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Oliver & Jack: la scoperta e la vera storia

Materia spesso negletta durante il periodo scolastico, la Storia è raramente insegnata riuscendo ad essere incisivi sulle menti degli studenti. Non certo per incapacità dei docenti: viviamo in un contesto sociale che vive l’oggi, ritenendo non fondamentale apprendere da dove veniamo per capire dove potremo andare nel futuro.
Figuriamoci, quindi, quanto possano essere interessanti le vite e le opere di personaggi che rientrino nel novero dei “minori”, quando di Giulio Cesare, Napoleone e Garibaldi conosciamo appena il nome e qualche aforisma loro attribuito (e sovente in modo errato). E, paradossalmente, più le personalità di rilevanza storica sono vicine nel tempo, meno ne conosciamo la vita e i motivi che avrebbero dovuto rendercele note.
Fortunatamente, ogni tanto spunta fuori qualche anima buona che si innamora di qualche personaggio interessante che, quasi sempre nell’ombra, sia stato un precursore in qualche campo, vedendo altri cogliere maggiori onori sfruttando (a volte anche inconsapevolmente, beninteso) le sue intuizioni.
Pincopanco è una sorta di pseudonimo, ma anche un blog e una pagina attiva su vari social, che cela l’identità di Giacomo Checcucci, mente agilissima, capace di recepire e sintetizzare al meglio piccoli segnali che sfuggono ai più.
Checcucci, classe 1983, è libraio, ma soprattutto brillante studioso in proprio di una materia oggi poco frequentata: l’innovazione tecnologica e stilistica della musica nel corso del tempo, cosa che gli consente di spiccare peculiarmente nell’affollato panorama di coloro che, professionalmente o per passione, scrivono di musica.
La ricerca delle fonti di alcune innovazioni (l’elettrificazione, per esempio, comprese le sfaccettature stilistiche che ha favorito), lo ha portato a scoprire talenti misconosciuti, dedicandosi devotamente alla loro affermazione, divulgandone il più possibile le tracce reperite.
Uno di questi personaggi, in particolare, merita di essere approfondito e lo rivelerà lo stesso Checcucci: quello che segue è il risultato di varie chiacchierate che ho avuto il privilegio di condividere con “Jack“, come lo chiamano gli amici, in lunghe (e sempre arricchenti) telefonate serali.

– Ciao, Jack: raccontaci la nascita e la “mission” di Pincopanco.

– Ma guarda, Max, mi sono messo in testa, qualche mese fa, di rivalutare un cantautore misconosciuto del passato: Oliver Chaplin. Oliver ChaplinA nome Oliver realizza il suo primo e unico LP nel 1974, nella sua fattoria gallese. Compone le canzoni in solitudine ma si fa aiutare, per la registrazione, da suo fratello Chris, tecnico del suono della BBC. “Standing Stone” viene, così, stampato in proprio, in sole 250 copie. E all’epoca non ha una vera e propria distribuzione. Le ristampe sono quasi altrettanto sfortunate: realizzate in poche copie e non valorizzate dalla critica. Oltre a Ptolemaic Terrascope, solo John Peel si accorge, a quasi un ventennio di distanza dall’uscita, dell’importanza dell’album. E, nel 1992, definisce “Standing Stone” “la scoperta dell’anno”. Questo attestato postumo è particolarmente interessante. Già nel 1974, Chris riesce a far ascoltare il disco ad alcuni conduttori radiofonici. Ma senza una distribuzione efficace del lavoro, i dj non possono permettersi di trasmettere la musica di Oliver in radio. Allora spediscono il cantautore alla Virgin e la casa discografica accetta di mettere in vendita qualche copia dell’album, nei propri negozi londinesi. Ma Oliver si disinteressa alla sua carriera e parte per le vacanze. Fine della storia. Scoperto questo percorso interrotto, mi è venuto in mente un progetto grafico. Costruire con locandine e scalette, copertine e volantini un 1974 alternativo in cui Oliver Chaplin riesce a pubblicare “Standing Stone” con la Virgin e a farlo passare a BBC Radio One. E da quel momento ottiene il successo meritato grazie a una serie di concerti imperdibili. Insomma a Coctchford Town va tutto per il verso giusto.

– Quali sono stati, secondo te, i punti di origine dei vari stili del disco e da cosa sono scaturiti?

-Beh Oliver si confronta di fatto con due generi: il folk britannico e il blues americano. Ma attraverso le lenti deformanti della psichedelia. “Standing Stone” è un disco tradizionale, nel senso più profondo del termine. Non è frutto di una riproposizione calligrafica di uno stile precedente. Ma è figlio di una rilettura creativa del patrimonio popolare. In questo senso, Chaplin ha un approccio simile a quello di Syd Barrett o Captain Beefheart: innova nella tradizione. E l’elemento più interessante della sua opera è proprio la miscela esplosiva di tecnologia e passato. Grazie all’apporto del fratello Chris, il suono della chitarra viene stravolto con phasing, echo e delay. E l’effettazione risulta così radicale e massiccia da trasfigurare anche voce e percussioni. Per certi versi, “Standing Stone” rappresenta il massimo approdo di quella parte della psichedelia britannica nata con “Axis: Bold As Love” di Jimi Hendrix. Nello stesso periodo, in maniera senza dubbio più consapevole, Brian Eno procede, con Phil Manzanera o con Robert Fripp, in una direzione non troppo dissimile. Ma Oliver e Chris hanno a disposizione mezzi molto più rozzi e soprattutto sono sprovvisti di sintetizzatori.

– Mi hai spesso accennato a questo sconosciuto personaggio che sei andato a scovare, riuscendo persino ad entrare in contatto con lui. La sua storia ricorda un po’ quella di Vashti Bunyan: raccontacela, prego.

– L’ho raggiunto per mail in modo rocambolesco e si è rivelato molto umile e gentile. A differenza di altri suoi colleghi, non sembra per nulla interessato a ricevere un riconoscimento tardivo e ancor meno a tornare sulle scene. Si tratta di un caso più unico che raro. Alcuni cantautori di valore, caduti nel dimenticatoio all’epoca, hanno goduto a pieno di una seconda chance, in tempi più recenti. Artisti come Bill Fay e Sixto Rodriguez, Ed Askew e Gary Higgins, Simon Finn e Michael Yonkers sono tutti tornati sul palco e in studio. E come hanno fatto, caro Max? Beh il percorso, più o meno, è sempre lo stesso. Una bella ristampa dei loro album vecchi, un paio di estimatori tra i musicisti di nuova generazione, qualche ottima recensione sulle riviste di settore e il gioco è fatto. E come mai con Oliver non è andata così? Beh principalmente perché l’artista non sente l’esigenza di un riscatto e perché l’album non ha goduto di ristampe e recensioni all’altezza del suo valore. E poi perché “Standing Stone” è un’opera radicale, un’opera limite. Un disco che può affascinare e conquistare ma non credo possa servire da giacimento aurifero per nuovi cantautori. Se non come esempio di profonda libertà. Musicisti attenti come David Tibet o Jeff Tweedy non se ne sono occupati, però, neanche in quest’ottica. Per tornare alla tua domanda, “Standing Stone” è molto diverso da “Just Another Diamond Day”, ma il percorso personale di Oliver Chaplin è abbastanza affine a quello di Vashti Bunyan. Tutti e due pubblicano un unico LP per poi ritirarsi a vita privata, in campagna. Solo che anche Vashti è tornata sulle scene. Credo che il desiderio, legittimo e sacrosanto, di una seconda vita nel mondo dello spettacolo non debba influire sul giudizio di un’opera d’arte del passato. E “Standing Stone” è un’opera d’arte.

– Considerato che non potrà mai appartenere a una dimensione mainstream, come portarlo a un adeguato piano di notorietà?

Hai ragione: il mainstream è fuori discussione per una serie infinita di ragioni… Vorrei almeno, però, che il disco arrivasse al pur largo pubblico di appassionati di musica e addetti ai lavori. A questo scopo, mi sto muovendo, contattando, uno alla volta, siti e giornali di settore. Spero di non stressare nessuno perché il mondo è pieno di fanatici che si battono per cause giuste… Noto però che chi mi dà retta e lo ascolta ne rimane sempre colpito. E in molti casi leggo, nelle parole dei miei interlocutori, un entusiasmo simile al mio. Di certo “Standing Stone” non è un disco facile. E forse va spiegato. Ma sono qui per questo.

 – Cercando di inquadrare il discorso in una cornice più ampia, non pensi che proprio un momento come questo, in cui la musica e ciò che vi sta(va) attorno hanno perso la loro centralità rispetto al mondo giovanile, paradossalmente possa risultare più curioso che in passato un lavoro di questo tipo, concepito in termini così radicali da rappresentare l’unica possibilità di scoprire qualcosa di così “nuovo” da guadagnarsi l’attenzione dei media?

Sono d’accordo con te, forse “Standing Stone” ha da dire oggi qualcosa in più di ieri. Tenendo conto che ieri non ha detto niente a nessuno, è una magra consolazione… Comunque ha da dire qualcosa in più non solo perché rappresenta un nuovo assoluto in un’era di rimasticature. Ma anche da un punto di vista strettamente musicale. L’effettazione estrema a voce, chitarra e batteria, applicata da Chris al lavoro di Oliver, sembra anticipare una caratteristica della contemporaneità. Rimanendo in ambito pop-rock, Low e Bon Iver impiegano strategie simili, giovandosi, ovviamente, dell’aggiornamento tecnologico a loro disposizione. Il caos e l’incomunicabilità sono due caratteristiche di “Standing Stone”. Due caratteristiche spiazzanti nel 1974 ma attuali nel 2021. In particolare la chitarra oggi viene suonata o in maniera retromane o come sorgente sonora da sabotare con interferenze. E in quest’ultimo senso, Oliver è stato un maestro misconosciuto. Anche grazie al grande contributo di Chris, sia chiaro. Per altri versi invece, si tratta di un musicista lontanissimo dalla contemporaneità. Oggi, tutto sembra frutto dell’interazione tra individui e la creatività intesa come fatto individuale viene considerata una scoria del romanticismo. Oliver è entrato in contatto con la scena folk-rock inglese della seconda metà degli ’60 ed era sicuramente a conoscenza dei grandi fenomeni del periodo. Eppure compone i brani, nella sua fattoria gallese, in una sorta di isolamento. Lontano da Londra e ignaro, almeno a quanto dice, delle trovate incredibili di Brian Eno o Captain Beefheart. D’altra parte, Chris, lavorando alla BBC, era al corrente delle nuove tendenze e delle nuove apparecchiature. Ma si ritrova ad applicare quelle conoscenze in modo spartano con mezzi di fortuna. Quindi “Standing Stone” è un frutto incrociato di interazione e isolamento, tecnologia e povertà. E forse in questo carattere misto risiede tutta l’originalità dell’opera.

– In un’epoca retromaniaca come questa, in cui anche illustri sconosciuti hanno visto ripubblicati lavori che non potevano neanche essere considerati “di culto” prima delle (spesso carissime, dato l’esiguo numero di copie) attuali ristampe, pensi che l’assenza dai cataloghi di questo album sia da imputare solo al disinteresse di Oliver, o c’entra anche l’incognita circa la ricettività da parte del pubblico? Perché credo che gli amanti dell’avanguardia più estrema potrebbero apprezzare qualcosa di meno “spinto”, ma comunque fuori dai canoni: non sono un numero così esiguo.

Secondo me l’atteggiamento del diretto interessato ha contato molto. Oliver sembra il contrario di un artista. Non è succube dell’ego: non voleva emerge allora e non vuole riemergere adesso. Ma a prescindere dalla maniera di stare al mondo del suo autore, “Standing Stone”, come opera d’arte è, senza dubbio, ostica. Più per l’alto tasso di eccentricità che per la piccola dose di rumorismo. Sono convinto, però, che le spigolosità di “Standing Stone” non debbano, per forza, relegarlo alla nicchia dei cultori di certo radicalismo. E che possa essere apprezzato da tutti coloro che hanno curiosità e passione per la materia. Insomma, chiunque tu sia, qualsiasi ascolto tu faccia, procurati una copia di “Standing Stone” di Oliver. E fammi sapere.

Massimo Perolini

Appassionato di musica, libri, cinema e Toro. Ex conduttore radiofonico per varie emittenti torinesi e manager di alcune band locali. Il suo motto l'ha preso da David Bowie: "I am the dj, I am what I play".