Live Reports

Attraverso il wormhole, le ‘Visioni perfette’ di Thalia Zedek

C’è un wormhole che collega le varie ere del rock: un tunnel spazio-tempo che consente ad ogni seguace – soprattutto a quelli più volenterosi – di percorrere grandi distanze, come fossero magari sessant’anni di storia musicale, con un solo rapidissimo colpo di plettro. I suoi cunicoli sono fatti di decibel, scolpiti dal metallo delle loro corde, e disegnate con perizia certosina con il solo aiuto della propria immaginazione. In due sventagliate, si ha il tempo di compiere un viaggio di andata e ritorno completo, colmando distanze altrimenti difficilmente accostabili: da Bo Diddley ai Green Day a cavalcioni dei Sonic Youth, sulla rotta parallela dei Nirvana accompagnati da tutte le Riot Grrrls, ma senza scordare certe nostalgie alla Woody Guthrie. Proprio lui, il menestrello di Okemah, media cittadina piantata tra le vallate del roccioso Oklahoma, ci viene stranamente incontro nel tunnel spaziotemporale, non appena le luci si spengono per lasciare spazio a Thalia Zedek, al suo gruppo, e ai riflettori, ai bagliori dei fari che si riflettono sull’acciaio della batteria, sull’opaco ovale oblungo e distorto del basso in prima linea, sul mogano lucidato del violino che lega tutte le pareti di un tunnel musicale in cui – senza alcun timore – si entra scortati dal bagliore di una chitarra elettrica: sulla quale, protervo di ragione e affamato di vittoria, si erge un adesivo che recita “FCK NZS”.


Quella chitarra è uno strumento di vita, un flusso canalizzatore che ci rilancia a Guthrie – e al suo sempre vivo e presente “This machine kills fascists” – e ci fa tornare lì, sulla nostra poltrona in pieno Circolo della Musica, nello spazio di un battito d’occhi. Ad imbracciarla è lei, Thalia Zedek, nata a Washington, volata ad un certo punto tra le braccia dell’universitaria Boston, e da lì – in pieni anni ’80 – partita per viaggi spesso non facili, a volte distruttivi, alla ricerca di un suono e di una pienezza che dessero una risposta alle sue domande e alle sue idee. E, probabilmente, a trovare un po’ di ristoro a quelle pene e a quelle strane incomprensibili emozioni che spesso tutti noi ci portiamo dentro, nelle nostre esistenze che viaggiano ordinate, sulla linea di un tempo cartesiano. Quasi si arriva ad accarezzarle, quelle emozioni, mentre ci rendiamo conto che il set della serata è iniziato inanellando la melodica “Cranes” – prima melodica traccia del suo ultimo lavoro Perfect Visions, dal sapore un po’ folk – alla ben più nostalgicamente cupa “Smoked”, che con immagini non facili pare quasi ricordarci che lì fuori, non molto lontano dalla nostra comoda serata musicale, c’è un mondo in cui fischi e ronzii provengono da strumenti che – invece che portare note – portano amarezza. (“Watch them attack, when the hive starts to smoke, Inflamed and enraged, they are blind in the haze, Hear the buzzing, feel the stinging, when you stumble on their nest, And they halo around your head, Do you lie still and play dead?”).


Un set che ben si accosta alla serata: una domenica sera di fine inverno, che porta ancora il freddo attaccato a pelle e ossa, e lo spleen di un biennio funesto che ancora appare ben lontano da chiudersi nel migliore dei modi. I quattro sul palco, dal canto loro, sembrano immersi in una bolla situata fuori da questa dimensione così indolente; Thalia dirige tutti con una voce modulata su toni ‘sghembi’, volutamente imprecisi, prossimi a quelli di una Patti Smith (tanto per citarne una artista a lei cara), facendola a volte tracimare verso livelli più ruvidi e inclini al rock di stampo grunge, senza farli mai virare completamente da quella parte. E mentre balena l’idea che, in effetti, la poetessa del rock su quel palco insieme a loro ci starebbe molto meglio che non una Courtney Love (tanto per citarne una, non a caso), partono le note languide di “From the Fire” (“From the fire, to the fire, I get the feeling that you inspire”) che accende un fuoco fatuo di emozioni che riscalda meno di quanto non ispiri nostalgie e ricordi. Da lì in poi, il set e il palco diventano un tutt’uno, e si viaggia assieme ad un tappeto sonoro fatto di andate e ritorni, tra un presente che pare sempre un po’ sfuggire, ed un passato a cui torniamo senza praticamente essercene mai andati.


I testi di Thalia traspirano dolore e trasudano uno spirito guerriero quasi arreso ad una realtà che si deve per forza vivere. Il viaggio a ritroso non è un vagheggiamento di un periodo sorridente, ma coscienza di un luogo a cui si sa di appartenere, anche nostro malgrado. “Remain”, penultimo brano di un set forse un po’ scarno – ma denso come solo può essere la pelle che raggruma attorno ad una cicatrice – pare una invocazione fatta senza con la convinzione che l’esito sarà davvero il contrario di quanto richiesto. Si chiude con “Queasy”, una nausea che è sensazione dovuta quando ti trovi a vorticare tra attesa e presenza, tra movimento immaginato e fissità tremante: d’altra parte, quando “si fa a pugni ben oltre la propria categoria di peso” il risultato è quasi scontato. Rimane la voglia di provarci ancora, perché nonostante un altro ‘viaggio’ sia finito, non ci si arrende mai del tutto. Orgogliosamente perdenti, ma mai del tutto sconfitti.
Come, tutto sommato, recita anche quella scritta sulla chitarra di Thalia: “FNCL ai NZST!”. A piedi nudi, così come è rimasto Sean O’Brien, il suo bassista, su quel palco per tutta la durata del ‘viaggio’. Come dei ‘freaks’ anni ’90 che, dal wormhole che lentamente si chiude di fronte a tutti noi, salutano ed escono in rumoroso silenzio.

Stefano Carsen

"Sentimentalmente legato al rock, nasco musicalmente e morirò solo dopo parecchi "encore". Dal prog rock all'alternative via grunge, ogni sfumatura è la mia".