Live Reports

Il sole splende sul Rock. Diario raggiante della quinta giornata degli I-Days 2023

Risplendere sempre, risplendere ovunque,
sino al fondo degli ultimi giorni,
risplendere e nient’altro!
Ecco la parola d’ordine mia –
e del sole!”

Se lo state pensando, vi correggo subito: no, queste non sono parole mie. Né tantomeno appartengono al testo di una delle tantissime e stupende canzoni ascoltate ieri, mentre ero immerso nel caldo afoso e nella musica corroborante degli I-Days. Anche se avrebbero benissimo potuto farne parte, quelle lì sopra sono invece parole di una poesia che ho preso in prestito a Vladimir Majakovskij, che in vita fu poeta, scrittore, drammaturgo, regista teatrale, attore, pittore, grafico e giornalista, nonché cantore della rivoluzione d’ottobre: quindi, come potete vedere, in mezzo alle eclettiche voci che si sono potute ascoltare ieri all’Ippodromo La Maura di Milano, ci poteva anche stare.
Quasi un pesce fuor d’acqua, che però balzella benissimo e ancora più che vivo nella terra umida e acquitrinosa delle rive di un fiume. E tra la fiumana di persone che ieri hanno affollato l’arena concerti, di certo questo assunto potrebbe trovare una vasta eco: perché la fulgida poesia, e certa musica appassionata, rischiarano menti e corpi e cuori allo stesso modo nel quale i raggi del Sole rendono tutto più chiaro e limpido.
Tali e quali ai ragazzi dei Nothing but thieves, umanissimi raggi splendenti e pesci fuor d’acqua, su un palco che li ha visti saltare, ballare e rockeggiare sorridenti davanti ad una platea rock dove non poteva che splendere un sole baldanzoso. Perché a guardarli bene, Conor Mason – voce radiosa e mente scintillante –  e soci (tra i quali spiccano per bravura Joe Langridge-Brown e James Price, rispettivamente lead guitar e batterista della band) danno l’impressione di essere quasi dei giovani nerd capitati lì per uno straordinario caso, pesci anche loro in un mare sterminato e ignoto. Eppure, ascoltando quella voce e quelle note mentre si irradiano dense e cocenti tra le cellule della tua pelle, capisci subito che quei cinque ragazzi sono lì sopra perché non potrebbero davvero essere altrove. E nonostante sprigionino una corposa setlist di quattordici radiose canzoni prese dai loro quattro album (dei quali l’ultimo, Dead Club City uscito non più tardi di venerdì scorso, ndr), si ha quasi l’impressione che il tempo concesso loro sia stato troppo poco, troppo rapido e troppo improvviso, come in effetti accade per qualsiasi evento luminoso e aggraziato.
La voce e la splendida energia che emana da Conor, mentre intona le flessuose liriche di canzoni come Particles,  Overcome o ancora Impossible, non possono lasciarti indifferente: c’è qualcosa in più che non solo semplice intrattenimento nudo e puro in quei volteggi musicali dei ragazzi venuti dal piovoso Essex, una mistica luminescenza che continua a sobbollirti dentro anche quando, sulle note di Amsterdam, li vedi uscire estasiati e perfettamente a loro agio, con la promessa di ritornare lì in zona per il prossimo tour.
E mentre ti rendi conto che quei fulgenti sorrisi che hanno appena abbandonato il palco sono rimasti addosso anche un po’ a te, passano venti minuti di tempo terrestre che – nel suo moto rotatorio attorno al Sole – significano poco meno di 600 km di piroetta, ma che sono il tempo che basta per far apparire sul palco un nuovo set di strumenti, e una nuova imminente tempesta di raggi: un magnifico duo, con band al seguito di quattro elementi, direttamente dalle campagne dell’Ohio.
I Black Keys sono quanto di più distante dai Nothing But Thieves potreste immaginarvi, se non musicalmente – con il loro carico di rock scarno e feroce, di forte ispirazione blues –  di certo esteticamente, con quei camiciotti a quadri e bermuda a tasconi alla Tranquillo weekend di paura. Di certo non è paura quella che Daniel Auerbach (voce e chitarra del duo) e Patrick Carney (batteria) portano sul palco; tantomeno la paura è il sentimento predominante che si stende tra il pubblico, che ha ormai trasferito tutto quel calore solare e quelle radiazioni musicali, attraverso il proprio sistema nervoso in energia dirompente e vocale. Tra le chitarre graffianti di Auerbach e le pelli deflagranti della batteria di Carney, vengono snocciolati uno ad uno tutti i diciassette brani del loro set, a partire dalla scarnificante I got mine “ (estratta dal loro quinto album Attack & Release del 2008, precedente a quel deflagrante El Camino che gli diede fama mondiale) che prelude già il mood della loro musica: un urlo di rabbia e livoroso ancestrale dolore tipico del blues. Una dopo l’altra, i due statunitensi originari del Buckeye State sciorinano decibel distorti e rullanti potenti e ritmati, su cui le migliaia di teste cantanti non evitano di ballare e muoversi quasi indemoniate, a cercare di esorcizzare la caldana che – tipica di delle terre dove il blues è nato, partorito dalla black music e dagli spirituals – paiono di essersi portati dietro.
Scarni anche loro due sul palco, Auerbach non proferisce che pochissime parole di ringraziamento e alcuni dei titoli delle canzoni che libera al suolo e alle orecchie. Diciassette canzoni da otto dei loro dodici album, sei delle quali estratte da Brothers; che a quanto pare dev’essere quello da cui si sentono più rappresentati e al quale rimangono appesi come macchie sul sole del rock. E se è vero che EL Camino lì ha fatti conoscere e riconoscere dal mondo intero, allora il set non poteva che concludersi con la struggente Little Black Submarines e con il ballo sfrenato e il canto accorato di Lonely Boy: e in un attimo tutti a ballare, e cantare alzando mani e pugni al cielo. Perché in effetti, chi non ha avuto almeno un “love that keeps me waitin’”?
E se tra il secondo atto e l’atto finale di questa splendida quinta giornata degli I-Days 2023 c’è nuovamente un salto quantico siderale, o quantomeno larghissimo, i momenti che separano le due estremità delle galassie dell’Universo Rock servono per rifocillare, sgranchire ossa e pensieri, incontrare vecchia amici prossimi, e nuovi amici lontani, e prepararsi a ciò che sta per arrivare. Ovvero, una delle voci più riconoscibile del panorama Brit, Liam da Manchester, il “bello” dei due fratelli Gallagher, che caracolla sul palco avvolto in un giubbotto da hooligan mancuniano, e armato da quei begli occhi verdi parzialmente nascosti nella fondina degli occhiali scuri di cui è provvisto.
E’ finalmente arrivato il momento jukebox, quello che buona parte dei fan accorsi attendeva con trepidazione, e che chiaramente fa accalcare tutti verso il bordo del palco. Nessuno pare assolutamente essersi scordato quello che i due fratellini di Manchester hanno saputo donare al mondo con i loro Oasis in quei quasi venti anni di attività, quella band che dalla stampa di genere venne più volte accostata ai Fab Four, certamente non per la loro capacità di innovazione e di creazione di un genere, ma piuttosto per quelle caratteristiche epidermiche e semplici che dalla musica dei ragazzi di Liverpool i due Gallagher avevano saputo estrarre, distillare e riportare in auge.
Non è un caso se le voci del pubblico diventano una sola con quella di Liam tutte le volte che intona una dopo l’altro pezzoni come Morning Glory, Rock ‘n roll star, o ancora Stand by me, e Roll it over, e ancora la terzina conclusiva finale Cigarettes & Alcohol, Wonderwall e Champagne Supernova. E, a parte il calcistico sarcasmo sciorinato dal tifoso Liam Gallagher, quando ha chiamato a raccolta tutti i tifosi presenti del City – non prima d essersi fatto un po’ beffe di quelli interisti – i suoi dodici brani di set sono stati  (che io mi ricordi, certo) il juke box live di successi planetari più lungo che l’umanità intera abbia mai accolto.
E anche se, come diceva Eraclito, “Il sole è nuovo ogni giorno”, non si può comunque fare a meno di pensare che per i due fratelli coltelli forse sarebbe davvero l’ora di seppellire le proprie spocchiose rivalità e rimettere insieme la vecchia band, anche solo per vedere cosa succede.
Sole o non sole, solo il rock può farti uscire da una giornata di festival afosa come quella di ieri, con la voglia di cantare tutti insieme “Don’t look back in angera capella (non inserita tra quelle proposte durante il concerto, ndr), pensando ancora una volta che forse – come diceva il profeta Pete Townshed – “Il rock non eliminerà i tuoi problemi, ma ti permetterà di ballarci sopra”.
Cosa inoppugnabilmente, e luminosamente solare.

(La foto di copertina, così come la foto 1 e la 3 dell’articolo, sono di Luca Marenda; le foto 4, 5 e 6 inserite nell’articolo sono di Fabio Izzo. A loro vanno i nostri ringraziamenti)

 

 

Stefano Carsen

"Sentimentalmente legato al rock, nasco musicalmente e morirò solo dopo parecchi "encore". Dal prog rock all'alternative via grunge, ogni sfumatura è la mia".