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Immersi nella luce: 40 anni di “Remain in light”

“Questo e’ un accordo, vai e forma un gruppo”
Certo, non era proprio così la formula tracciata da Mark Perry su Sniffin’ Glue la fanzine che tracciò la via alla nascita del punk inglese nel 1976. Quella discettava di ben tre accordi. Il minimo necessario per fare “la tua cosa”.
Ma quattro anni dopo una band di New York nata sulla Bowery in perfetta concomitanza con quello slogan rimasto negli annali riduceva all’osso anche quella formula.
Ne poteva bastare anche uno solo di accordo per creare qualcosa di totalmente nuovo, qualcosa che tagliasse in due come una cerniera la storia della musica pop come poco altro, purché questo accordo fosse adagiato con cura su un groove ritmico costante e solido, fosse rivestito e spogliato in continuazione di strati sonori che emergessero e scomparissero quasi fossero fiumi carsici, fosse squarciato di tanto in tanto da suoni dilanianti di chitarra capaci di spalancare porte verso l’ignoto.
“Il nome di questa band era Talking Heads”.
La storia della costruzione di quella torre di Babele della musica pop (in senso lato) che porta il nome di Remain in Light è stata sviscerata più volte: le nuove tecniche di registrazione ai Nassau Compass Point studios, la filosofia della composizione come costruzione di un puzzle di singole parti seriali suonate e risuonate alla perfezione (niente protools allora !) e assemblate poi , l’intesa tra Eno e Byrne nata su “My life in the bush of ghosts” e cementata su questo disco, il vuoto creativo di Byrne nell’elaborazione dei testi superato facendoli letteralmente scrivere dalla musica stessa, il conflitto sui credits di composizione tra i suddetti e la coppia Frantz-Weymouth, lo sconvolgente tour di promozione con una formazione multietnica a otto: uno dei momenti live definitivi di tutti i tempi. Tutto questo, dicevo, è stato narrato ampiamente e da voci ben più autorevoli della mia.
Preferisco viaggiare allora sull’onda del ricordo personale.
talking
Un flash:
1980 sono davanti ad una vetrina nel centro della mia città, la vetrina di un negozio di hifi e dischi in un’ epoca in cui queste categorie merceologiche erano in grado di garantire una sede in pienissimo centro storico. Tra le copertine esposte occhieggia questa immagine quasi disturbante, quattro visi di cui si vedono solo i bulbi oculari, la pelle totalmente coperta da uno strato rosso quasi scarabocchiato ma che ha il sapore di qualcosa di estremamente moderno, qualcosa che il senno di poi mi avrebbe fatto connettere direttamente alle nuove tecnologie digitali, ad una primitiva grafica su computer.
E poi quelle A rovesciate nel nome della band e nel titolo del disco: “Remain in Light” cosa stanno a significare se non un sovvertimento delle regole codificate della comunicazione ?
Ma tutto questo l’avrei elaborato dopo, l’impressione immediata era quella di trovarsi di fronte a qualcosa di alieno, inquietante, quasi minaccioso. Il nome Talking Heads l’avevo intercettato su Ciao 2001 qualche mese prima, nella recensione del precedente “Fear of Music” in cui venivano additati come alfieri della new wave più avant. Ma i soldi nelle mie tasche sono pochi e la mia audacia non sufficiente a spingermi all’esplorazione immediata di quella terra incognita.
L’esplorazione è rinviata quindi a qualche anno dopo, quando mi sto abituando all’immersione nelle acque in cui nuotano il terzo ed il quarto album di Peter Gabriel, Scary Monsters di Bowie e Discipline dei riformati King Crimson. E’ quello il momento, galeotto anche il videoclip di “Once in a lifetime” lanciato da Mister Fantasy, in cui decido di procedere verso quella luce nella quale sono esortato a “rimanere”.
E, dio mio, se è un epifania !
L’impatto di “Crosseyed and Painless” sul mio corpo è quello di una scossa elettrica. Impossibile riuscire a tenere ferme le gambe mentre si viaggia su quel convoglio lanciato a tutta velocità verso il futuro. La batteria e il basso della coppia Frantz Weymouth sono immutabili dall’inizio alla fine eppure ti senti immerso in un onda in pieno movimento, con quella chitarra di Adrian Belew chirurgica come un rasoio e un onda di percussioni afro che ti esplode tutt’intorno, e questa voce di Byrne nevrotica immediatamente inconfondibile, non bella, ma capace di incantare quando passa dal borbottio ritmico allo stendersi aperta su melodie quasi orientali intonate dalle voci di Nona Hendryx e di Brian Eno.
“Born Under Punches” è ancor più sorprendente nel suo scoprire e far scomparire (Seen and not seen appunto) come per magia diversi strati sonori che donano il movimento a ciò che pare inchiodato su un singolo accordo e un singolo pattern ritmico immutabile e quando arriva il trip corale “ …goes on and the heat goes on” vorrei che durasse all’infinito. L’uso delle voci stratificate riporta a canti ancestrali figli dell’Africa ma il linguaggio degli arrangiamenti è anni luce (…ehm) avanti rispetto al suono che ha caratterizzato gli anni settanta e che è stato la mia nave scuola fino a qui. L’incantesimo si ripete su un passo ipercinetico in “The Great Curve” in cui la scacchiera di intrecci vocali sdraiata su un ordito di percussioni ed una trama di chitarra afrofunk e bleeps sintetici, disegna un orbita di estrema attualità pronta ad accogliere lo sfregio selvaggio della Stratocaster di Belew, arma che non fa prigionieri.
Arrivato a metà sono già steso. Cosa posso attendermi ancora ?
Quando mi fermo ad ascoltare, anche oggi a quasi quarant’anni di distanza e centinaia di ascolti dopo, la costruzione del groove di “Once in a lifetime” la mia mente vacilla, stenta a credere che tre note di basso in croce ripetute una volta a salire ed una a ridiscendere siano in grado di creare un onda così efficace e inossidabile nel tempo. Centrale è il synth di Jerry Harrison che percorre tutta la durata del brano su un singolo accordo, più in vista nelle strofe, più indietro nell’inciso in modo da lasciare spazio ad un pattern di chitarra ritmica che smuove leggermente la struttura armonica rendendo il pezzo quell’incredibile momento avant pop che ha riempito dancefloor alternativi per decenni. Byrne espone con il suo timbro angosciato le nevrosi dell’ uomo moderno incastrato in una routine alienante posto di fronte all’ipotesi allo stesso tempo affascinante e annichilente di un qualche cambiamento che rivoluzioni la sua vita.
Superate le colonne d’ercole di “Once in a lifetime” il disco cambia passo, e dopo l’ipercinesi si sposta passo dopo passo verso un progressivo rallentamento.
“Houses in Motion” è un trip su un cammello nella periferia di qualche metropoli africana. Siamo sempre fermi su un singolo accordo, il loop ritmico è ipnotico, il cantato “call and response” è a tratti isterico, poco prima di scivolare nel quieto rotolare di “Seen and not Seen” che ti immerge in uno stato quasi narcotico alimentato dal parlato di Byrne e spettrali sintetizzatori.
Il passo di una carovana nel deserto è lo sfondo sonoro di “Listening wind”, costruita su due accordi e un basso ondeggiante, il lavoro sul suono a livello evocativo è stupefacente, il testo segue Mojique figura a meta tra il patriota e il terrorista nel suo percorso verso un attentato nei confronti di detentori di interessi esteri nel suo paese. La melodia del cantato nell’inciso è uno dei momenti più lirici dell’intera opera.
E’ l’ultimo step prima della catatonia di “The Overload”, il tragitto verso l’immobilità è completato. I Talking Heads suonano come i Joy Division non avendo mai ascoltato i Joy Division, “The Overload” e’ per gli entranti eighties ciò’ che “We Will fall” degli Stooges è stata per i Seventies, una marcia funebre verso l’oblio. La voce di Byrne, irriconoscibile, ci trascina in una sorta di liturgia pagana, nel cuore di tenebra di un decennio che inizia sul baratro dell’apocalisse con l’escalation militare tra Stati Uniti e Unione Sovietica che pare non arrestarsi mai.
Il tragitto dall’ipercinesi alla stasi, dal colore alla sua assenza, dal calore torrido al gelo è completo.
Restare nella luce era l’imperativo allora, e ci siamo restati dentro un po’ tutti, immersi mani e piedi per quarant’anni. Quella luce, del resto, era talmente abbagliante da riverberarsi ancora oggi sui nostri sensi in tutto il suo splendore senza aver perso con lo scorrere del tempo un minimo della propria abbacinante luminosità.

Ettore Craca

"Nel suono, nella pagina, nel viaggio, nell'amore io sono. In ogni altro luogo e tempo non sono".