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Salta, Eddie! Picchia, Eddie! Ciao, Eddie…

Se ci penso ora, a mente fredda, mi vengono comunque i brividi. Ieri sera ero attonito, incapace di metabolizzare. Non sono mai stato un grande amante del metallo in musica: Led Zeppelin, certo (che sono comunque altra roba), dei quali avevo quasi tutto, e Deep Purple, dei quali possedevo all’epoca solo “Made In Japan” e “In Rock“. Erano passati pochi mesi dall’inizio della prima superiore, avevo già avuto un fortuito battesimo radiofonico e passavo per uno che “ne sapeva” agli occhi dei compagni di classe, ma subivo gli sguardi di sufficienza dei maturandi.
Un giorno, mentre nell’androne di casa cercavo di spiegare a un amico della scala A la mia idea sulle differenze tra il “mio” punk e i “suoi” metallari (che, peraltro, snobbavo senza averne gran cognizione), un terzo vicino, più grande ed esperto (praticamente colui cui tutto il palazzo deve ancor oggi qualcosa in termini di conoscenza musicale, e chissà che fine ha fatto…), ci interruppe dicendo: “Ma voi sapete cos’è Atomic Punk?”.vanhaloen

Silenzio.

 “Ok, ci troviamo da me tra due ore, ché devo preparare un esame, ma una cosa o due ve le faccio ascoltare“.

L’epifania mi vide unico protagonista, l’altro amico era troppo intimidito e non si era palesato. Running With The Devil era sicuramente un pezzone, ma la sequenza Eruption/You Really Got Me mi lasciò annichilito, sotto lo sguardo sornione del mio mentore. Come tutti, ero soggiogato dalla velocità di Ritchie Blackmore, ma qui ero di fronte a qualcosa che non poteva passare per un semplice asso della chitarra: come poteva trarre quei suoni dallo stesso strumento che avevo ascoltato in decine (sarebbero diventate migliaia, negli anni) di occasioni diverse, mai così “uniche”, benché ognuno di quegli strumentisti avesse la propria peculiarità? Naturalmente, non sapendo affatto chi fossero quegli inglesi dai quali l’avevano presa, non mi rendevo conto del fatto che la canzone che seguiva quella cascata di suoni così inedita mi risuonasse internamente perché, con ogni probabilità, l’avevo già ascoltata in qualche radio (e subito dopo quel primo album dei Van Halen mi sarei portato a casa “Misfits” dei Kinks, altro gruppo nato da una coppia di fratelli, più litigiosi degli americani e più talentuosi in termini compositivi, almeno per il mio gusto di ascoltatore che si stava affinando in quegli anni).ev3
Ma non era tutto lì: Jamie’s Cryin’, Ain’t Talkin’ ‘bout Love, Feel Your Love Tonight… E, naturalmente, Atomic Punk, con quella magica parola furbamente inserita nel titolo, pur non riferendosi al genere musicale, sirena per le orecchie di chi in realtà considerava gli Zep dei dinosauri e, quindi, presumibilmente non avrebbe mai preso in considerazione un disco che se non rientra tra i dieci più importanti del genere, ci va molto vicino. E poi c’è anche spazio per un blues, inizialmente acustico e poi irruente ed elettrico, come Ice Cream Man di John Brim, uno che anche oggi, a raccontarlo, ti guardano con gli occhi a palla: un brano che ha fatto capire a molti della mia generazione come quei vecchi bluesmen valessero la pena di essere ascoltati. Insomma, se ho dato una chance a AC/DC, Blue Öyster Cult, Black Sabbath, Judas Priest, Motörhead e (pochi: continua a non essere tra i miei generi preferiti) altri, ma anche a Robert Johnson o Blind Lemon Jefferson, una parte del merito va a questi ragazzi (pazzesco, a pensarci: avevano poco più di vent’anni eppure parevano così adulti, in quella copertina) e a quel mostro di tecnica-ma-col-cuore di Eddie Van Halen. Mi sarei fermato lì, con loro: per qualche inspiegabile motivo non avrei mai concesso al gruppo ulteriore spazio all’altezza della lettera “V” nella mia discoteca. Non saprei dire il perché, forse perché “II” (toh, come i Led Zeppelin) mi era parso pleonastico rispetto al precedente, che era già così completo.eddie
Poi ci sarebbe stata Jump: un singolo pazzesco, un tiro micidiale che non ha perso un grammo di potenza negli ultimi 36 anni, uno di quei brani che ti si appiccicano addosso comunque, un instant classic che anche se non vuoi ti dà energia, ed è un po’ ironico che l’unico numero 1 in carriera il gruppo che annoverava forse il più originale e innovativo chitarrista di sempre vi sia giunto con una canzone sostenuta da un riff di sintetizzatore, e di quella almeno il singolo me lo portai a casa, anche se quale premio di non so più quale gioco di quale festa. Ma lui, Eddie, c’era già stato in testa alla classifica di Billboard, giusto un paio di anni prima, e questo singolo era su un altro disco che avevo già: appena lo presi, affascinato dalla title track che chiudeva il primo lato, quando girai il vinile e partì la prima esclamai: “Van Halen, è lui!“. Perché l’uomo, riconoscibilissimo, riuscì anche a dare un senso in più a “Thriller“, che senza Beat It sarebbe stato comunque un ottimo disco, però semplicemente il seguito di “Off The Wall” e avrebbe confinato Michael Jackson in un ambito sicuramente rilevante, ma che non gli avrebbe consentito di raggiungere lo status di icona pop universale: provate a toglierlo dalla scaletta, mentre ascoltate, e vedrete se non è vero.
Buon viaggio, Eddie: ci mancheranno il tuo sorriso, sincero, aperto e costante, e quel tapping da tutti imitato, ma mai così personalizzato.

 

Massimo Perolini

Appassionato di musica, libri, cinema e Toro. Ex conduttore radiofonico per varie emittenti torinesi e manager di alcune band locali. Il suo motto l'ha preso da David Bowie: "I am the dj, I am what I play".