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“Oh Blue, mio Blue!” – L’esordio dei “Life in the Woods”

Quando si lavora nell’ambito della narrazione musicale (non mi piace chiamarla critica, sa di una superiorità rispetto ai musicisti – e alla Musica stessa – che per mio conto rappresenta quanto di più dequalificante si può commettere), capita spesso di essere contattati da addetti ai lavori quali operatori marketing, press agency e in ultima battuta anche musicisti e autori, con la ‘preghiera’ di un ascolto in anteprima, la promessa (spesso mai mantenuta già in partenza) di un’esclusiva prioritaria e quasi assoluta, e la speranza di una buona critica e di un rilancio – a tutti i propri lettori e followers – del lavoro musicale proposto.
Nulla di male, ovviamente: anzi, mi preme dire che a coloro i quali – come il sottoscritto – interessa del futuro della musica genericamente raggruppabile sotto il segno del “Rock”, poter ascoltare ed eventualmente (laddove di buona o anche ottima fattura) sponsorizzare della nuova musica, è un modo di ripagare la stessa con l’unica – piccola, e spesso inadeguata ma certamente sincera – arma a propria disposizione.
Così, quelle parole tenteranno in maniera volitiva, con più o meno efficacia e passione (a seconda di ciò che ha suscitato nell’animo del narratore, e delle capacità del medesimo di metterle al servizio del proprio sentire), ma con una pressochè inequivocabile sincerità, di riportare – a chi le leggerà – tutta la passione e la cura che gli artisti\artefici dell’opera ascoltata hanno riversato nella sua stessa produzione, e buona parte delle sensazioni suscitate dal loro ascolto. Il pericolo, come potrete di certo immaginare, sarà dover invece riuscire a navigare nei marosi pentagrammatici, tentando di svicolare da tutte quelle ‘creature’ non esattamente definite, assolutamente non ben rifinite o – all’estremo – indefinite e inconcludenti, che arrivano comunque sempre copiose sulla tavola di chi dovrebbe raccontarle.
Difficile dedicare a tutte lo stesso tempo, e ascoltarle con attenzione; assolutamente impossibile valutare la pubblicazione di una relazione, o anche una piccolissima citazione, per ognuna di quelle.
Per questo, quando capita di incrociare un piccolo diamante incastonato nella “roccia” brunita della musica “rotolante”, succede di pensare immediatamente a quanto sarebbe bello poter dissotterrare quel piccolo spuntone allotropico più o meno per primo, per poter verificare di essere davvero davanti ad un prezioso grezzo, più che ad un certo meno prezioso ammasso di grafite. Ecco. Immaginatemi in questo preciso stato d’animo, quando qualche giorno fa mi sono imbattuto – in quel calderone multiforme e non sempre inutile che è feisbùk – nel primo scintillante video di una giovane, parzialmente acerba, ma di certo molto più che promettente band italiana che definire ‘Alternative rock’ (soppesando bene ciò che ho ascoltato) pare un po’ riduttivo.
Protagonisti delle immagini e – soprattutto – della musica che mi accingevo ad ascoltare (e riascoltare subito avidamente), tre ragazzi vestiti in perfetto completo bluesbrotheriano nero – ovviamente – e dotato di cravattino d’ordinanza, ‘sguinzagliati’ (ma non troppo, per esigenze di ripresa) al centro di uno studio di registrazione adeguatamente addobbato alla bisogna, che rispondono al nome di Life in the Woods. Un piccolo sforzo di memoria per cercare di ricordare dove (e da chi) avessi già sentito nominare quel nome – memoria che normalmente mi torna sempre, quasi infallibile, ma solo quando si parla di musica – e un’occhiata all’artefice del post.
Gianni Maroccolo, in arte ‘Marok’, una vera garanzia musicale in senso assoluto, e in particolare per la gente della mia generazione, che ha vissuto i suoi Litfiba e i CSI, e che più o meno grazie a lui ha visto nascere (in fama nazionale) e crescere musicalmente un gruppo come i Marlene Kuntz; che per l’appunto, quasi in uno scambio di favori dal sapore rock, avevano in precedenza portato all’attenzione del proprio pubblico proprio quei tre ragazzi dall’aria vagamente daliniana, e dal viso impertinentemente giovane (no, non è una colpa, ma una invidiosa constatazione), prima postandone il singolo sui loro media, e poi portandoseli appresso a fargli da apertura in alcune date del loro recente e poderoso tour, ormai in fase conclusiva.
Ad ogni modo, quel singolo “Nothing is” ha avuto subito il merito di farmi sobbalzare dal mio torpore divanifero domenicale, lasciandomi in bocca il sapore misto di un classic rock alla Zeppelin, e un novello rivisitato stoner alla Wolfmother. Un gioco delle referenze legittimo, che però – anche passato il primo e il secondo momento dell’eccitazione chimica da ‘primo sguardo’ – non mi riusciva a soddisfare: ne dovevo sapere di più. E chi contattare se non proprio il Deus ex machina del mio risveglio anti-soporifero? Gli mando un messaggio che suona più o meno come una supplica per il preascolto del loro primo EP “Blue”, in uscita a fine Ottobre, a cui Marok risponde con un laconico ma salvifico “certo che si!”.
E, così, mi ritrovo tra le mani la loro “dinamite”. Un percorso adrenalinico in salsiscendi, costruito con cura esigente e ambiziosa capacità artistica tra corde elettrificate e distorte, invasioni di sitar, e voci che vanno dal pulito formato hi-fi stile classic, a echi filtrati elettronicamente: un ragionato costrutto di cinque brani di cui 4 originali, a cui si unisce una eccellente versione di “Man of constant sorrow”, brano della tradizione folk americana di inizio ‘900, rifatta in chiave roots in una veste che non ha molto da invidiare a quella che pubblicarono gli Stones nel loro Exile on Main St. del 1972. La voce di Logan Ross è sorprendentemente calda e graffiante, per essere quella di un cantante poco più che ventenne ma che, evidentemente, alle prime armi non è. Così come è ottima la calibratura tra la sua chitarra e la poderosa ma sempre attenta e precista sessione ritmica, composta dal bassista Franck Lucchetti, e dallo “slappy drummer” Tomasch Lesny. I tre, nella perfezione del loro pitagorico numero, riescono a destreggiarsi con capacità – ed una certa giovanile malcelata sicumera – tra tutti i registri del rock che propongono, passando – nel loro EP – da una briosamente energica “Manifesto” (che se vuol davvero essere il manifesto della loro musica è certamente molto più che adeguatamente ispirante), ad una melanconica quanto coinvolgente “Hey Blue” (“Hey blue, why don’t you come to me?”), quasi suonata in sessione unplugged, per approdare subito dopo alla potente e gridata “Nothing is”, e rifarsi nuovamente più intimi e acusticamente accoglienti nella bellissima “The ballad of no one” (“Are you wainting for the one who never stops?”), ballata profondamente sentita, dal sapore nitidamente country rock ma senza eccesso.
Davvero un bel “buon nuovo giorno” quello che danno i Life in the woods al secondo secolo del rock: con il loro “Blue” albeggiante, ci lasciano in bocca quel tanto di fame dal sentire già crescere la voglia di ascoltare quel loro primo album che dovrebbe uscire nel 2020. Confermarsi non è mai facile, farlo in un album completo ancora meno; ma, per quello che abbiamo sentito e visto, i tre ragazzi sono sulla buona strada.
E comunque, noi abbiamo già molta fame.

 

 

Stefano Carsen

"Sentimentalmente legato al rock, nasco musicalmente e morirò solo dopo parecchi "encore". Dal prog rock all'alternative via grunge, ogni sfumatura è la mia".