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Shame – TOdays 2021 Day 4

Lasciar decantare. E’ una pratica che chi ha a cuore la purezza di certi liquidi – che siano essi oli di extravergine fattura, o alcune bevande da consumare calde come il caffè turco o le tisane fatte alla vecchia maniera – conosce molto bene, e ancora meglio sa mettere in pratica. La stessa tecnica si usa spesso per i vini molto buoni o per quelli eccezionali, soprattutto se molto datati e sottoposti ahimè a un energico e improvvido scuotimento. Ma la decantazione enologica è spesso una procedura che trae il suo perché anche da un motivo secondario ma non meno importante: il buon vino, per poter essere degustato in maniera adeguata e al suo meglio, deve ossigenare. E in questo caso, la decantazione ha bisogno dei suoi tempi: tanto più importanti, quanto più lo scuotimento è stato vigoroso, o il vino è pregiato o antico. E dire che la quarta giornata del TOdays2021 si era aperta nel più docile, melodico e scanzonato dei modi, quasi come uno spritz che – è risaputo – non ha assolutamente bisogno di alcun decanter. Accompagnata da un tiepido ma limpido sole a rischiarare un pomeriggio ormai morente, e un palco sul quale il nordico (di nascita) siciliano (d’adozione) Erland Oye si produceva in una piacevole quanto inusuale – visto il palco sul quale la ha portata, e la provenienza del personaggio in questione – musica dal cuore di bossanova e dai testi leggeri e mediterranei, laddove presenti. Una sostituzione rapida e inaspettata, la loro, per sopperire alla mancanza di una Arlo Parks che molti (me compreso) avrebbero molto piacevolmente atteso e ascoltato, se la ormai classica tegola del Covid non avesse sconvolto i piani della cantautrice britannica e del vulcanico patron Gozzi, che – per fortuna sua ma soprattutto nostra – nella sua faretra ha pur sempre parecchie altre ottime frecce. Come quella del nostrano Motta, al secolo Francesco, ormai rodato rocker di capacità e gusto, che nonostante la sua ancora verde età ha saputo ridare alla platea presente e cantante quella grinta rockettara che il buon norvegese – cantante degli acustici Kings of Convenience – aveva invero placidamente sopito e messo per un attimo nel congelatore.
La vera scossa della serata doveva però ancora arrivare: per alcuni parzialmente inaspettata, per altri piacevolmente confermata, una scossa di quelle che scuotono i lombi, a 220 in corrente continua. Sul palco, gli Shame, giovanissimo quintetto dalle sonorità e stile post-punk – acclamati a furor di popolo anche grazie ai loro ben due studio album già ben sistemati nella loro wine bank personale – e proveniente da quella South London che al mondo già in passato ha regalato gente del calibro di Siouxie Sue e le sue Banshees, dei Police e – ultimo ma di certo assolutamente non meno importante – quel biondo dio del rock proveniente da Bromley, che alla storia rimarrà scolpito col nome di David Bowie. Atteggiamento spocchioso ai limiti dell’hooliganesimo – tanto che giù dal palco, tra un salto e un piccolo e localizzato pogo, parecchi tra noi ex ultrà abbiamo avuto la sensazione che prima o poi sarebbero potuti scendere a dar manate a destra e a manca – e talento e grinta da vendere, questi cinque ragazzotti portano tutta la loro voglia di vivere e gridare e saltare sul palco, senza lesinarne nemmeno una stilla. E d’altra parte, gente come loro non potrebbe mai farlo: chi arriva dalla cultura punk sa benissimo che la forza vera di certa musica non sta solamente in una facciata pressapochista di quattro schitarrate – magari anche ben date – un atteggiamento semplice da fuori di testa, e un buon marketing.

Certo rock, o lo senti tuo tanto da viverlo, e gioirlo a tal punto da farti inondare dalla testa ai piedi come fosse adrenalina allo stato puro – portandoti dietro chiunque abbia un po’ di anima per sentirlo suo, e un paio di orecchie per carpirne la potenza musicale – oppure non lo puoi millantare: sta pur sicuro che prima o poi, da qualche parte sul percorso che va tra un palco di un festival generalista e una platea televisiva, verrai svelato. “Sgamato”, diciamo qui dalle parti della periferia torinese. Un luogo che agli Shame di certo va a genio, loro capaci di caracollare e rotolare dalla destra alla sinistra del palco, e nel vero senso della parola – nel caso, si veda alla voce John Finerty, bassista e anima ritmica del gruppo – o di cantare muovendosi tarantolati e facendo volare via la camicia già dal terzo pezzo, per rimanere a petto nudo e spavaldo di fronte al “fuckin whole world”, come invece è nelle corde vocali dell’acclamatissimo Charlie Steen. E non è nemmeno un caso se nei testi delle loro canzoni, questo stesso modo di vivere viene fuori come fosse un pugno, che anche se “My nails ain’t manicured \ My voice ain’t the best you’ve heard \And you can choose to hate my words \But do I give a fuck!” e ancora “Socks are old and shoes are broke \ Lungs are tired they’re filled with smoke \ Wallet’s empty I’m going broke \ But I’m still breathing”. E’ strano, ma mentre queste parole volteggiano nell’aria per poi infilzarti lì, a mezz’aria, mentre saltelli e ringrazi iddio per averti fatto assistere ad una cosa del genere, è quasi come se quel “Ma nonostante tutto, io sto ancora respirando” ti entrasse dentro e ti possedesse, a suo piacimento, come una stregoneria da druidi. “Il punk ti ha permesso di dire ‘fottiti’, ma non poteva andare oltre”, disse anni fa il fondatore della ‘Factory Records’ Tony Wilson: dopo quella singola, velenosa, frase di due sillabe di rabbia (‘Fuck you’), lo stesso producer che diede al mondo i Joy Division aggiungeva: “Prima o poi qualcuno avrebbe detto di più; qualcuno avrebbe voluto dire ‘sono fottuto’ (‘I’m fucked’)”. E infatti, proprio questo fecero i 3 mancuniani Stephen Morris, Peter Hook, Bernand Sumner, guidati dal loro fraterno compianto amico Ian Curtis. Ecco: ascoltare live gli Shame è andare oltre: è come se loro ti dicessero “Siamo fottuti! Ma intanto, fottetevi anche voi!”, con il sorriso stampato su quelle loro facciotte da ultrà poco più che ventenni, e quella tipica simpatia che, fuori dal palco, te li fa sentire quasi amici anche se, in quanto ad età, potresti essere lo zio, o anche il padre che non hanno mai voluto avere. E mentre ti complimenti con Charlie per la sua capacità di ‘arrivare’ al pubblico con estrema velocità e nonostante alcun ammiccamento sornione da star navigata del rock, e con il bassista John per le sue acrobazie mortali insieme al suo basso – e lui ti restituisce un sorriso ancora ‘bambino’, dicendoti “Quella roba? Oh non è nulla, solo un po’ di ginnastica da palco, my friend” – ti rendi conto che quella roba lì ti ci voleva proprio. E te la sei meritata tutta, in fondo, in quella attesa durata più di un anno e mezzo ad ascoltare streaming musicali senza pubblico e a ripetizione, o al più andando a pochi, pochissimi concerti suonati a volume impomatato, da band ridotte e il più delle volte con arrangiamenti pseudo-acustici – anche laddove una volta era un profluvio di decibel ad alto voltaggio –  curativi quasi quanto lo è un placebo per un malato terminale. Era lì che volevi stare, lì in mezzo e davanti ad un palco a saltare e a muovere forsennatamente le mani, a ritmo. Ridendotene della vita e – si, dai – anche molto di tutta quella morte che aleggia ancora oggi. Ossigenato, pienamente. Come ogni ottimo vino si merita. O come uno qualunque che, quasi quasi, resuscita e ritorna tra i vivi.

Stefano Carsen

"Sentimentalmente legato al rock, nasco musicalmente e morirò solo dopo parecchi "encore". Dal prog rock all'alternative via grunge, ogni sfumatura è la mia".