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Sufjan Stevens – The Ascension (Asthmatic Kitty, 2020)

Mi sono fatto cullare da “Seven Swans”, sono rimasto a bocca spalancata davanti a “Illinois”, ho provato autentica commozione con “Carrie & Lowell”, mi sono ritrovato sorpreso ed emozionato a sentire mia figlia ascoltare ripetutamente “Visions of Gideon” e “Mistery of Love” da Call Me By Your Name,…mi sono infine sfidato per riuscire ad affrontare quel “What Now?” che chiude The Ascension la title track del nuovo album, un “e adesso ?” che si estende facilmente a tutta l’opera uscita all’inizio dell’autunno, poco prima dell’esplosione della seconda ondata di Covid, un’opera imponente, enigmatica, complessa eppure capace di accalappiarti e non farti sfuggire.
The Ascension resterà per il sottoscritto forse “il” disco che scolpisce nella pietra il mood di questo 2020, l’anno che abbiamo perduto.Sufjan Stevens
Stevens l’ha registrato durante il lockdown in perfetta solitudine con pochissimi interventi dall’esterno, è quindi un disco costruito su laptop, nulla di nuovo in quest’era. È però il linguaggio scelto a sorprendere, un linguaggio che non rinuncia ad una paletta di suoni ricca e variegata tanto più stupefacente quanto più contrastante con il lavoro di un uomo solo. Il frutto di questo lavoro richiama alla mente, per cura del dettaglio e profondità, fatte le dovute differenze di epoca e stile oltre che di tecnologia, a quello svolto in studio di registrazione con fior di musicisti a disposizione da un Brian Wilson o da un Van Dyke Parks poco più di cinquant’anni addietro.
Non è un disco perfetto The Ascension, la sua durata (un’ora e venti) è impegnativa se affrontata tutta di seguito, può risultare sfibrante se non sei nel mood e richiede ripetuti e accurati ascolti in un’epoca in cui il tempo a disposizione è spesso smarrito in decine di rivoli.
Ma Stevens fornisce delle chiavi di accesso delle quali, se ne entri in possesso, puoi fare buon uso per inoltrarti nelle labirintiche stanze di “The Ascension”.
La prima porta il titolo di “Video Game” ed è probabilmente il pezzo pop più efficace di sempre uscito dalla penna del nostro, nonché forse il pezzo pop dell’anno in ambito non mainstream. Uscito come secondo singolo durante le calure ferragostane che avevano fatto dimenticare quasi la presenza del virus, è capace di incollarsi in testa come una big babol ai denti. È il terzo brano nella scaletta del disco a seguire il sinuoso invito di “Make Me An Offer I Cannot Refuse” e l’avvolgente romanticismo di “Run Away With Me”. Una sequenza ideale per introdursi in quello che, procedendo nell’ascolto, si rivela un caleidoscopico mandala in mutamento continuo difficile da afferrare e possedere, continuamente sfuggente, a volte addirittura irritante nel suo evitare, in tutta la parte centrale del disco, le soluzioni melodiche immediate che certo non mancano nella penna di Stevens. “Lamentations” fatica a lasciare traccia contrariamente alla ricerca di rifugio contenuta in “Tell Me You Love Me” e soprattutto al mantra “Die Happy” che suona particolarmente sinistro in giorni come questi.
Il labirinto vero e proprio, quello in cui è stato difficile raccapezzarsi nonostante i ripetuti tentativi è stato il poker centrale dell’album, una sorta di viaggio sulle sabbie mobili, senza punti fermi cui la mente riuscisse ad aggrapparsi in un delirio di synth, seconde voci, terze voci, ritmiche complesse, strati spessi di suono, rumori di disturbo, cosmiche code strumentali. Venti minuti di puro labirinto sonoro.
Il filo di Arianna si rende visibile di nuovo all’improvviso quando la marziale cavalcata di “Death Star” si scioglie senza soluzione di continuità nella serenità di “Goodbye To All That”. Da lì si intravede l’uscita.
Gli ultimi venticinque minuti sono un’intensa immersione lì dove si incontrano fede e spiritualità.
“Sugar” terza uscita prima della pubblicazione, è una supplica a non fare attendere il desiderio di amore, una preghiera a donare la  dolcezza che può guarire, ed  introduce quella che, personalmente, è stata la vera chiave di accesso, nonché di volta di tutto il disco: la title track “The Ascension” un inno, allo stesso tempo sereno e solenne, costruito su una melodia sublime nel quale Sufjan si interroga in profondità  sul senso dell’esistenza e sul ruolo dell’impegno individuale in un’era come quella attuale in cui ogni riferimento sembra perduto.
È la lunga elegia di “America” a chiudere il disco, un’angosciata riflessione sul divino e su un paese spezzato in due dopo quattro anni di presidenza divisiva: “Don’t do to me what you did to America” ripete il refrain a sancire la perdita nella fiducia in una redenzione, la paura di non riuscire a trovare più un’ancora che permetta ancora di sperare in qualche forma di salvezza.
Una chiosa ansiogena, angosciante, forse un pelo paranoica, che si spegne progressivamente in una nuvola gassosa di suono che pian piano si smarrisce lasciando spossati e inquieti.
“The Ascension” sarebbe stato perfetto se privato di una mezz’ora, ma ci sono dischi in cui i picchi sono tali da far dimenticare le incertezze e i giri a vuoto e che meritano pienamente tutto l’investimento di tempo e di passione che si riesce a dar loro, dischi che segnano il momento storico in cui escono e che ci fanno riflettere su noi stessi e sulla nostra relazione con l’ambiente in cui viviamo.
The Ascension è così: un cippo a ricordo del 2020, l’anno smarrito.

Ettore Craca

"Nel suono, nella pagina, nel viaggio, nell'amore io sono. In ogni altro luogo e tempo non sono".