Mono

Gene Clark – No Other

Di tutte le storie su musicisti morti troppo presto quella di Gene Clark è una delle più drammatiche. Era un uomo di immenso talento e di terribili difetti. E molte altre cose. Una presenza carismatica in una band che negli anni ’60 divenne icona americana, un songwriter dotato e poetico, un artista che giammai ebbe l’attenzione che avrebbe meritato, un alcolista e un tossicodipendente. E se mai è esistito il grande romanzo americano, il grande album americano esiste. S’intitola “No Other” ed è la gemma nascosta di quel decennio di malessere, gli anni ’70, quando tutti i sogni scomparirono via. È un’opera che perseguita l’America, ma è anche un ritorno nostalgico a un paese che probabilmente non è mai esistito. È un’innocenza perduta, spirituale e distruttiva. È Gene Clark che mette a nudo la sua anima.
Dissacrando l’ordine temporale degli eventi e creando quelle ellissi che tanto amano i narratori seriali, siamo a Norfolk, Virginia, nel febbraio del 1964. Gene è in tour con i New Christy Minstrels, ascolta da un jukebox “She Loves You”, la suona, la risuona, moneta dopo moneta. Quaranta volte in due giorni. Sapeva che quello era il futuro, sapeva che era il luogo dove la musica stava andando e voleva semplicemente farne parte. Quello dei Beatles era rock’n’roll, R&B eseguito con una tale energia che da tempo non si sentiva. Dal tempo nel quale Elvis aveva iniziato a seguire il Colonnello e il piccolo Richard a trovare il Signore tra i tasti neri e bianchi di un pianoforte. E così lasciò i New Christy Minstrels e si diresse a Los Angeles.gene Clark
In una tranquilla notte al Troubadour, incontrò Jim McGuinn e gli chiese se potesse sedersi e suonare con lui. Più tardi, quando David Crosby, frequentando lo stesso club, si aggiunse, seppero di possedere qualcosa. Something rock, something folk, something new. “Mr. Tambourine Man” fu la canzone che diede loro il loro primo successo e, combinando Bob con il suono della Rickenbacker a dodici corde di McGuinn, diedero vita a quella cosa chiamata folk-rock. E così nacquero i Byrds. Erano gli originali di Gene gli elementi più impressionanti dei primi album. Impressionanti perché c’era qualcosa di irresistibilmente diverso in loro. Gene non conosceva le regole della musica e quindi le ignorava beatamente rendendo la sua scrittura semplicemente unica. Usava accordi che altri non avrebbero mai usato. E mentre i Byrds crescevano in popolarità, Gene prendeva il volo. Così nel primo album aveva più canzoni di chiunque altro e guadagnava più degli altri. Cosicché, McGuinn e Crosby, cominciarono a bloccare le sue nuove composizioni in favore del loro materiale. Gene, un ragazzo di campagna di due metri e mezzo sembrava più un garzone di bottega che una rock’n’roll star. Odiava volare. Più di una volta era sceso dall’aereo prima del decollo madido di sudore. Ma la sua famigerata fobia era solo il sintomo di quella patologia bipolare ereditaria, di quella propensione alla depressione e agli attacchi di ansia che spesso si manifestavano con una paralizzante paura da palcoscenico. Automedicare la sua condizione, naturale e non riconosciuta, con alcool e droghe divenne normale. Un bicchiere in una mano e una pillola nell’altra, l’umore e l’eccessiva introspezione erano appena esacerbate. Tuttavia, all’inizio del 1967 produsse il suo primo album da solista, “Gene Clark with the Gosdin Brothers”, che apparve la stessa settimana di “Younger than Yesterday” dei suoi ex compagni. La sconcertante coincidenza, sia i Byrds sia Gene erano sulla stessa label, non fu l’unico dispetto che l’industria discografica gli gettò addosso, né sarebbe stato l’ultima. I Gosdin Brothers aggiunsero armonie al nuovo lotto di canzoni di Gene, ma non misero mai piede in studio. Gene avrebbe voluto intitolarlo, Harold Eugene Clark, la sua dichiarazione di indipendenza dai Byrds. La Columbia gli disse no. Poi c’era la musica. “Elevator Operator” testimonia quanto fosse ancora legato all’influenza dei Beatles e “Echoes” era baroque rock senza rock, c’era materiale a sufficienza per annunciarne la consacrazione. “Tried So Hard” e “Keep on Pushin'” erano già pronte per l’avvento del country-rock, “Is Yours is Mine” è hippy senza essere hippy-dippy e “So You Say You Lost Your Baby” riprende dove aveva lasciato con “Eight Miles High”. Il management di Gene (lo stesso dei Byrds) lo convinse a rientrare nella band, almeno temporaneamente, per un imminente serie di concerti. Durò tre spettacoli prima di crollare in Minnesota e riprendersi un treno per tornare a Los Angeles mentre il resto della band volava a New York. Non disse una parola, salì su un taxi giallo e si separò. Raccontano che avesse sempre avuto paura dei piccoli spazi chiusi. Non prendeva mai gli ascensori. C’era questo vecchio ascensore negli uffici della Columbia e Gene non lo prendeva mai. Ma per qualche ragione, un giorno lo fece. Rimase bloccato per due ore e mezza. Quando finalmente lo liberarono, lo trovarono avvolto dal terrore. L’interno era completamente graffiato. Urlava.
Nonostante il fallimento commerciale dell’album di debutto, riuscì ad assicurarsi un contratto con la A&M. Si mise al lavoro sulle nuove canzoni, ma senza che suonassero in studio come le sentiva nella sua testa. Fu proprio allora che ritrovò un vecchio amico, Doug Dillard. Doug era la persona giusta, la sua casa al Beechwood Canyon era una calamita notturna per ogni musicista e Gene si unì al divertimento. Purtroppo, Doug era anche la persona più sbagliata. Era incredibile. Potevi trovarlo che beveva, fumava e prendeva LSD. Ma la musica che questi due ragazzi selvaggi nel 1968 misero insieme divenne “The Fantastic Expedition of Dillard & Clark”. Gram Parsons è morto giovane e probabilmente aveva anche più talento e forse una stampa migliore, ma, a prescindere da chi per primo si avvicinò al mondo del country-rock, come autore di canzoni Gene Clark non aveva eguali. La versione originale del disco dura meno di trenta minuti, ma ogni brano è un gioiello. “She Darked the Sun” è un bluegrass rallentato, nato per crescere, “Don’t Come Rollin'” è un brano classico del 1867 che incontra la summer of love del 1967, “With Care From Someone” è un’inondazione di liriche che sposano accordi discendenti e una meravigliosa armonia in tre parti; e quando il tutto si conclude con “Something’s Wrong”, vorresti piangere ma sei troppo impegnato a cantare. L’album è un piccolo capolavoro. “The Gilded Palace of Sin” dei Flying Burrito Brothers uscirà quattro mesi dopo. Per il debutto del gruppo al Troubadour, dopo il soundcheck pomeridiano, cominciarono a bere martini. A un certo punto, passarono all’acido. Lo spettacolo cominciò con Gene seduto sul suo amplificatore di fronte al muro in fondo al palco, Doug saltava allegramente da una parte all’altra suonando il violino. Le recensioni furono entusiastiche, ma nessuno ebbe la possibilità di ascoltarli al di fuori dell’area di Los Angeles perché Gene si rifiutò di andare in tour. I membri della band cominciarono a disertare, e senza il supporto del tour, l’album sostanzialmente non vendette. La A&M gli permise di registrare un singolo, “Why Not Your Baby?”. È Clark al suo apice emotivo, tra elementi folk-rock e bluegrass che si confondono con splendidi arrangiamenti. “Is this the change of mind that I’ve been designed for?”, si chiede, alla ricerca di conforto per un dolore che non può che essere il suo. Il singolo andò male come l’album e quando Dillard invitò la sua ragazza, Donna Washburn, a unirsi alla band, Gene sapeva che era giunto il momento di andarsene. Non prima di mettere insieme tre canzoni per quello che sarebbe diventato l’album “Through the Morning, Through the Night”: la title-track nebulosa e minacciosa, l’archetipica “Kansas City Southern” e “Polly” un altro classico intriso di dolore e nostalgia. Lasciò la città, alcuni dei suoi comportamenti più autolesionistici e si trasferì vicino all’oceano. E si sposò. Era pronto di nuovo a fare musica.
È un cliché innegabilmente vero: gli artisti non scelgono i loro soggetti, ma sono i loro soggetti a sceglierli. “White Light” del 1971 ha il suono caldo della chitarra dove le mani sono attente a far uscire la nota giusta per sposare la parola giusta. Prodotto da Jesse Ed Davis, ex chitarrista di Taj Mahal, “White Light” è un mattino d’oro che sorge dolcemente (“Because of You”, “The Virgin”); sotto la magnificenza della luce del pomeriggio (la title track, “One in a Hundred”); una luna piena e una notte splendente riflessa dall’oceano della California del Nord (“While My Love Lies Asleep”, “1975”). Poi c’è “Spanish Guitar”, Gene Clark al suo meglio. La delicata introduzione della chitarra, un testo più impressionista, ma sempre meravigliosamente evocativo. Quante canzoni conoscete che usano la parola “dissonant” nel primo verso? La melodia è dolorosamente malinconica in una coralità ancora più irresistibile. Una masterpiece di quattro minuti e cinquantasette secondi. L’anima innegabilmente macchiata ma eroicamente unica del suo creatore. Anche se chi aveva le orecchie per sentirlo non poteva che restare stupefatto, non vendette meglio di nessun altro suo disco e la casa discografica dimenticò di stampare il titolo dell’album in copertina.

 

La A&M era, tuttavia, disposta a finanziare le session per un altro album, ma finì per chiudere le cose prima che tutte le canzoni fossero registrate e si rifiutò di pubblicare ciò che era stato completato. Melodie come l’inno esistenziale “Full Circle” e l’inebriante “I Remember the Railroad” sono, sorprendentemente, abbinate nella loro brillantezza alle cover, come l’elegiaca “Rough and Rocky” di Flatt & Scruggs e la sua, Byrds-era, “She Don’t Care About Time”, rallentata e ancora più struggente. Uscirono solo in Olanda (dove Gene ebbe sempre un seguito) in quello che è diventato l’album “Roadmaster”.
Dopo aver contribuito con le uniche due buone canzoni originali all’album della reunion dei Byrds del 1973, David Geffen lo salvò temporaneamente da un limbo senza etichetta, facendogli firmare per la sua Asylum Records. A loro merito, Gene e il produttore Thomas Jefferson Kaye riuscirono a impossessarsi di un budget di 100.000 dollari, un’enorme somma di denaro nel 1973 per un musicista con la scarsa esperienza commerciale di Gene. In ogni caso, era pronto a concepire il suo capolavoro, “No Other”. Sotto la patina country-rock di “No Other” c’è un disco unico nel suo genere, sull’esplorazione infinita del suono e dello spazio proprio come “Starsailor” di Tim Buckley e “Oar” di Skip Spence. “No Other” postula Clark come un profondo meta pensatore, quello che in “The Virgin” aveva già scritto “Now, her teachers and philosophers/And the poet’s silver throat/Are the vessels which on wisdom’s karmic ocean she will float”. Eppure “No Other” non è solo roots-rock. Clark e il suo produttore, Thomas Jefferson Kaye, gli diedero una gamma di colori molto più ricca, e anche le canzoni che iniziano in contesti country finiscono in regni propri. Ci sono cori femminili, corni, sintetizzatori, percussioni latine, violini distorti e linee ritmiche suonate da una falange di bassi sovraincisi. Sembrava lottare per sopravvivere, per sfondare quel muro di suoni. Le voci sono intense. La prima cosa che senti è la produzione, la sensazione generale. Dieci ascolti e inizi a fissarti sul testo. E alcuni dei testi ti distruggono, sono così strani e meravigliosi. Clark, in un’intervista del 1984, descrisse l’album come spirituale, aggiungendo: “È stato scritto durante un periodo nel quale mi sentivo come se stessi ricercando la mia anima”. C’è qualcosa di veramente toccante. Per un ragazzo che non riusciva a mettere insieme una frase, poter scrivere dei testi così incredibili. gene clark
Ogni canzone di “No Other” illustra lo stato d’animo metafisico nel quale Clark si trovava mentre li componeva. Come egli esplorasse il significato e lo scopo della musica stessa (lo stesso tema di “Spanish Guitar”). Non sorprende quindi che “No Other” sia stato composto in gran parte durante il soggiorno nella casa costiera di una amica, nascosto in una stanza adornata da una massiccia finestra panoramica proprio sopra il Pacifico. Lì, stava seduto, scampando dal mondo e scrivendo per ore e ore a picco sul mare, mentre le onde dell’oceano si infrangevano sotto di lui. Radicato in solitudine, godersi un joint o una bottiglia o due bottiglie e non doversi scusare la mattina per quello che era successo la sera prima; attento alle lezioni tranquille della natura senza trasformarsi in un semplice ritorno alla terra; un uomo pacificato, forse, che non dimentica che siamo tutti, tutti noi, soli: le stelle allineate, lo ying aveva stretto la mano al suo yang. Più di ogni altro suo album, le canzoni sono servite come semplici schizzi. Ciò che conferisce al disco la sua singolare potenza è il connubio di un’immagine così aperta e ponderosa con la musica e una produzione cosmica, brillantemente rappresentata dall’epico folk progressivo di “Strength of Strings” e “Lady of the North” e dal torbido e acquitrinoso fruscio della title track. E qui, il merito va dato al produttore Kaye. La voce di Clark restava intrisa nel dolore pur riflettendo su tempo, fede e solitudine. Come in “The True One”: “They say there’s a price you pay for going out too far”. “You can buy a one-way ticket out there all alone/And you can sit and wonder why it’s so hard to get back home.” O quel verso di “Life’s Greatest Fool”: “Words can be empty/ Though filled with sound/Stoned numb and/Drifting hard to be profound/Formed out of pleasure/Chiseled by pain/Never the highest/And not the last one to gain”. O ancora “Strength of Strings” (il titolo è tratto da “Lay Down Your Weary Tune” di Dylan), con quel bridge cantato da una spettrale cappella: “I am always high/I am always low/There is always change/Hear the strings are bending in harmony/Not so far from the breaking on the cosmic range”. “Life’s Greatest Fool” inizia il lavoro, e potrebbe anche trarre in inganno: un esuberante apripista con un coro accattivante, tale finché le parole non si allontanano dalla melodia. I vincitori e i perdenti, e se la libertà o il destino decidessero chi è chi, e quale sia il posto migliore nello stadio per assistere a quella sciocca competizione che è la vita. Quando parte il brano successivo, “Silver Raven”, il velo si squarcia, e capisci perché sei stato portato qui. “Strength of Strings” è la migliore canzone mai scritta sul potere trasformativo e nascosto della musica, “Some Misunderstanding” non riguarda una relazione andata male e potrebbe essere anche solo su come sentirsi veramente vivi significhi necessariamente flirtare con la morte: “All I know it’s all related/Maybe someone can explain time/But I know if you sell your soul/To brighten your role you might be disappointed/In the lights/We all need a fix/At a time like this/But doesn’t it it feel good to stay alive”. Un percorso spirituale, consapevole e ispirato. Quello che Clark sonda, sperimenta, verifica, intorno a sé e in se stesso, è la doppia faccia di tutto, centro dell’incomprensibilità, dell’inaccettabilità del mondo: bene-male, luce-tenebra, gioia-dolore, vita-morte. E “Lady of the North” è l’unica canzone dell’intero album che affronta direttamente il tema dell’amore romantico, un amore che è troppo reale, troppo intenso, troppo perfetto per continuare a lungo. Non ha mai cantato meglio. O più ambiziosamente, in alcuni punti, la sua voce è lo strumento più avvincente. L’intitolò “No Other”. Aveva ragione.
L’album fu un altro successo artistico e una catastrofe commerciale. David Geffen era furioso che un budget di 100.000 dollari in studio avesse prodotto solo otto canzoni finite. Gene stava bevendo più che mai e aveva aggiunto cocaina al suo arsenale di auto-afflizione. Era cresciuto in un mercato musicale che operava secondo due regole molto semplici. Una, dovevi avere una grande casa discografica. Due, dovevi avere un disco di successo. Questo è quello che accadde ai Byrds, dopo tutto, e fu il motivo per il quale Gene divenne sempre più confuso, arrabbiato e amaro, quando, con uno splendido album dopo l’altro, il suo valore commerciale non riuscì mai a tenere il passo con la sua crescente reputazione critica. Questa situazione lo fece confondere sul suo reale posto nell’industria musicale, arrabbiato con qualsiasi etichetta e deluso dal pubblico che non aveva sostenuto la sua musica. “Two Sides of Every Story”, disco del 1977, conteneva ancora qualche buona canzone. Soprattutto “Home Run King” e il dolente quartetto di canzoni originali sul lato B che esplorano la rottura del suo matrimonio sono tutte la quintessenza del Clark più seducente. Ma il remake di “Kansas City Southern” di Dillard & Clark, no. La cover di “Marylou” veste una canzone già debole in uno sfortunato arrangiamento anni ’50 mentre l’altra cover dell’album, “Give My Love to Marie”, di James Talley, è quasi soffocata dai violini.
Le canzoni registrate da Gene in questo periodo sono, per chiunque ami la sua musica letteralmente inascoltabili. Era in eroina troppo spesso. Terri, la nuova fidanzata, aveva questa piccola scatola di metallo. Conteneva la loro unica via di fuga. Se la litigavano sempre e finivano in strada, seminudi, a rincorrersi. Verso la fine degli anni ’70 riusciva a malapena a finire una frase. Era un casino.
Gli anni ’80 sono stati per lo più un decennio di totale disillusione. La maggior parte delle canzoni registrate in questo periodo (come si può ascoltare su “Firebyrd” del 1984, registrato per la piccola etichetta Takoma), sono liricamente banali e musicalmente mediocri, e per di più mal prodotte. Non importava quanto fosse incasinato e quanto spesso compromettesse il suo enorme talento, aveva qualche sostenitore. Girò in tour con Jerry Jeff Walker. Aveva i suoi problemi, ma aveva un buon cuore. Scaricava gli amplificatori e li portava sul retro. Non importa che nevicasse.
– “Oh, non c’è bisogno di farlo, lo porto io”.
Gene – “Ah, non mi dispiace”.
– “Ehi, qui c’è Gene Clark dei Byrds che porta fuori il mio amplificatore, e se lo ricarica dopo il concerto”.
Nonostante soffrisse di un’ulcera così grave da far sì che gli venisse rimossa la maggior parte della mucosa dello stomaco, quando decise di registrare un album in duo con Carla Olson dei Textones verso la fine degli anni ’80, si stava muovendo nella giusta direzione, musicalmente e non solo. Troppo al verde per comprarsi droghe pesanti, era abbastanza sobrio da iniziare a mettere ordine nella sua vita. E così “So Rebellious a Lover” era la migliore musica che avesse fatto in tutto il decennio. Già solo “Gypsy Rider” vale il disco. Forse ci sono troppe cover, ma l’arrangiamento di “Fair and Tender Ladies” è sublime. Con la produzione di un T-Bone Burnett, sarebbe stato il dovuto riconoscimento nella percezione pubblica che Gene così tanto desiderava .
Quello che l’ha ucciso prima che potesse realizzare il successivo album con la Olson è crudelmente ironico. McGuinn, Crosby e Hillman si riunirono brevemente per alcuni concerti. A uno di questi spettacoli, era presente Tom Petty e Petty decise di registrare una canzone dei Byrds. “I’ll Feel a Whole Lot Better” di Clark fu inclusa nell’album “Full Moon Fever”. I Byrds lo aiutarono a iniziare, i Byrds lo avrebbero aiutato a farla finita.
Con la promessa di regolari diritti d’autore che alla fine sarebbero ammontati a oltre 100.000 dollari, Gene perse poco tempo per spendere la sua fortuna. Nessuno è più goloso di un uomo affamato. Si comprò una Cadillac e una moto, ma soprattutto droga, in particolare crack. Quando scoprì di avere un cancro alla gola, il divertimento finì. Alla fine, finirono anche i soldi di Petty e le bottiglie di vodka rimasero lì, vuote, dove trascorse gli ultimi suoi giorni.
Harold Eugene Clark era nato nel 1944 a Tipton, Missouri, il terzo di tredici figli. Suo padre aveva combattuto Hitler in Europa e gli aveva insegnato a suonare la chitarra: Hank Williams, Elvis e gli Everly Brothers. Si unì al solito gruppo adolescenziale – Joe Meyers e gli Sharks – prima di formare un suo gruppo folk, genere Kingston Trio, i Rum Runners. Notato a Kansas City da un membro dei New Christy Minstrels, fu arruolato.
Gene Clark non era un intellettuale, nel senso che non aveva letto Rimbaud o Blake. Se si fosse preoccupato di leggere, si sarebbe attaccato ai fumetti o alla Bibbia. E che si tratti di Byrds, Dillard & Clark, o da solo, nessuno ha scritto melodie così dolorose. Parlando della sua fonte primaria di ispirazione, il poeta inglese Philip Larkin ha detto, “la privazione è per me ciò che i narcisi erano per Wordsworth”. Gene Clark era una pertica di privazione piantata nel centro di Missouri.
Il coroner escluse la morte per insufficienza cardiaca. Si era prosciugato. Gene volle essere sepolto nel cimitero di Sant’Andrea, appena fuori Tipton, e la famiglia si assicurò che i suoi desideri fossero rispettati. Ciò che è inciso sulla sua lapide è semplice proprio come l’uomo che sta sotto di essa. Si legge: Harold Eugene Clark, 17 novembre 1944-24 maggio 1991, No Other.

 

 

Riccardo Magagna

"Credo in internet, diffido dello smartphone e della nuova destra, sono per la rivalutazione del romanticismo e dei baci appassionati e ho una grande paura dell'information overload"