, gli scontri di ego e abbiano lasciato solo la parte buona, ma se c’è un aspetto positivo dell’avere gli anni che ho sta proprio nell’aver avuto il privilegio di aver vissuto quel periodo standoci dentro, almeno per un po’, in prima persona. Che poi non facevo neanche chissà che, dicevo cazzate su una radio cittadina. Ma il fatto è che non era una radio e stop: era quella radio. Dal nucleo che frequentava lo studio di Flash tra il ’94 e il ’98 (parlo di quella che ho conosciuto io) sono usciti giornalisti, scrittori, musicisti, indie band di successo, dj famosi in tutta Europa, speaker dall’onorata carriera anche in Rai, organizzatori di festival, gestori di circoli, registi. Anche un paio di pubblicitari, mi pare. Ma anche chi ha fatto altro e si è allontanato da qualunque contatto con la musica o la cultura pop credo abbia ancora dentro una certa attitudine “da Radio Flash” e se la porti dietro come un piccolo talismano. Fu un privilegio aver potuto incontrare così tante persone di talento nello stesso posto, averci lavorato assieme e aver in qualche modo raccontato la Torino di quegli anni con loro. Anche se magari ci litigavi o pensavi che ascoltassero musica del cazzo. Il bello è stato proprio quello. Persone diversissime tra loro che per un pugno di anni beati e incoscienti hanno costruito un’entità unica e riconoscibile. L’aspetto credo irripetibile è la sovrapposizione totale che c’era tra la radio e la città, o almeno una parte della città, comunque la più viva e interessante. Ti sentivi parte del presente, di quello che succedeva. A distanza di più di vent’anni tutte quelle scene che magari all’epoca parevano distinte sembrano tanti lati diversi di un unico prisma, che era quella Torino non più replicabile.
Oggi boh, non lo so. Forse sono i concetti stessi di “radio” e di “cultura alternativa” a non essere più spendibili. Ci saranno altre culture e altre realtà che le raccontano, altra musica e altri locali. Voglio dire, noi dagli ascoltatori ricevevamo i fax, che cazzo ne sappiamo in fondo? Comunque sia, ogni tanto mi capita ancora di svegliarmi al sabato o alla domenica mattina convinto di dover andare in via Viotti ad aprire la radio. È la nostra sindrome post-traumatica da anni ‘90 e tutto sommato spero non mi passi mai. (Carlo Bordone)

radioflash

– Ogni tanto capitano eventi felici e inattesi: la raccomandata che hai ricevuto non è di Equitalia, trovi parcheggio proprio di fronte al ristorante dove avevi prenotato, i rottami della navicella spaziale russa che dovevano cadere nell’oceano precipitano invece sulla Panda del tuo odiato vicino. Cose così: belle e strane. Una vicenda simile è successa a metà degli anni Novanta a Torino, nella sede di Radio Flash. Quasi attirati da una strana calamita, gran parte delle persone che sentivano di avere qualcosa da dire si ritrovarono negli studi di Via Viotti per cominciare un’imprevedibile avventura. Gli inizi furono caotici ma, a poco a poco, il tutto cominciò a prendere forma. Allora poteva capitare che i ragazzi nella stanza a fianco fossero i futuri Perturbazione, che molti finissero a scrivere per “Rumore” di Alberto Campo, che Giorgio Valletta ti facesse scoprire gruppi che ancora non conosceva nessuno. Ma proprio nessuno. Poteva capitare che gli Orbital venissero in radio e prendessero un the con i biscotti mentre tu passavi, in anteprima, il nuovo singolo dei Blur. La volta dopo potevi ospitare Skin degli Skunk Anansie e le offrivi le brioches del bar di sotto, neanche fosse tua cugina Ginevra. Poi, appena fuori dalla radio, c’era una libreria dove il commesso era un certo Giuseppe Culicchia e allora perché non far salire anche lui a fare un pezzo di trasmissione?
Nessuno era troppo in alto. In radio giravano Mao, Paolo Ferrari, Gabriele Ferraris, Silvio Bernelli ma anche cialtroni di ogni risma, sfaccendati, loschi figuri. Andava bene tutto. Funzionava.
E poi i locali. Per citarne uno su tutti, il Barrumba, dove potevi stare nel backstage con gli Stereolab o i Melvins.
Insomma, era un mondo diverso. Si dice che ti accorgi di aver vissuto in una “scena” quando questa non c’è più. Noi Groovers facevamo sei ore di diretta al sabato e sei la domenica. DIRETTA. Non era un problema: era entusiasmante. Poi il tempo ha cominciato a correre e i ragazzi universitari sono diventati mariti o padri con problemi di lavoro e soldi.
Quella Radio Flash ha cominciato a morire.
Resta un rimpianto: se avessimo avuto l’opportunità di restare, di continuare a fare quello che facevamo per passione trasformandolo in un lavoro, forse non avremmo disperso quel briciolo di talento, che, forse, possedevamo. (Pierpaolo Vettori)

Trasmettere una qualsiasi canzone o l’ultimo singolo brit-pop rifletteva un tempo, il mio tempo. E il mio tempo aveva la sua storia, i suoi leader e le sue regole. E ci metterei la firma per rivivere quel momento quando in radio per la prima volta è partito l'”uh uh uh uh” di “Cut Your Hair” dei Pavement (“ma perché mai dicono Corea Corea Corea alla fine?”), significava che i miei stessi principi erano vincenti: e non mi sentivo più all’opposizione. E allora capitava che chi ascoltava la radio si sentisse partecipe di qualcosa e questo qualcosa non fosse altro che il progetto culturale nel quale si identificava. E lì ritrovavava gusti, attitudini, idee, stili di vita, intuizioni condivise negli affetti e molto altro. In pratica quello che si definiva una cultura. E lavorare in una radio significava esserne partecipi. L’atto di ascoltare ci collegava agli altri anche quando non potevamo vederli. E ci collegava anche a qualcosa di profondamente interiorizzato, una sorta di luogo privato. Nella sensazione che da un lato ci fosse qualcosa da dire e dall’altro da ascoltare. Era il richiamo collettivo della notte eterna.logo flash
Volere aggiungere ancora qualcosa a questa sorta di “come eravamo” sarebbe come parlarsi addosso. Quella Radio Flash è finita da un pezzo e nel frattempo anche la città ha cambiato il suo volto. Ma a Torino quel tipo di necessità esiste ancora e ritornerà. E sarà diversa e migliore. Ne sono certo.
Ah erano quattro i Groovers: Carlo Bordone, Stefano Cesale, Riccardo Magagna e Pierpaolo Vettori. Grandi amici, uniti dalla passione per la musica e affiatati fra loro come la Jugoslavia del dopo Tito. Perché c’è sempre la solita trama: un ragazzo sale su un albero, si arrampica tra i rami, passa da una pianta all’altra e decide che non scenderà più.

Carlo Bordone partito per Ouagadougou, Burkina Faso, dove doveva occuparsi della comunicazione di un colosso multinazionale, non è mai arrivato. Di lui si sono perse le tracce a Chivasso Ovest.
Pierpaolo Vettori sovrintende al pool di ingegneri che costruiscono in piazza S. Carlo il mausoleo dedicato alla memoria di Luciano Moggi.
Riccardo Magagna è serenamente in cerca di stabile occupazione.
Stefano Cesale è svanito nel nulla. Fu visto per l’ultima volta dieci anni fa. In partenza per l’isola dei Feaci, urlava: “Ho un progetto!”.
Ora linea al GR di Popolare Network e restate sempre sintonizzati su queste frequenze.

“And there goes the last DJ
Who plays what he wants to play
And says what he wants to say
Hey hey hey
And there goes your freedom of choice
There goes the last human voice
And there goes the last DJ”

Riccardo Magagna

"Credo in internet, diffido dello smartphone e della nuova destra, sono per la rivalutazione del romanticismo e dei baci appassionati e ho una grande paura dell'information overload"