Bob Dylan – Springtime In New York: The Bootleg Series, Vol. 16 (1980-1985)
Nel corso degli anni ottanta, tutti noi fan di Bob Dylan ci arrendemmo alla Musa volubile e mercuriale del Maestro. Ci avrebbe concesso ciò che volevamo, così come avrebbe potuto allontanarsi verso una qualche tangente musicale significativa solo per lui. Ma nella sua storia a ogni momento avverso segue un esaltante successo e, soprattutto nei periodi più complessi e imperscrutabili, i suoi dischi sembrano avere sempre qualcosa di assolutamente rilevante. Durante la fase, spesso disprezzata, del born-again-christian della fine degli anni settanta, inizio ottanta, per esempio, si votava a quello che considerava un potere superiore. Il suo fervore religioso produsse alcuni degli album meno amati, ma con “Infidels” (1983) sembrò scuotersi dalla depressione creativa. Malauguratamente, questa parentesi si sarebbe rivelata di breve durata; infatti, quell’album preannunciò un periodo di profondo smarrimento che portò la sua carriera discografica a un crollo apparentemente irreversibile. Quanto sfornò “Down in the Groove” (1988) era difficile persino guardare oltre.
Parte del problema stava semplicemente nel trovare canzoni nuove che potessero stare accanto ai classici del suo vecchio catalogo. Come disse al Sunday Times nel 1984: “Ci sono ancora cose di cui vorrei scrivere, ma il processo è più faticoso, i vecchi dischi che facevo, quando uscivano non volevo nemmeno che venissero pubblicati perché ero già così distante da loro”. Ampliò questo concetto in un’intervista del 1985 con Bill Flanagan: “Quando realizzo un disco devo trovare delle canzoni, e comincio a frugare nelle mie tasche e nei cassetti della mia memoria per trovarle. Poi ne tiro fuori una che non ho mai cantato prima, a volte non ne ricordo nemmeno la melodia, e la metto giù. A volte accadono cose meravigliose, a volte meno. Ma indipendentemente da quello che capita, quando la eseguo in studio è sempre e comunque una prima volta. Non mi è affatto familiare. Nel passato quello che veniva fuori era ciò al quale di solito mi attaccavo, che mi colpisse davvero o per nulla. Per nessuna ragione apparente mi sono fermato a questo, solo per la mancanza di volontà nel prendermi la briga di farlo davvero bene.”.
Una prospettiva nobile, ma che Dylan sembrò perdere di vista durante le estenuanti sessioni per il seguito di “Infidels”. Uscito il 10 giugno 1985, “Empire Burlesque” mise insieme un patchwork di suoni registrati in molteplici studi con una interminabile catena di musicisti. Tutto ciò fu poi rivisto da Arthur Baker, un prolifico produttore e dj che era salito alla ribalta come house producer per la Tommy Boy Records prima di dedicarsi a remix per artisti come Bruce Springsteen e Hall and Oates. Inutile dire che in molti furono colti di sorpresa dal suono sintetico e pigramente anni ottanta dell’album. Della decisione di lavorare con il produttore Baker su “Empire Burlesque”, Dylan disse: “Sono semplicemente partito e ho registrato un mucchio di roba quando poi è arrivato il momento di mettere tutto insieme gliel’ho portato e lui l’ha fatto suonare come un disco. Di solito resto fuori dalla fase finale del processo”. Tutto ciò potrebbe apparire un po’ sconnesso, ma si adattava perfettamente al suo approccio abituale. Ogni volta aveva lo stesso atteggiamento. Veniva fuori il suo lato debole. Come ricorda Ron Wood, qualcuno diceva: “Hey Bob, di questo non abbiamo bisogno,” e lui rispondeva: “Ah, ok, fate come volete voi”. E se ne stava fuori, li lasciava fare.
Anche se le recensioni furono generalmente favorevoli e l’album entrò nella Top 40, non c’era modo di nascondere la natura dispersiva delle canzoni o il fatto che la produzione stridesse fortemente con l’artista. All’epoca, nonostante avesse ammesso che il disco non era come aveva pianificato, sembrava abbastanza soddisfatto. In una intervista a Rolling Stone pochi mesi dopo: “Ho cercato di scoprire cose diverse che fossero delle ramificazioni di ciò che farei normalmente. Mi aspettavo di avere un po’ più di tutto questo su “Empire Burlesque”, ma non è stato così. Sono cose tipo storie vere, reali che sono successe e che vorrei raccontare. Ho la necessità di parlare con le persone che ne sono implicate, ma non l’ho mai fatto. Speriamo di farle entrare nel prossimo album”.
Dunque Dylan, come lui stesso spiega in Chronicles, aveva perso la Musa lungo la strada. D’altra parte, gli anni ottanta sono il decennio di canzoni come “Shot of Love”, “Groom’s Still Waiting At The Altar”, “Every Grain of Sand”, “Sweetheart Like You” e “Jokerman”, di “Brownsville Girl”, “Most of the Time”, il decennio dei Traveling Wilburys, di “Blind Willie McTell”, “Foot of Pride”, “Dignity” e “Series of Dreams”, dell’apparizione al Farm Aid con quella magica e definitiva versione di “Maggie’s Farm” e dell’inizio del Never Ending Tour. Cercava senza sosta nuovi porti dove affrancarsi. Per un altro sarebbe stato l’apice di una carriera. Non così per Bob.
“Bootleg Series, Vol. 10: Another Self Portrait” (2013) ci aveva fatto riconsiderare con occhi nuovi il periodo di “Self Portrait”, come “Bootleg Series, Vol. 13: Trouble No More” (2017) documentava il benedetto/maledetto periodo gospel (1979-81) e “Bootleg Series, Vol. 15: Travelin’ Thru” (2019) ci rammentava la rilevanza della nascita del country-rock nell’espansione sociale e politica degli Stati Uniti, raccogliendo alcuni momenti di vera gloria e alcune delle più grandi performance della sua carriera. Il nuovo “Bootleg Series, Vol. 16: Springtime In New York” (2021) rappresenta un’altra direzione della stessa. O forse, altre cinque. Si concentra su outtake e alternate take dal sottovalutato “Shot of Love” (1981), l’ultimo della gospel trilogy, un album che, in realtà, non è mai stato un disco gospel anche se, sarcasticamente, una canzone s’intitolava “Property of Jesus” e un’altra ancora “Every Grain of Sand”, in termini poetici, era la spiegazione della fede in qualcosa di impossibile da esaminare, ma senza la energica evangelizzazione del precedente “Saved” (1980). Con “Shot of Love” il viaggio proseguiva denunciando un movimento verso altre angolazioni, temi nuovi, inediti lati dell’esistenza umana, un giro di pagina, insomma. Il misterioso carrozzone stava viaggiando. Dylan invitò in studio Robert Bumps Blackwell, il leggendario produttore di Little Richard e Sam Cooke ma, a causa di problemi di salute, costui se ne andò lasciando in eredità solo la fantastica title track, e Dylan finì per servirsi di Chuck Plotkin, conosciuto soprattutto per il suo lavoro con Springsteen, che produsse il resto delle canzoni. Alla fine, come rammenta Jim Keltner, nonostante Plotkin avesse deciso di impiegare i mix di Dylan stesso, l’album che la maggior parte della critica aveva gettato nel sacco gospel non ebbe l’accoglienza che meritava. Che usasse ancora il suo arsenale di immagini bibliche non ne modificava il giudizio: l’aveva sempre fatto. Il disco, per certi versi, sarebbe stato più vicino al successivo “Infidels” piuttosto che a “Saved”, un focus profondo sulle lotte sociali e le relazioni tra gli uomini.
Proprio per “Infidels” (1983) Dylan fu a lungo a caccia del produttore, suggerendo, ad un certo punto, perfino Frank Zappa. Alla fine lo produsse con l’aiuto di Mark Knopfler. I due entrarono in studio da prospettive diverse e con diverse esperienze di lavoro. L’attitudine live di Dylan incontrava le potenzialità dell’overdubbing, ma non è un segreto che Knopfler non fosse soddisfatto delle scelte di Bob. “Infidels” ottenne recensioni contrastanti, da molti critici e fan fu preso come un ritorno a una più classica normalità, un riflusso dopo tre anni nel deserto, un passo in là dall’era born-again-christian, anzi, addirittura un percorso verso l’eredità ebraica che molto probabilmente non aveva mai abbandonato, in ogni modo incontro a una visione secolare del mondo. In questo senso, “Springtime In New York” non sposta nessun giudizio sul disco del 1983. Non ragiona su quello che avrebbe potuto essere, sul suo what if; ne documenta tuttavia il processo creativo, è il dietro le quinte di ciò che i primi anni ottanta furono per Dylan; e quello che ascoltiamo è una straordinaria moltitudine di canzoni, testi, stili poetici, generi musicali e performance vocali. La strada da “Shot of Love” a “Infidels” non appare più così tortuosa. “Infidels” è un’evoluzione dell’attenzione di Dylan alle cause sociali, alle sfide profonde della società moderna, sia quando si parli di giustizia collettiva sia quando ci si accosti alle relazioni e la musica diventa un mezzo espressivo che racconta storie di interazioni tra le persone. È un grande passo dalla fede cristiana verso la sua eredità ebraica oppure alla volta di un’analisi reale dell’esperienza della vita quotidiana? Solo Bob solo lo sa, ma, nondimeno, l’immaginario biblico è sempre parte integrante, è sempre lo strumento poetico per mettere un punto o per dipingere un quadro nella nostra mente.
Infine, nell’ottica di quanto “Springtime In New York” sia documento imprescindibile della narrazione su Dylan, questa nuova uscita ci permette, una volta per tutte, di de-Bakerizzare (scusate il tecnicismo) le tracce di “Empire Burlesque” (1985), spogliarle dai synth e da quella batteria così pesantemente anni ottanta. Per molti la produzione di Arthur Baker aveva intasato il deflusso di quelle canzoni. Per tutti coloro i quali amano ponderare sull’evoluzione del suo sviluppo artistico, questo box è di grande interesse, un pezzo inestimabile del mosaico. Paragonarlo ad altre puntate della Bootleg Series è difficile. Si concentra su un periodo di tempo, come una sorta di tell-tale signs, senza essere l’ennesimo cutting edge. “Springtime In New York” è un importante contributo alla comprensione di un periodo difficile e ci mostra con quanto coraggio Dylan stesse cercando nuovi stati d’animo utilizzando, per trarre ispirazione, tutto l’American Songbook. Se anche ha molto a che fare con il suo processo creativo, rimane l’ennesimo monumento di un artista che ha intessuto la sua trama dalle profondità dell’inconscio collettivo, sede centrale della nostra umanità, fino ad arrivare oltre la musica, oltre la storia a guisa di perle di una preziosissima collana.
The Time of Dissonance
Il cofanetto temporalmente prende il via dalle prove per il Musical Retrospective Tour, siamo nel settembre/ottobre del 1980. Nel 1979 Dylan riprese a girare, eseguendo ancora soltanto materiale estratto dal periodo gospel; poi arrivarono le sessioni di registrazione per “Saved” e le canzoni furono eseguite dal vivo fin dall’autunno del 1979. Questo periodo era già coperto dal “Bootleg Series, Vol. 13: Trouble No More”. Da lì in avanti parte questo “Bootleg Series, Vol. 16: Springtime In New York”, che può essere diviso in cinque parti:
– Rehearsals for Musical Retrospective Tour – settembre, ottobre 1980, Santa Monica, California
– Shot of Love Sessions – marzo, aprile e maggio 1981, California
– Infidels Sessions – aprile e maggio 1983, New York City
– Live 1984 – “License to Kill” registrato al Letterman Show, 22 marzo 1984 e “Enough is Enough” a Slane Castle, 8 luglio 1984
– Empire Burlesque Sessions – tra il luglio 1984 e il marzo 1985, California e New York
Sia nel 1981 che nel 1984 Dylan fece molte tournée, in Stati Uniti, Canada ed Europa. Nel 1982 apparve al Peace Sunday con Joan Baez. Il 1985 fu l’anno di “We Are The World”, del “Live Aid” e del favoloso spettacolo al “Farm Aid” con Tom Petty & The Heartbreakers, purtroppo non incluso nel box. C’è un lungo viaggio da “Saved” alle canzoni di “Empire Burlesque”.
Rehearsals for Musical Retrospective Tour
Nel Musical Retrospective Tour (1980) iniziò a mescolare le canzoni della trilogia gospel con quelle precedenti ma, soprattutto, arricchì le sue esibizioni di una qualità strabiliante, per gli ospiti invitati sul palco (tra gli altri Mike Bloomfield e Jerry Garcia), le storie raccontate e la selezione delle cover. Nel primo cd ci vengono presentate undici canzoni dalle prove di questo tour. Due erano già incluse in “Trouble No More”, ma qui sono in versioni diverse. Il traditional “Jesus Met The Woman By The Well” fuma sotto lo spiedo di una chitarra rockabilly mentre la splendida “Abraham, Martin & John” di Dion è confezionata nel duetto tra Dylan e la sua anima gemella, la straordinaria performer Clydie “Brown Sugar” King. Solo tre delle canzoni sono sue: una cupa “Señor”, una sbarazzina “To Ramona” e la nuova “Let’s Keep It Between Us”, registrata qui per la prima volta anticipando di poco la versione che ne darà Bonnie Raitt sul suo “Green Light”: “Before it all snaps and goes too far/If we can’t deal with this by ourselves/Tell me we ain’t worse off than they think we are/Backseat drivers don’t know the feel of the wheel/But they sure know how to make a fuss/Oh, darlin’, can we keep it between us?”. La canzone fu eseguita da Dylan dal vivo solo nell’autunno del 1980 e si trova sul disco non ufficiale con Jerry Garcia “Bob Dylan With Jerry Garcia, San Francisco 1980”. Il folk di “Mary From The Wild Moor” era sempre stato presente negli spettacoli tra il 1980 e il 1981, riprende una melodia primitiva, già nel repertorio dei Louvin Brothers. Dylan canta con Regina McCrary mentre il mandolino di Fred Tackett solleva in aria il brano. Più inusuale la comparsa di “This Night Won’t Last Forever”. Strana scelta. Mi piace pensare che sia stato catturato dall’emozione per il testo: “Everybody likes a celebration, happy music and conversation,/But I’d be lyin’ if I said I didn’t have the blues./In the corner there’s a couple dancin’, from the kitchen I can hear her laughin’,/Oh I – wish I was celebratin’ too”. “Couple More Years”, già cantata da Waylon Jennings, è toccante, struggente come la voce su “Sweet Caroline” di Neil Diamond, coinvolgente, ardente. Il grande classico “Fever” è una perfetta macchina da palco. Lo stesso vale per la “We Just Disagree” di Dave Mason, specie quando intona il verso: “So let’s leave it alone ‘cause we can’t see eye to eye/There ain’t no good guy, there ain’t no bad guy/There’s only you and me and we just disagree”.
Shot of Love Sessions
Le Shot of Love sessions partono come pietra rotolante con una “Need A Woman” del marzo 1981 antecedente a quella delle “Bootleg Series, Vol. 1 – 3”, un Dylan flamboyant quanto una cattedrale gotica nell’invocazione felliniana: “I need a woman, black, white, yellow, blue or green…/Need a woman every night/To lay with me an’ see me as i am/Show me the kind of love that don’t have to be condemned/An’ i want you to be that woman”. Fiamme. La versione di “Mystery Train” è diversa dalle precedenti, il fischio del treno simulato nel falsetto. È un treno lento, più lento delle molte cover di Junior Parker. È misterioso, gira dietro una curva e sparisce. C’è sempre tanta Sun Records nelle sue registrazioni, diavolo di un Bob, il suo unico desiderio non era quello di essere un’icona del novecento, voleva diventare Elvis, solo Elvis. La ripresa di “Angelina” è magnifica. Meno rifinita delle altre take. Ancora una volta sta cercando una strada nuova. “Saved” è già lontanissimo. Nell’incompiuta “Price of Love” c’è il fantasma di Bo Diddley, grande ritmo, grande performance. Poi ancora “Let It Be Me” la b-side del singolo “Heart of Mine”, e un’intensissima versione di “I Wish It Would Rain” dei Temptations: “My eyes search the skies, desperately for rain/’Cause rain drops will hide my teardrops”. E quando irrompe il suo falsetto nel verso “I got to cry, ‘cause crying/Eases the pain, oh yeah”, giuro, sembra di sentire David Ruffin. Nel valzer “Cold, Cold Heart” di Hank Williams, s’inchina al suo idolo, termina ogni strofa con un lentissimo heart, come se il canto uscisse da un’armonica, in un controllo perfetto del respiro. Perché in questo box, e non solo, Dylan canta magnificamente, come un dio, per citare Alessandro Carrera la sua voce è una spiegazione dell’America. “Fur Slippers” di B.B. King, è un rognoso blues tradizionale su quella stronza che, dopo averlo lasciato, si porta via anche le calde pantofole in pelliccia. I viaggi ai Caraibi sulla sua imbarcazione, il Water Pearl, potrebbero aver ispirato il calypso di “Don’t Take Yourself Away”, i ritmi della mai del tutto terminata “Borrowed Time” e l’atmosfera reggae di “Is it Worth it?”. C’è anche un’alternate di “Lenny Bruce”, con i cori, gli archi e un sax. C’è più spazio in questa versione, una sorta di upgrade dell’originale. La più strana di tutte “Yes Sir, No Sir” è diversa dalle altre. È come se provenisse da un luogo e da un tempo completamente distinto, l’atmosfera è orientale, Dylan canta come se fosse in una grande e buia cattedrale o meglio in un tempio, c’è un coro che gli lancia estatici hallelujah più e più volte. Il muezzin di Duluth sta di nuovo cercando di connettersi a qualcosa.
Infidels Sessions
È la primavera del 1983 a New York e questo potrebbe essere l’ispirazione per il titolo. Due cd, ventun canzoni, il focus principale è sugli originali, c’è solo un inedito: “Julius And Ethel”, un arrabbiato rock’n’roll sulla controversa condanna a morte dei coniugi Rosenberg, giustiziati per spionaggio nel 1953: “Now that they are gone you know the truth it can be told/They were sacrificed lambs in the market place sold/Julius and Ethel, Julius and Ethel”. “Too Late” è in pratica una nuova canzone, un passo avanti alla primigenia “Foot of Pride”, viene resa in due versioni, acustica e con la band. Documenta sempre quel famoso processo di crescita. Anche nel testo: “Whether there was a murder, I don`t know, I can`t say,/I was visiting a friend in jail./There were only two women at the scene at the time,/neither one of them saw a thing, both of them were wearing a veil./I said it was a natural situation, and it reached too high,…/It`s too late to bring him back./Too late, too late, too late, too late, too late to bring him back”. È come se stesse pensando e scrivendo mentre canta. Il fraseggio è fenomenale. La versione con la band è più sviluppata, la voce più rilassata. Di soli tre giorni dopo ecco “Foot of Pride”, una versione molto intensa, scura e forte. È un modo eclatante per studiarne il processo compositivo e il lavoro in studio. Eppure “Foot of Pride” non trovò posto su “Infidels”, forse perché non era adatta, forse perché Dylan sentiva di non averla terminata. Un’altra gemma è la prima take di “Don’t Fall Apart On Me Tonight”, lenta, morbida, lontana da quella dell’album. Dylan passa dal recitativo al cantato e viceversa, accarezzando ogni parola. Meraviglioso. La versione di “Jokerman” è piuttosto vicina all’originale, ma con alcune variazioni di testo. “So drunk, standing in the middle of the street/Directing traffic with a small dog at your feet”. “Neighborhood Bully” è un’outtake po’ più ruvida, in “Union Sundown” varia ancora le parole: “Religious capitalism under corporate command” e nel finale: “A man in a mask in the White House, who’s got no name and no important ties,/Just as long as he understands the shape of things to come, he can stay there till he dies/Got to be an invisible man, not a front man for some diseased cause”. “Lord Protect My Child” è in una take alternativa, toccante, ancora più abbagliante, viscerale. “I and I” è più veloce di quella di “Infidels”. Il tocco Dire Straits nella chitarra di Knopfler è più presente. La voce di Dylan è lamentosa, lacrime incluse. “Clean Cut Kid” è un boogie, Dylan al pianoforte, fresca e rilassata. “Death Is Not The End” è quella di “Down In The Groove”, anche qui, più lunga della versione pubblicata, Dylan sempre più concentrato insistendo più che mai che la morte non è la fine di tutto. Quando uscì il primo Bootleg Series senza la versione di “Blind Willie McTell” con la chitarra di Mick Taylor fu una sorpresa. Finalmente viene resa nota. Ora, la prima resta, anche per tradizione, la preferita, ma il modo con il quale qui entra, quasi a cappella, con il solo pianoforte, poi arriva la band e ci porta in viaggio, non lo dimenticherò mai. Strana e un peccato la dissolvenza anticipata nell’assolo finale di chitarra e la rimozione quasi chirurgica di quell’iconico colpo di tosse.
L’alternate di “Someone’s Got A Hold Of My Heart” è leggendaria, la voce (ancora) più profonda, canta come se la sua vita dipendesse solo da questo, tutto suona più rock. Poi le cover. La prima è “This Was My Love”, uno standard di Frank Sinatra, una ballata dolce, leggermente smielata, ma la conduce nel suo paesaggio, lontano dall’originale. “Baby What You Want Me To Do” di Jimmy Reed, come “Mystery Train”, è più lenta. Un lento boogie ispirato anche dalla voce di Clydie King. Splendida è “Tell Me”, di nuovo diversa rispetto a quella del primo Bootleg Series. Tranquilla, tenera, borderline, texana con una dolce armonica e ancora Mick Taylor alla slide. Mettetemi l’accordion di Flaco (Jimenez) e la seconda voce di Doug Sahm e seppellitemi lì. “Angel Flying Too Close To The Ground” di Willie Nelson è Dylan con la band, a nudo, strappalacrime. La cover di “Green, Green Grass of Home” è dylaniana al cento per cento, in duetto ancora con Clydie, fa sua la canzone, guidandola al pianoforte. Il sogno malinconico di un detenuto che immagina il ritorno a casa. “Yes, they’ll all come to see me/In the shade of that old oak tree/As they lay me/’Neath the green, green grass of home”.
Live 1984
“Enough is Enough” ò un brano tratto dal Real Live Tour. Blues rock dritto. È di buon umore, parla al pubblico, ride perfino: “You’re a pretty decent crowd tonight. Just like home!”. Per la favolosa prima apparizione al Late Show con David Letterman, un set che includeva anche “Jokerman” e “Don’t Start Me Talkin”, Dylan si presenta con i Plugz, il bassista Tony Marsico e il batterista Charlie Quintana, JJJ Holiday alla chitarra. Solo lui poteva proporsi nello show di punta della CBS con una punk band chicana che, all’epoca, incideva per la Slash. Una delle migliori performance televisive, cercatela su You Tube, tutta mosse e salti da non credere. Il bravissimo e talentuoso Daniel Romano qualche anno fa rimase a tal punto impressionato da questa esibizione che registrò tutte le canzoni di “Infidels” come se Dylan le avesse davvero registrate coi Plugz.
Empire Burlesque Sessions
Sono sei i brani da “Empire Burlesque”, tutti in versioni più asciutte rispetto alla produzione di Arthur Baker come spazzolare la polvere da vecchi dipinti, facendo brillare un perduto capolavoro di colori. “I’ll Remember You” è incantevole, il pianoforte di Dylan è la sua forza trainante, Clydie sullo sfondo ammicca. “Emotionally Yours” è desnuda, la voce sussurrata nell’orecchio. Una semplice canzone d’amore osteggiata da molti, ma qui dolce come non mai. Non è “Visions of Johanna”, anche se è quello il riferimento. “Come baby, shake me, come baby, take me, I would be satisfied/Come baby, hold me, come baby, help me, my arms are open wide/I could be unraveling wherever I’m traveling, even to foreign shores/But I will always be emotionally yours”. L’amore per Dylan è un simple twist of fate, perfetto. Riportate queste parole a chi le merita. “Tight Connections To My Heart (Has Anbyody Seen My Love)” è più pulita, la voce più a fuoco. “Seeing The Real You At Last” è un rock duro e puro, “Clean Cut Kid” con Ron Wood alla chitarra, non è poi così lontana dall’originale, ma la voce è potente a tal punto che sembra essersi ingoiato un megafono. “When The Night Comes Falling From The Sky” è in due versioni, una lenta e una più veloce. Quella lenta si apre splendidamente con il pianoforte di Roy Bittan e così resta, dolcemente pigra per tutto il tempo, la voce è in pieno controllo, alcune parole si perdono, ma persiste fino alla fine. L’altra svestita è ridotta all’osso e ti porta via. Grande traccia. “Straight A’s In Love”, quella di Dylan, non quella di Johnny Cash, è puro Buddy Holly, ancora un altro eroe. “In history, you don’t do too well/You don’t know how to read/You could confuse Geronimo With Johnny Appleseed”. Ecco: “New Danville Girl“. Woody Guthrie scrisse una canzone intitolata “Danville Girl” che includeva nel testo la frase: “Got stuck on a Danville girl/She wore that Danville curl”. Questa fu l’ispirazione per “Brownsville Girl” scritta da Dylan e Sam Shepard e apparsa poi su “Knocked Out Loaded”. La “New Danville Girl” del cofanetto non è niente altro che la sua versione iniziale. C’è solo la voce di Dylan, niente cori. Un capolavoro a sé stante, ci porta lungo la strada in un viaggio onirico, scivolando dentro e fuori la realtà. È per la maggior parte un recitativo, ma qua e là oltrepassa il testo; basta ascoltare questo passo: “Well. we crossed the Panhandle and then we headed out towards Amarillo,/Rushin’ down where Henry Porter used to live, he owned a wreckin’ lot outside of town,/We could see Ruby in the window, as we came rolling up in a trail of dust./She said ‘Henry’s not here, he took off, but y’all can come in and stay a while”. Ci sono alcune differenze nel testo, ma i protagonisti Henry Porter e Ruby sono gli stessi. A un certo punto forse un cenno a Blind Willie McTell nel verso “Tell me about the time that our engine broke down and it was the worst of times”, ma non importa, basta chiudere gli occhi e guardare il film. Basta che ci sia Gregory Peck dentro, che sia “Romantico avventuriero” o “Duello al sole” o qualsiasi altro film, basta urlare a squarciagola il nuovo refrain: “Danville Girl with your Danville curl,/Teeth like pearls, shining like the moon above./Danville Girl take me all around the world./Danville Girl, you’re my honey love”. Una meraviglia. “Empire Burlesque” è ricco di canzoni d’amore, la complessità delle relazioni e la loro inevitabile oscurità sono di nuovo presenti nella apocalittica “When The Night Comes From The Sky” e nella fragorosa “Seeing The Real You At Last” con gli Heartbreakers, un rock invariabile, inarrestabile come un treno merci nella notte. La ricerca dell’amore non s’interrompe mai e se hai bisogno di qualcuno, fidati solo di te stesso. L’unica canzone che in un certo senso trascende questo concetto è proprio “New Danville Girl”. L’intero box termina con una splendida versione di “Dark Eyes”. Baker aveva comunque accettato di inserire una canzone acustica. Non così lontana dalla versione del disco, è qui più veloce, personale. “Oh, the gentlemen are talking and the moonlight’s on the riverside,/They’re drinking up and walking and it is time for me to slide./I live in another world where life and death are memorized,/Where the earth is strung with lovers’ pearls and all I see are dark eyes”. Un finale appropriato per questa splendida raccolta, in tutta la sua nuda gloria, un ennesimo viaggio dal 1980 al 1985 ma – perché no? – dal 1962 al 1985. Vicina alla perfezione che Dylan non ha mai smesso di cercare.