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The KINKS – Lola Versus Powerman and the Moneygoround, Part One.

La prima cosa da ascoltare di questo disco è la sua copertina. Un cerchio incornicia quadrati e rombi al centro dei quali si trova il volto di un uomo, un ibrido tra Dave Davies, Mick Avory, John Dalton  e Ray Davies, fissato in una eterna rotazione, in senso orario e antiorario. Un artwork che non manca di evocare l’uomo vitruviano di Leonardo Da Vinci, l’uomo misura di tutte le cose. L’idea di una natura umana alla base della magia rinascimentale, e Ray Davies è un uomo del Rinascimento artista, musicista, genio represso e depresso, in fondo un solitario che amava lavorare in perenne apnea. Ray, all’inizio del 1970, era stato travolto dagli insuccessi commerciali di “Arthur (Or the Decline and Fall of the British Empire)” e “The Kinks Are the Village Green Preservation Society”, stremato da quell’ultimo tour negli Stati Uniti e dal clima nefasto che aveva soffocato i Kinks in anni fatti di litigi interni e cause legali. Aveva bisogno di una nuova sfida, come il John Lennon, attore, in “How I Won The War”, un anno dopo l’ultimo tour della Beatlemania.
In questo senso “Lola Versus Powerman and the Moneygoround, Part One” è un capolavoro, un capolavoro nato dal caos.
Questo periodo di rinascita generale sarebbe diventato lo strumento per la realizzazione del disco meno consensuale dei Kinks, quello che cercava di scalfire la stessa industria musicale che si era lasciata sfuggire i loro più grandi lavori, che gli aveva impedito di andare in tour negli Stati Uniti, che gli aveva fatto firmare contratti truffa senza consulenza legale quando erano ancora giovani e inesperti, che li aveva traditi sottraendo loro soldi.
Per la loro storia, i Kinks potevano permettersi un album del genere; l’industria avrebbe accettato, per la forza della loro eccentricità. Più che una terapia post-trauma, questo album sarebbe stato un bel modo per sputtanarla e Ray doveva averlo trovato esteticamente molto affascinante. Come scrisse Dave Davies: “Anche se fu accolto con recensioni contrastanti, fu una grande opportunità per esprimere molte delle frustrazioni e delle emozioni presenti nei nostri animi”. Ray lo usò come una tribuna dalla quale esternare i lamenti contro le frange meno scrupolose del music business. Forse neanche i Beatles erano giunti a tanto e se, oggi, questo pamphlet può sembrare ipocrita, non esistono critiche inutili. Possiamo fare lo sforzo di criticarne l’approccio intellettuale, ma il rapporto dei Kinks con l’industria musicale, che è inseparabile da questo album, è sempre stato in continua discussione.
Anni dopo, nel 1990, i Kinks furono introdotti nella Rock And Roll Hall Of Fame. Il discorso di Ray non mancò di rendere omaggio agli Who del suo amico Pete Townshend, incoronato la stessa sera, ma, naturalmente, era anche l’occasione perfetta per rendere pubblica una vecchia lettera della loro etichetta, risalente al periodo appena precedente all’uscita di “You Really Got Me” e alle conseguenze del fallimento dei loro primi due singoli. In questa, che lesse ad alta voce al pubblico, si parlava dell’intenzione della label, la Pye Records, di abbandonare i Kinks in caso di mancato successo. Il resto del suo discorso, pieno di divertenti battute, fece una grande impressione, in particolare, per una frase: “Vedere tutta questa gente qui stasera mi fa capire che il rock’n’roll è diventato una cosa rispettabile… Che palle!”.
Molto del sarcasmo di “Lola Versus Powerman and the Moneygoround, Part One” sul business della musica mi è passato sulla testa da ragazzo. Non sono mai stato a Denmark Street, all’epoca, non leggevo NME o Melody Maker, non avevo guardato “Top of the Pops” in TV; non avevo idea di chi fossero quei tizi in “The Moneygoround” (Robert? Larry? Grenville?). Eravamo solo io e Lola.

“Girls will be boys
and boys will be girls”
(“Lola”)

Per il loro ottavo album, “Lola Versus The Powerman and The Moneygoround, Part One”, Ray Davies decise, quindi, di comporre un altro concept album. Scrisse undici delle tredici canzoni. Dave Davies le restanti “Strangers” e “Rats”. Le registrazioni si svolsero ai Morgan Studios, di Willesden, Londra. Le session iniziarono nell’aprile e continuarono fino al maggio del 1970, poi i Kinks si presero una pausa e le completarono tra agosto a settembre.
La formazione comprendeva Mick Avory, batteria, John Dalton, basso e chitarra, Dave Davies, chitarra solista, slide, banjo e voce, John Gosling, piano e organo e Ray Davies voce, chitarra e  dobro. John Gosling era l’ultimo arrivato. Grenville Collins, manager dei Kinks, suggerì che sarebbe stata una buona idea provare un tastierista sul palco. Ray aveva suonato le tastiere in studio, quindi assumere qualcuno che le suonasse sul palco sembrava un passo logico. Ricorda Dave Davies nel suo libro “Kink”: “Un pomeriggio abbiamo fatto un’audizione a John Gosling, che all’epoca era uno studente della Royal Academy, e funzionava. Lo chiamavamo Giovanni Battista, in riferimento alla sua somiglianza col profeta, o meglio alla rappresentazione che Ray aveva di lui”. I Kinks sembravano di nuovo un gruppo. Le cose ricominciavano a funzionare.
Dopo quattro mesi di studio “Lola Versus The Powerman and The Moneygoround, Part One” era terminato. Il primo singolo fu “Lola”, che uscì in Gran Bretagna il 12 giugno 1970 e raggiunse il secondo posto in Gran Bretagna, Germania e Canada, il quarto in Australia e fu primo in Olanda e Nuova Zelanda. Negli Stati Uniti, “Lola” arrivò al numero nove su “Billboard”. Il secondo singolo, “Apeman” raggiunse il numero cinque in Gran Bretagna, Germania, Australia e Nuova Zelanda, il nove in Olanda e il diciannove in Canada. Negli Stati Uniti si fermò al quarantacinquesimo posto su “Billboard”. Quando fu pubblicato l’album, nel novembre del 1970, l’accoglienza della stampa musicale britannica fu positiva. “Rolling Stone” lo definì: “Ad oggi il miglior album dei Kinks”.  Robert Christgau scrisse “The evolution of Ray Davies’s singing from raunch to whine is now complete; the melodies are still there, but in this context they sound corny rather than plaintive. It’s one thing to indulge your nostalgia re village greens, another to succumb to it all over a concept album about modern media. N.b.: bookkeepers, song publishers, union reps, and musimoguls aren’t all like rats”. “Lola Versus The Powerman and The Moneygoround” andò meglio negli Stati Uniti che in Gran Bretagna. Raggiunse il numero trentacinque nella classifica di “Billboard” e non riuscì a entrare in classifica in Gran Bretagna. Il disco era puro eclettismo. Oscillava tra pop, rock, chitarre jangly, folk rock e il consueto vaudeville del quale Ray Davies era un devoto. Le liriche combinavano tutto, testi aspri e arguti, nostalgia, frustrazione e rabbia.

Got to be free to say what I want
Make what I want and play what I want

(“Got To Be Free”)

Come spiega David Hepworth in “Overpaid, Oversexed And Over There”, intorno alla metà degli anni Sessanta le band inglesi sbancarono negli Stati Uniti. I Beatles aprirono le porte e tutti si lanciarono dietro di loro. Gli Stones e gli Who, ma anche assoluti scapestrati, in senso buono, come gli Herman’s Hermits.
Tutti, tranne i Kinks che non poterono tornare negli Stati Uniti, perché non era permesso loro rientrare. Nel 1965 l’American Federation Of Musicians impose alla band un embargo di quattro anni sulle loro tournée. Fin dall’inizio, i fratelli Davies furono in guerra, tanto da far sembrare Roger Daltrey e Pete Townshend due anime gentili, ma quel tour del 1965 fu un disastro. Le risse sul palco erano frequenti, come quella tra Dave e il batterista Mick Avory. Dave passò la notte in ospedale, Mick in una cella. Un simile caos non avrebbe certo ingraziato la band agli occhi dei promoter d’oltreoceano. Dave sentiva la mancanza di moglie e figlio e temeva che qualcuno gli sparasse, cosa che, in effetti, sarebbe accaduta anni dopo a New Orleans. Non li aiutò certo il fatto che il loro management, in quella occasione, fosse stato poco scrupoloso. A Reno, la promoter Betty Kaye portò solo la metà del denaro promesso, così i Kinks suonarono solo venti dei quaranta minuti pattuiti. A Sacramento, si presentarono con una jam di “You Really Got Me”, ma la goccia che fece traboccare il vaso per la tutt’altro che irreprensibile Betty fu uno show al Cow Palace di San Francisco, dove il gruppo salì sul palco soltanto per salutare quelli del pubblico e lei presentò un reclamo per condotta non professionale. Basterebbe questo, ma durante le riprese del Dick Clark Show a Los Angeles, secondo quanto riportato nell’autobiografia di Ray Davies, “X-Ray”, un tizio che affermava di lavorare per quel canale ebbe da ridire con la band, definendola un branco di “wimps commie”, comunisti smidollati, presentando un’altra denuncia. E finì in rissa.  Un altro episodio si verificò nello show televisivo “Hullabaloo” quando una telecamera riprese, durante una carrellata, Mick e Ray che ballavano guancia a guancia. “Tutto quello che potevamo fare per infastidire la gente, lo abbiamo fatto”, disse Ray. La Federation proclamò il proprio embargo e fino al 1969 non vennero più rilasciati i permessi di lavoro. Secondo Ray Davies, i motivi della disfatta furono “un misto di pessima organizzazione, pessimo management, sfortuna e cattiva condotta”. A quanto pare, la band dovette persino firmare una dichiarazione prima di poter rientrare una volta revocato il ban. Nel 2014 ancora Ray avrebbe dichiarato in una intervista a Tom Dunne che “il divieto portò via loro i migliori anni”. Continuò sottolineando che “quando poterono rientrare, era già arrivata la generazione di Woodstock e i Kinks dimenticati”.
I loro primi album, per quanto eccezionali, erano, come, all’epoca, quelli di tutti gli altri, pesantemente influenzata dalla musica americana, mentre i dischi che registrarono durante il ban includevano capolavori come “Something Else” (1967), “The Kinks Are The Village Green Preservation Society” (1968) e “Arthur (Or The Decline And Fall Of The British Empire)” (1969), dischi straordinari, colmi di splendide canzoni, la cui influenza si sarebbe fatta sentire per decenni. “Arthur” riuscì persino a scalare le classifiche, arrivò al numero 105, ma fu la loro migliore prestazione da prima del loro allontanamento dal mercato americano.
Però nel 1970 Ray Davies stava cercando di scrivere un grande successo quello che suo padre gli aveva consigliato. Per questo motivo si comprò un Dobro Resonator del 1938 e una Martin acustica, e fu la combinazione di questi due strumenti che dà all’album quel suono così caratteristico. Puoi sentirli in apertura e chiusura su “The Contenders” e “Got To Be Free”. Ray li avrebbe impiegati anche nel successivo disco, “Muswell Hillbillies”. Dave, dal canto suo, ci buttò dentro qualche riff in mi bemolle maggiore e il lavoro era fatto.
L’album si apre con “The Contenders”, parte con il fingerpicking acustico di Ray prima che il riff dell’elettrica di suo fratello prenda il sopravvento e acceleri il tutto. Entra un’armonica, il tutto viene scandito da un pianoforte che becca ogni possibile misura della ritmica. È una canzone sull’ambizione, Ray è il leader di una giovane band che non vede il proprio futuro negli sbocchi diretti della scolarità: “I’m too ill-equipped for a mathematician/A shrewd politician, a maker of petitions”. Suona come una sentenza, una promessa alla vita: “We’re not the greatest when we’re separated/But when we’re together I think we’re going to make it/I don’t want to be like a fascist dictator/A saint or a sinner, I want to be a winner”. Avrebbero potuto essere dei contenders, avrebbero potuto essere qualcuno. I fratelli Davies, nonostante i litigi, si guardavano le spalle a vicenda. L’ultimo verso si riferisce proprio a quello: ”We’re not the greatest when we’re separated, but when we’re together, I think we’re going to make it”. Si identificavano chiaramente come membri della classe medio-bassa “I don’t want to be a deserter of highways, a sweeper of sidewalks. I gotta do it my way”. La loro unica chance è rappresentata dalla musica che li esprime in tutte le emozioni, in ogni loro ambizione. Ragazzi pienamente consapevoli, delle classi medio-basse che, per dirla alla Beatles, volevano arrivare al “toppermost of the poppermost”. Un sogno condiviso che richiede talento e disciplina. Ray aveva frequentato la scuola d’arte, ma non aveva trovato sbocchi, restò un anticonformista a suon di regole. Nella sua autobiografia “X-Ray”, dedica alcune righe a questa canzone, “allude al fatto che la vita sia come un incontro di boxe. Un campo di battaglia e una pantomima allo stesso tempo”.

Dave risponde con una delle sue migliori canzoni, “Strangers”. È una ballata intima, acustica, appena supportata da un organo, per metà solenne, per metà sepolcrale, una batteria essenziale e una voce raddoppiata qua e là dal solo Dave. È un sequel piuttosto austero di “The Contenders”. “So I will follow you wherever you go If your offered hand is still open to me”, sono cercatori di meraviglie. È un capolavoro musicale e lirico, con la sua semplice struttura, punteggiata da una batteria quasi funebre di Mick Avory, che aumenta l’impatto emotivo del testo: “So you’ve been where I’ve just come/From the land that brings losers on/So we will share this road we walk And mind our mouths and beware our talk/‘Till peace we find tell you what I’ll do/All the things I own I will share with you/If I feel tomorrow like I feel today/We’ll take what we want and give the rest away/Strangers on this road we are on/We are not two we are one”. La batteria chiude la canzone, come una pulsazione, come un uccello morente che non ti saresti preoccupato di ascoltare in vita. Dave parla di “Strangers”  nel suo libro “Kink”: “Ho scritto una canzone che parla di amicizia, riconciliazione e amore incondizionato. Sul rendersi conto che tutti noi, in momenti diversi della nostra vita, dobbiamo rinunciare a una parte per qualcosa di più grande per diventare parte di un tutto più grande”. Una descrizione di quello che fu il suo rapporto col fratello Ray.
“Denmark Street” è una di quelle ballate dancehall tipiche di Ray, che prende di mira con estrema accuratezza quegli editori musicali che se ne fregano della qualità intrinseca di un brano, che se ne fregano della musica finché ci sono di mezzo i soldi, e che se ne fregano dei compositori in cerca di contratti: questa è “Denmark Street”. Il tutto in un vaudeville molto inglese che parodia con tutti i toni possibili il grande divario tra l’entusiasmo del giovane rocker pronto a sdoganare il mondo con le sue canzoni e quello del vecchio uomo d’affari deciso a mettere la canzone alla berlina al primo errore: “I hate your music and your hair is too long, but I’ll sign you up because/I’d hate to be wrong”. Per raggiungere lodevoli obiettivi, bisogna passare dal sublime al volgare. “You’ve got a tune it’s in your head you want to get it placed/So you take it down to a music man just to see what he will say/He says ‘I hate the tune, I hate the words but I’ll tell you what/I’ll do I’ll sign you up and take it round the street and see if it makes the grade/And you might even hear it played on the rock ‘n’ roll hit parade!”.
Con la sua decadente melodia, la sua batteria e un organo stile Esercito della Salvezza “Get Back in Line” è come un’istantanea di miseri lavoratori stretti in malandati cappotti che si trascinano lungo un muro di fuliggine. Ray non ha mai fatto un giorno di lavoro duro, ma tutto questo era intorno a lui mentre cresceva nell’austerità della Gran Bretagna degli anni Cinquanta. Il problema della disoccupazione era già stato presente cinque anni prima, quando aveva scritto la spiritosa ma cupa “Dead End Street”; in questa canzone la sua empatia con i lavoratori diviene più dolce, più tenera. “Facing the world ain’t easy When there isn’t nothing going”, osserva malinconicamente nella prima strofa; “Standing at the corner waiting Watching time go by”. La disperazione coniugata a una sorta di fierezza che intorpidisce il suo cuore, mentre si chiede cupamente: “Will I go to work today or Shall I bide my time?”. Il verso più emozionante viene dopo, nella seconda strofa: “I don’t want you to see me standing in that line”. Con una epocale colpo di batteria, i nostro eroi guardano in alto e vedono il dominatore del loro piccolo miserabile universo: the Union Man forse ispirato a Ray quando vide suo padre in coda per il sussidio. “He’s the man who decides if I live or I die, If I starve or I eat”, il verso si dilata con apprensione mentre rimane sospeso su una nota ansiosa. E poi una breve inquadratura di tipo cinematografico: “He walks up to me and the sun begins to shine”, si accendono delle magnifiche chitarre che si dissolvono in una sequenza di colpi di grancassa mentre “He walks right past and I know That I’ve got to get Back in the line”. Amo il modo in cui le armonie secondarie suonano qui in linee alternate; anche l’ascoltatore trattiene il fiato mentre the Union Man si pavoneggia. Amo il lento rantolo affannoso di “Get Back In Line”; è un assaggio di quello che avremmo avuto sul successivo “Muswell Hillbillies”. In un certo senso, questa canzone è il contrario di “Uncle Son” proprio su “Muswell”, si potrebbe anche paragonarla a “Working At the Factory” di Think Visual, dove Ray si lamenta dell’alienazione della catena di montaggio. Qui non resta che assaporarne la dolce malinconia. La stessa dolce malinconia del free cinema inglese, proprio come i suoi protagonisti, il Richard Harris de “Io sono un campione” o l’Albert Finney di “Sabato sera, domenica mattina“ l’aspirante musicista di Ray va cupamente alla camera del lavoro, sperando di trovare occupazione. La canzone resta un capolavoro. La combinazione di arpeggi acustici ed elettrici fa miracoli fin dalle prime battute. La voce ispirata e priva di vibrato è risolta su una melodia empatica, rapidamente contagiosa che punge con affetto. Quando arriva il refrain, un organo delicato vola via, e Ray e Dave si raddoppiano. Una magia che avviene due volte ma, mistificato, l’ascoltatore quasi non afferra, perché nei tre minuti e quattro secondi di “Get Back In Line” è trasportato via, in un’altra vita. Sempre in “X-Ray”, Ray Davies scrive: “È successo quando ero all’Art College, ero andato a prendere la borsa e per qualche motivo dovevo andare all’ufficio di collocamento. Mentre uscivo, vidi mio padre allontanarsi dall’edificio. Probabilmente era andato lì per il suo sussidio. Non gli ho mai detto di averlo visto lì. Non gli ho mai parlato dell’incidente. Lui mi parlava spesso, si confidava con me. Penso che fosse un vecchio pazzo, ma in un modo adorabile. È stata quell’immagine di lui che lascia l’ufficio della previdenza sociale che mi è rimasta nella mente. “Get Back in the Line” è stato ispirata da mio padre”.
È buffo come “Lola Versus Powerman And The Moneygoround, Part One” che voleva essere l’album più satirico dei Kinks, contenga alcune delle canzoni più malinconiche che Ray Davies abbia mai scritto. “Get Back in the Line” respinge il sogno come sciocco e irrealistico, mentre allo stesso tempo grava l’umiliante realtà della ricerca di un lavoro senza importanza.
Ecco “Lola”. Il testo è sempre stato controverso per il riferimento alla Coca Cola che offese la BBC e costrinse Ray a interrompere il tour americano e a volare a Londra per registrare una più integerrima “Cherry Cola”. Indipendentemente da ciò, suona ancora in modo fantastico, Coca Cola e tutto il resto. Nel 1970, l’omosessualità erano ancora un tabù fuori legge in alcune parti del Regno Unito e tale sarebbe rimasta per più di un decennio. Eppure, due anni prima che la nazione avesse il suo primo Gay Pride, Ray Davies scrisse “Lola”, una canzone che abbracciava l’intero spettro del gender non-conformity.  “Girls will be boys/and boys will be girls, it’s a mixed-up, muddled-up, shook-up world/except for Lola”. Negli anni sono state raccontate molte storie sulla sua ispirazione. Ray ha raccontato che è nata da un incontro in un locale notturno di Parigi, il Castille Club: “Uno della nostra troupe incontrò questa bella bionda e se la portò in albergo. Per poi scoprirne, al mattino, una barbetta sul mento!”. In realtà la sua empatia con Lola ha una matrice dichiaratamente autobiografica: “Sono cresciuto con sei sorelle. Ci travestivamo. Gli uomini si vestivano da donne. Mio padre, che è l’uomo più macho che si possa immaginare, ogni tanto si metteva una parrucca e ballava. Fa parte della cultura del music hall”. È il teatro comico vittoriano, Gilbert e Sullivan, “it’a topsy-turvy, Ray!”. Il ritratto di Lola riflette il suo approccio al personaggio: “Quando scrivo una canzone, mi immedesimo nella parte. In “Sunny Afternoon” volevo sapere chi fosse questo aristocratico fallito, e sono diventato lui. Idem nel viaggio di Lola. “Ammiro chiunque possa essere ciò che vuole essere”.
“Lola” è il singolo più perfetto che si possa immaginare, è un considerevole distacco dalle canzoni che stavano scrivendo. In ogni caso senza i cori di Dave e il suo magistrale lavoro con la chitarra, non sarebbe così scintillante, mette ogni musicista nella sua luce migliore. Alcuni hanno osservato che Ray Davies avrebbe potuto scrivere hit su hit se solo avesse voluto. Dopo tutto, conosceva tutte le formule, le chimiche, le alchimie del pop; semplicemente scelse di fare qualcosa di diverso, al di fuori del mainstream. Qui si ricongiunge a questa sua abilità per piazzare la canzone perfetta e completare la sua narrazione.

E “Lola” arrivò a “Top of the Pops”? Il brano, intendo. È uno spasso, mentre ci accompagnano attraverso la costante scalata alle classifiche, strofa per strofa, nota per nota. Lungo la via, ci forniscono un satirico resoconto sull’onere delle rock star, la loro trasformazione in divinità della musica: “Now my record’s number 11 on the BBC But number seven on the N.M.E. Now the Melody Maker want to interview me And ask my view on politics and theories on religion. Now my record’s up to number 3 And a woman recognized me and started to scream This all seems like a crazy dream I’ve been invited to a dinner with a prominent queen And now I’ve got friends that I never knew I had before”. E sai cosa significa questo? Significa che puoi guadagnare soldi veri “It’s strange how people want you when you record’s high ‘Cos when it drops down they just pass you by Now my agent called me on the telephone He said, “Son, your record’s just got to number 1”.  Ray Davies ebbe sempre un sacco di problemi con le apparizioni televisive. Per la sua prima a “Top Of The Pops”, finì preventivamente da un dentista a nascondere il suo diastema. È difficile essere veri in televisione e nel mondo dello showbiz, ma anche dire quello che si vuole, “I’m Not Everybody Else”. Nella canzone viene menzionato il New Musical Express. Non è certamente una coincidenza. NME assegnò per due anni di seguito il premio come miglior nuovo gruppo ai Rolling Stones, privando i Kinks di un riconoscimento allora meritato. Da quel giorno, i Kinks ribattezzarono il New Musical Express, il nemico, pronunciando in maniera distorta: EN-EM-Y. In questi compromessi, questi sistemi di rappresentazione, di sfide a regole parziali che potevano essere le classifiche e i concorsi, lì Ray voleva disegnare la sua acida vendetta. Musicalmente parlando, “Top Of The Pops” è soprattutto un riff. Si sente l’organo ma non il pianoforte, a differenza delle altre dell’album. Nel finale un organo quasi religioso si mescola con una voce quasi perentoria, in un brano cosparso più dal cinismo che dal puro divertimento.

“The Moneygoround” dissipa rapidamente tale concetto, i numerosi oscuri intermediari del music business si intromettono per accaparrarsi la loro fetta di guadagno. L’ingenuità espressa nel verso “I thought they were my friends” ci dice che il tipo di “Strangers” è ancora decisamente vivo.

Dietro la sua apparente semplicità, alcune sottigliezze, come questa sincope dopo il “who” nella frase: “Robert owes half to Grenville/Who, in turn, gave half to Larry, who/Adored my instrumentals”. Per quanto riguarda i testi, stiamo parlando dei benevoli manager che condividono la torta davanti a Ray, un’altra “Denmark Street”, in effetti. Più o meno una descrizione dei primi contratti dei Kinks e le complicate frustrazioni che avrebbero inevitabilmente portato a cause legali. Lo stile vocale è quello di un uomo sull’orlo di una crisi di nervi, da un lato contro l’establishment, dall’altro, passando da un legale all’altro, in cerca di libertà artistica e commerciale.
È il successo che li manda in tour in “This Time Tomorrow”, in una delle più evocative canzoni che i Kinks abbiano mai scritto, descrivono l’esperienza noiosa e sconnessa del viaggiare. La melodia è così intensa che ti rimane in testa e l’arrangiamento unisce raffinatezza ed energia. Fa venire voglia di chiudere gli occhi, stringere i pugni e andarsene. Anche se è un brano con una chiara predominanza dell’acustica, è forse uno dei più orecchiabili del disco. La ricchezza deriva in parte dall’arrangiamento, nessuno strumento ne evidenzia un altro inutilmente. Tutto arriva al momento giusto anche il rombo del reattore di un aereo. Anzi, se ascoltate l’introduzione in cuffia, avrete l’impressione che l’aereo vi attraversi la testa dall’orecchio destro all’orecchio sinistro. Nella parte finale, il punto più alto, è una nota d’organo, che mette a tacere gli altri strumenti nell’ultima misura come farebbe un direttore d’orchestra,  una dissolvenza che ammorbidisce delicatamente la canzone.
“This Time Tomorrow”, narrando la vita di una band on the road, o piuttosto tra le nuvole, è perfettamente compresa nell’attacco del testo: “This time tomorrow where will we be/On a spaceship somewhere sailing across an empty sea/This time tomorrow what will we know/Will we still be here watching an in-flight movie show/I’ll leave the sun behind me and watch the clouds as they sadly pass me by/Seven miles below me I can see the world and it ain’t so big at all”. Al solito, la scrittura di Ray Davies ci porta esattamente dove vuole lui; questo è il suo straordinario talento.

Ogni cambiamento comporta una perdita, e “A Long Way from Home” offre la possibilità di riflettere su tutto ciò che si dissipa nella ricerca e nel raggiungimento del successo. La canzone potrebbe essere il messaggio lasciato da un amico, ma è ancora più potente e coerente con la narrazione. Immaginate i Kinks davanti a uno specchio: “You’ve come a long way from the runny-nosed and scruffy kid I knew You had such good ways… You’ve come a long way, you’re self-assured and dressed in Funny clothes, but you don’t know me. I hope you find what you are looking for with your car and handmade overcoats But your wealth will never make you stronger ‘cos you’re still a Long way from home”. Questa ballad ricorda “Young And Innocent Days”, su “Arthur”, i temi sono gli stessi, crescere in un mondo ostile, l’età e le sue corruzioni, quell’eterno enigma che è la ricerca della saggezza.
E la sua tranquilla fantasticheria è interrotta dalle chitarre ruvide di “Rats”, la seconda di Dave, un viaggio attraverso la metropoli nella prospettiva di chi ne ha abbastanza delle masse brulicanti che premono e schiacciano le esistenze. “Those rats breeding angriness and spite/Never have done anything right/For people like you and me/Walk over all the people you can’t see/If they die there’s more bread for me/Like snakes crawling through the grass”. Ciò che mi ha sempre affascinato di questa canzone sono i suoi primi secondi e il riff iniziale raschiante e ronzante. Come scrive Peter Dogget, è una canzone biliosa e l’unico rock autentico e selvaggio di questo album. Con Dave Davies è come con George Harrison, non si può fare a meno di confrontare le sue canzoni con il resto dell’album e con quelle precedenti, e qui devo confessare che preferisco le sue “Lincoln Country”, “Susannah’s Still Alive” o “Funny Face”, più scritte, più concrete. In “Rats” tutto contribuisce a renderla orecchiabile, compreso quel basso groovy, ma la sua costruzione tutt’intorno a un riff non mi ha mai impressionato molto.

Tutto ciò pone le basi per la fantasia compensatoria di “Apeman” dove Ray immagina una vita in compagnia della sua donna dove “I’ll keep you warm and you’ll keep me sane/And we’ll sit in the trees and eat bananas all day”. La voce è perfetta, mentre adatta la sua vocalità tra il falso caraibico e l’ingenuo ambientalismo. “Apeman” è più genericamente satirica, la fuga di Ray qui è una fantasia da cartone animato, sedersi sugli alberi di cocco e mangiare banane (la batteria di Mick Avory suona deliziosamente primitiva). Come non amare il bridge quando Ray entra in modalità rock’n’roll vintage per cantare, “Come and love me/Be my apeman girl/And we will be so happy/In my apeman world?”. Per il resto, si attiene all’andatura calypso, aggiungendo ritmo al pianoforte, mentre sputa una lista di imbrogli della nostra società: “I think I’m so educated and I’m so civilized/’Cos I’m a strict vegetarian/But with the over-population and inflation and starvation/And the crazy politicians”. È una parodia, ma sento il suo panico nel ritornello: “I don’t feel safe in this world no more/I don’t want to die in a nuclear war/I want to sail away to a distant shore/And make like an apeman”. Eccolo di nuovo alla ricerca dell’isola.
Rinfrancato dalla fantasia della fuga, ora è disposto ad affrontare la realtà dritta negli occhi in “Powerman”. Maturato dalla delusione e scevro da illusioni, si rende conto che il dolore resterà per sempre, ma il suo amore lo compenserà: “Well, I’m not rich and I’m not free But I’ve got my girl and she got me He’s got my money and my publishing rights But I’ve got my girl and I’m alright”.

L’album termina con “Got to Be Free”, un brano in levare, che si basa sulla melodia iniziale di “Contenders”. I Kinks hanno realizzato un giro completo. La convinzione tipica della classe piccolo-borghese che le ricchezze possono offrire la libertà è un’idea profondamente sbagliata. Ora è convinto filosoficamente ed emotivamente di un’alternativa, anche se non ha idea di come realizzarla o di quale possa essere esattamente la sua mutazione. “Yeah, we’ve got to get out of this world somehow/We’ve got to be free, we’ve got to be free now/Got to be free to do what I want/Walk if I want and talk if I want/Got to be free to say what I want/Make what I want and play what I want/I’ve got to be proud and stand up straight/And let people see I ain’t nobody’s slave/I’ve got to be free before it’s too late/I’ve just got to be free/Got to be free to do what I want/Walk if I want, talk if I want”.
In generale, “Lola Versus The Powerman and The Moneygoround, Part One” è ben lungi dall’essere il disco più insolito dei Kinks, ma è sufficientemente atipico da farci sentire come se ci trovassimo in un nuovo “mixed up, muddled up, shook up world”. Mi sento a mio agio nella sua stranezza anche cinquant’anni dopo, come un giovane adulto che sta crescendo in circostanze completamente diverse. La natura classica di queste canzoni ci trasporta in un tempo diverso, mentre il loro soggetto si concentra su familiari lotte umane. Ray Davies era ben documentato per non essere estraneo a problemi difficili da superare. In questi periodi di sconvolgimenti, avere una solida via di fuga potrebbe essere ciò che lo ha aiutato, e ci aiuterà, ad attraversarli. “Lola Versus The Powerman and The Moneygoround, Part One” e l’atmosfera che genera e mette in discussione, è quella luce nel buio.

Riccardo Magagna

"Credo in internet, diffido dello smartphone e della nuova destra, sono per la rivalutazione del romanticismo e dei baci appassionati e ho una grande paura dell'information overload"