Cuori a distanza di una notte
Certo che molti scrittori hanno saputo dare voce a storie che trasudano umanità e io stessa ho letto negli anni romanzi che mi hanno generato profonda empatia, ma da adesso in poi ogni altro libro sarà, per quanto mi riguarda, messo a confronto con le emozioni che mi ha suscitato Marco Rossari con “Nel cuore della notte”.
È difficile dire se sia una storia di amore, sesso, politica o poesia, così come se in questo romanzo si parli di solitudine o di coppia, di vita o di morte, di ispirazione o di abbandono.
Forse, prima di ogni altra cosa, è un libro di speranza. Ma lo è in modo disperato.
È contemporaneo e vero, fatto di oggi, qui ed adesso, ma capace di risvegliare, in chi è pronto a lasciarsi trasportare, suggestioni talmente concrete e profonde da diventare un amalgama senza tempo di letteratura, cinema e musica.
Fin dal primo capitolo Rossari costruisce un’atmosfera torbida, spessa, densa di aspettative; potrebbe essere l’inizio di un thriller: due sconosciuti che condividono in piena notte un lento viaggio in autobus in un non meglio precisato paese tropicale. Uno è un turista accompagnato dalla fidanzata, l’altro è solo, spento, un’ombra animata dalla birra e dal desiderio di raccontarsi: la sua voce si insinua nello spazio, è rauca e ruvida, esce dalle pagine scritte per aggrapparsi al suo interlocutore e un po’ (molto) anche al lettore.
Il suo è un monologo che assorbe tutto: il viaggio verso una destinazione fisica si dissolve, perde importanza, l’attenzione è catalizzata dalle sue parole che frugano in un passato fatto di tenerezza, delirio e ossessione, di discesa fino al fondo dei suoi inferni e di faticose incespicanti risalite.
Attraversano il romanzo infinite suggestioni, ma in particolare due ispirazioni musicali: Tim Buckley con la sua “Love from Room 109” a fare da colonna sonora alla storia d’amore, come quei ricordi dolcissimi che riposano all’ombra e si riaccendono con un raggio di luce improvviso; e Ry Cooder, con “Paris Texas”, colonna sonora dell’omonimo film di Wim Wenders: chitarra e silenzio. Pieno e vuoto. La scena del film che si intreccia con la musica lasciandosene invadere e quella stessa musica, l’assolo di una chitarra pizzicata, un fruscio disordinato in sottofondo che si appoggia tra le righe del romanzo. Come se da quelle immagini di sole e deserto, dalle parole che nella scena più intensa del film il protagonista bisbiglia al telefono, girato di schiena dietro un vetro opaco, la musica sorgesse da sola, evocata. (E forse è così che accade, sempre, quando lasciamo fare alla musica).
C’è comunque un tratto poetico che accompagna la vita dello sconosciuto e che inevitabilmente trascina anche il lettore, ma è una poesia traballante, sfuocata; c’è amore nella sua storia, ma è quasi inconsapevole, come se fosse inevitabile la sua improvvisa degenerazione da acerbo ed ingenuo a marcio e malato, come se fosse impossibile, nonostante ogni sforzo, trovarsi senza prima essersi persi violentemente.
È un racconto che ha bisogno del buio, come quell’uomo disfatto, immerso nei suoi ricordi fatti di poesia e alcol e soprattutto nei suoi crudeli sensi di colpa.
Ed è un racconto che finisce all’improvviso, tra le sfumature di un’alba straordinaria, nella luce nuova in cui ogni fantasma scompare (anche quelli di chi sta leggendo) senza nemmeno dire addio.