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Gregory Crewdson – Scene di ordinaria perturbazione

C’è un ragazzotto alla fine degli anni ’70, un sedicenne come tanti altri che nella periferia di New York mette su una band: suonano all’ultimo piano di un palazzo, sono cinque amici e compagni di scuola vestiti in modo imbarazzante, che scrivono canzoni sulle ragazze, la scuola, sulla loro banale adolescenza, in perfetto stile pop.
La loro sarebbe una storia interessante da raccontare: un manipolo di capelloni butterati che passano il tempo a guardare i cartoni animati in tv, incantati dalla pubblicità proprio come tutti i loro coetanei ma che, a differenza loro, ci scrivono sopra canzoni e fin dal loro debutto nei locali fanno il tutto esaurito tra le urla dei fans.
Sarebbe una bella storia dicevo, se non fosse il realtà solo il pretesto per raccontarne una migliore, quella di uno di loro, Gregory Crewdson.


Nel 1981 gli Speedies rallentano fino a fermarsi e si sciolgono come cereali nel latte della colazione.
Gregory, abbandonate le velleità musicali, studia fotografia al college, poi all’università e frequenta un master in Belle Arti.
Ha le idee precise, uno stile determinato e mutuato da un immaginario cinematografico: la sua carriera comincia a inizio anni ’90 con un lavoro imponente, “Natural Wonder”, la prima di una trilogia che lo porterà ad esporre in tutto il mondo.
Le sue foto sono interi film compressi in un solo fotogramma, ma non film qualsiasi. La sua fonte di ispirazione è nettamente l’atmosfera cupa, straniante, perturbante di David Lynch: gioca con le luci Crewdson, forzando il crepuscolo e rendendolo protagonista, accentuando un orizzonte, un angolo, una porzione di scena come un prestigiatore indirizza gli sguardi del pubblico. Sono scene costruite fin nei minimi dettagli, abbozzate su carta (sarebbe una fortuna immensa vedere esposti anche quelli, un giorno) e poi realizzate con cura maniacale, costruite seguendo una storia che non esiste, cristallizzata nell’unico istante dello scatto.
In questo sta la capacità straordinaria di coinvolgimento delle sue opere: nelle fotografie immobili, tra i soggetti che fissano punti lontani, nel decadimento sciupato e logoro di case, luoghi di lavoro, strade, boschi dove tutto è fermo in modo innaturale.


Eppure è sufficiente fissare le foto per pochi secondi, lasciarsi scivolare dentro fino a cogliere all’improvviso qualcosa che si muove: un’emozione delicata ma invadente, sporca e limpida allo stesso tempo, fascinosa ma anche respingente. Di certo profondamente intensa.
Forse il frammento dell’anima di un grande artista, rimasta lì impigliata tra le ombre invisibili di un mondo parallelo.
Ed è a partire da quel brivido che ognuno inventa il prima e il dopo, in un gioco di moltiplicazione delle storie che si ripete all’infinito fino a comprenderle tutte, fino a renderle un film intero.
Lynch, Hitchcock, Cronenberg.
C’è qualcosa di ognuno di loro.


Ah. Se si potesse immaginare una colonna sonora dietro al lavoro di Gregory Crewdson, probabilmente sarebbe una canzone dei Cure o, naturalmente, una composizione frutto del genio cupo e ambiguo di Angelo Badalamenti.
Di certo, in lontananza, piano, risuonerebbe anche quella vecchia hit dei The Speedies, “Let me take your photo”, usata per un famoso spot americano della Hewlett Packard.
Visionaria, profetica.
Roba da film.

Informazioni:
Gallerie d’Italia – Gregory Crewdson

Fotografie ©Richard Crewdson

Valeria Di Tano

"Vivo circondata da storie e parole per lavoro e soprattutto per passione. Le uso come mattoni per costruire, come labbra da baciare e come aria da respirare. Leggo, scrivo e sorrido. Tutto in equilibrio sui tacchi a spillo."