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John Cipollina, i Quicksilver e io. L’intervista impossibile. Pt. 1/3

Una brezza notturna squarciò la mia giacca in pelle mentre percorrevo il lungomare di Sausalito. L’appuntamento era fissato al Trident, un ristorante di lusso costruito sulle fondamenta lambite dalle acque della baia di San Francisco. Attraversando la strada a passo deciso, non notai lo spartitraffico che separava le due carreggiate, inciampai sul marciapiede e finii a gambe all’aria. Il movimento sgraziato attirò l’attenzione dei parcheggiatori che si fecero beffe di me. Spolverai i jeans, raccolsi gli appunti, le cassette e tutte le altre cianfrusaglie che mi ero portato dietro e entrai nell’atrio. Non ebbi difficoltà a riconoscerlo. Quell’espressione corrucciata, la chitarra solista dei Quicksilver Messenger Service era lì. John Cipollina inclinò all’indietro il suo viso allungato, proruppe in una tremenda risata e urlò a squarciagola: “L’unica cosa sbagliata qui, amico, è che il servizio fa schifo”.
John voleva che lo scrivessi.
Una volta lo vidi che se ne stava seduto dietro le quinte del Catalyst Club a Santa Cruz, ridacchiava insieme a Spencer Dryden. Stavo vendendo il nastro di una band che conoscevo e gliene diedi una copia. “Stai ancora spacciando quella disco music di merda?”.
Gli risposi: “Stai ancora cercando di imparare a suonare la chitarra?”.
John a volte sembrava spaventato. Non era paura, John non aveva paura di niente, era solo diffidenza. Era rattristato per il fatto che i suoi ammiratori spesso non riuscissero a capire le sue intenzioni artistiche. Dopo i concerti parlavamo di quanto fosse difficile tutto questo.
“Preferirei scambiare delle cazzo di ricette piuttosto che parlare dei Quicksilver”.
Troppe volte qualche ragazzino gli chiedeva se si ricordasse di un qualche momento o di un qualche luogo inusuale dove aveva fatto uso di droghe o scopato, e lui rispondeva sempre: “No, e sono sicuro che sia così!”.
Quando le richieste e le domande lo sovrastavano, mi chiedeva di tenerlo lontano dalla folla.
“Digli di lasciarmi in pace, di andarsene a fare in culo!”.
Troppe persone lo conoscevano, troppe possedevano un suo pezzetto che non avrebbe mai potuto ricomprare. A volte sembrava stanco di tutto questo.
“Questi vogliono vedere John Cipollina, la chitarra solista dei Quicksilver, non me!”.
Lo spettacolo è sempre stato importante, ma c’era qualcosa in più. Avrebbe voluto salire sul palco indossando un costume da clown. Una volta mi regalò un naso di gomma, rosso intenso, e mi disse di indossarlo al momento opportuno. L’altra sera ho partecipato al concerto commemorativo in suo onore al Chi-Chi Club di San Francisco.
John è morto.
So che ora è felice. Sono sicuro che ha riavuto i quindici dollari che tanti anni fa aveva prestato a Hendrix, ma sono anzitutto sicuro che vorrebbe che tutti si dessero una bella calmata; le cose non sono poi così gravi. Quindi mettetevi delle lunghe scarpe flosce e un naso rosso, amici.
Io indosserò quello che mi regalò John. Sono sicuro che vi chiederebbe la stessa cosa.

Sleepwalking in Paradise
Se la morte di un musicista è sempre un’esperienza dolorosa, che lascia un vuoto incolmabile, la scomparsa di John Cipollina, il 29 maggio del 1989, è stata una tragedia speciale. Non ha lasciato orfana soltanto una band, ma di fatto una dozzina di gruppi. E Cipollina, meglio conosciuto come il padre dei Quicksilver Messenger Service, il pioniere della chitarra che, negli anni ‘60 diede inizio al “San Francisco Sound”, non è facilmente replicabile. Con la sua perdita finisce in archivio un capitolo importante della storia del rock. Instancabile conversatore, accattivante interlocutore, è possibile ricostruirne la biografia con le sue stesse parole. Ciononostante non si riuscirà mai a trasmettere il tono acuto della sua voce, spesso interrotto da quella tosse eccessiva che si portava dietro il male oscuro che l’avrebbe ucciso. John era un personaggio molto più grande della sua vita. “Sono un introverso”, amava dire, “la parte estroversa della mia personalità è una sorta di regalia”. Una confusione che era un autoritratto straordinariamente azzeccato. Un ex agente immobiliare che adorava esibirsi su un palco. La sua casa californiana era piena zeppa di collezioni: chitarre, armi, fumetti, monete straniere, telefoni, ossa. Infatuato dell’occulto, perfetto contabile di tutti i suoi affari, poteva citarti a memoria gli anticipi ricevuti e la maggior parte dei suoi cachet, pratico al punto di progettare sistemi di amplificazione, cesellatore al punto di sagomare il calcio delle sue pistole o intarsiare i corpi delle sue chitarre. Un romantico teppista che detestava la violenza e che mangiava cinque pasti al giorno pur rimanendo dolorosamente magro.
Lui e la sorella gemella Antonia nacquero il 24 agosto 1943 a Berkeley, in California, in quella che avrebbe poi descritto come una famiglia di musicisti. Con loro un’altra sorella e un fratello, Mario, che, fino al 1995, ha suonato il basso con Huey Lewis and the News. Sua madre Evelyn era una cantante lirica, suo padrino il concertista José Iturbi. Era nato con un’asma cronica e prima di addormentarsi, doveva stare in piedi per ore, cosa che non gli impedì di diventare un fumatore accanito. Durante l’infanzia, visse a San Salvador e in Guatemala, trasferendosi poi a Mill Valley, California, all’età di sei anni. Naturalmente, il primo strumento che imparò a suonare fu il pianoforte, già all’età di due anni. Non divenne mai il nuovo José Iturbi, fin dalla prima adolescenza era attratto solo dalla chitarra. Ricordava sempre un episodio. Era in auto con la madre e sentì alla radio “Love Is Strange” di Mickey & Sylvia. “Guardai mia madre e le dissi: ‘Che diavolo è?’, ‘È una chitarra elettrica’ mi rispose”. Ne aveva già sentite di chitarre, acustiche, amplificate, ma mai una chitarra elettrica, e mai le linee delle note suonate da Mickey Baker. “Mi ci sono completamente identificato. Pensai: Dio, è davvero forte!”. In breve tempo assimilò Scotty Moore, James Burton e Link Wray, e per un po’ prese lezioni di classica. “Lo facevo uscire pazzo il mio insegnante; tutto quello che volevo fare, lui non voleva che lo facessi. Poi, dopo aver fatto un gran casino con i miei genitori, mi sono procurato la mia prima chitarra elettrica e ho abbandonato tutto il resto”. Nel 1959 formò la sua prima band, The Penetrators.
“Era più una gang di teppistelli che un vero e proprio gruppo. Facevamo rock’n’roll, all’epoca. Elvis Presley, Ray Charles, Jerry Lee Lewis e Fats Domino. Suonavamo ai balli del liceo”.
Quando gli anni ‘50 però lasciarono il posto ai primi anni ‘60, il rock’n’roll sbiadì in favore della musica folk. Stava per compiere vent’anni e suonava in un gruppo chiamato Deacons, ma non cambiò il suo stile. “La musica folk era l’hype, era cool, io rimanevo ancora un rocker”. Indossavo la mia t-shirt, portavo degli spessi occhiali scuri e suonavo la mia Danelectro. Era splendida, tutta nera, non certo un look per gli hootenanny!”. Iniziò a esibirsi in quel circuito chiamato “steak and lobster” (bistecca e aragosta). “Se c’era da improvvisare su Girl From Ipanema, lo facevo, mentre, di giorno, tentavo di diventare un agente immobiliare”. Nel frattempo, la sua sistemazione abitativa era diventata davvero insolita. “Uscivo in compagnia di questo gruppo di chitarristi di flamenco completamente pazzi. Vivevo su di un enorme battello con altre undici persone e pagavamo meno di tre dollari di affitto al mese riuscendo, comunque, a essere sempre morosi”. Quicksilver Messenger Service
Nel 1964, cominciò a incontrare altri musicisti, molti dei quali venivano dal movimento folk. Tra questi c’era Chet Powers (che cambiò presto il nome in Dino Valenti e, più tardi, in Jessy Oris Farrow), un nomade, saltimbanco e giramondo, diventato cantante folk quasi per scherzo, che aveva conquistato l’embrionale scena della West Coast con le sue leggende sul Greenwich Village e che aveva già scritto per gli Youngbloods la sua prima hit, Get Together. Valenti divenne un culto per il giovane Cipollina. E poi c’era Jim Murray, un armonicista temporaneamente prestato alla chitarra. “Jim non sapeva suonare niente all’epoca, ma non era un problema. Pensavamo che potesse fare il bassista”. La prima ispirazione, inevitabilmente, furono i Beatles, ma Valenti era un visionario, e avrebbe portato tutto a un livello superiore. “Ricordo benissimo quello che ci diceva Dino. Avremmo avuto tutti delle gran chitarre e delle vistose giacche in pelle con su dei ganci ai quali appendere gli strumenti. E avremmo avuto, di contorno, tutte queste ‘pollastrelle’, vestite da pellerossa, con i loro abitini corti e succinti che non lasciavano spazio all’immaginazione e dei tamburelli con, per battenti, delle monete d’argento”. E se ne stava lì a pensare. “Succederà tutto questo e noi ci metteremo il passato alle spalle. Saremo ormai ricchi e famosi”. Dino non solo aveva la testa piena di idee, ma era uno dei pochi musicisti ad avere un manager, Tom Donahue, che, allora, gestiva la Autumn Records e un club chiamato Mothers.
“Un giorno Dino ci disse: ‘Domani inizieremo le prove’, ma il giorno dopo, prima che suonassimo insieme una sola nota, fu arrestato a Sausalito e sbattuto al fresco. L’avevano beccato a farsi una canna con la figlia del sindaco. Beh, Jim ed io pensavamo che sarebbe uscito presto. Prima ci dissero il giorno dopo, poi due, poi una settimana, poi forse. Andò avanti per un anno e mezzo”.
Nel frattempo dormivano in cima alla collina di Tamalpais dentro una Plymouth del ‘54. Non molto tempo dopo l’arresto di Valenti, incontrarono un suo amico, David Freiberg, anche lui appena uscito di prigione e, dal momento che era un amico di Dino, lo reclutarono nel gruppo. Freiberg suonava la dodici corde e se ne andava in giro come un folksinger, ma, in realtà, voleva solo percuotere un basso, così John gliene prestò uno che teneva dentro il bagagliaio della Plymouth. Con lui arrivò Casey Sonoban al quale, presto, si unì il chitarrista Alexander “Skip” Spence e iniziarono a provare al Matrix. Il gruppo in quel periodo era formato da Jim Murray alla voce e all’armonica, David Freiberg al basso e alla voce, Casey Sonoban alla batteria, Skip Spence alla chitarra ritmica e alla voce, e John Cipollina alla chitarra solista. Ma Spence gli fu scippato dai Jefferson Airplane. Volevano eliminare il loro batterista, un mezzo poliziotto destrorso che odiava la marijuana, gli hippy e i ragazzi con i capelli lunghi.
“Marty mi diceva che questo tizio rendeva il gruppo paranoico e Marty, al Matrix, era uno dei proprietari, vide Skip e lo scelse. Più o meno nello stesso periodo nel quale Casey ci abbandonò. Casey era completamente pazzo”.
Alla fine, arruolarono dai Brogues (quelli di I Ain’t No Miracle Worker), Greg Elmore e Gary Duncan.  “Cazzo, te lo giuro, Gary era uno dei migliori chitarristi ritmici che avessi mai sentito”.

La casa galleggiante
Vivevano in un seminterrato al 52 di Water Street, un vicolo a North Beach, dove, un giorno, la Plymouth si era fermata e non era più ripartita. Avrebbero dovuto restare per una notte, ma alla fine si fermarono per quattro mesi. In strada avevano dipinto un lungo drago infuocato che si estendeva lungo tutto un muro. C’era un sacco di LSD e zero soldi.
“Devo di nuovo spiegarti come venne fuori quel nome? Jim Murray e David Freiberg lo inventarono. Freiberg ed io siamo nati lo stesso giorno, e anche Gary e Greg sono nati lo stesso giorno; eravamo tutti del segno della Vergine mentre Murray era un Gemelli. E Vergini e Gemelli sono tutti governati dal pianeta Mercurio. Quicksilver è un altro nome del mercurio e Mercurio è il messaggero degli dèi, la Vergine è la sua ancella. Così Freiberg disse: Ok, Quicksilver Messenger Service!”. Quicksilver Messenger Service
Valenti, di lì a poco, fu rilasciato dal penitenziario di Stato e così i Quicksilver Messenger Service erano finalmente pronti, ma per qualche ragione, Dino era diffidente nei confronti di Duncan e Freiberg. Pensava che volessero escluderlo dal progetto. La band si mise di nuovo in moto e il loro primo concerto fu a una festa di Natale organizzata dal Committee, il gruppo di improvvisazione teatrale di San Francisco fondato da Alan e Jessica Myerson.
“Questi ragazzi sono scesi nel nostro seminterrato chiedendoci del fumo e una versione rock’n’roll di Star Spangled Banner. Inizialmente dovevano farlo i Charlatans, ma, evidentemente, si erano tirati indietro. Pensammo: ‘Ma che diavolo ce ne frega? Non abbiamo nessuna reputazione da danneggiare, quindi lo faremo’. Andammo a registrarla e ci presero, poi ci offrirono anche duecento dollari. Prendemmo i soldi e ci trasferimmo da Water Street in una casa galleggiante a Larkspur, nella contea di Marin”.
La band ottenne il sostegno finanziario dalla direzione del Committee, che a sua volta collaborava con Bill Graham, allora parte della San Francisco Mime Troupe, e così i Quicksilver Messenger Service divennero una delle band più presenti ai primi spettacoli che Graham promosse a San Francisco nel 1966.
E in tal modo si trasferirono nella casa galleggiante e quell’inverno vissero, tutti insieme, sull’acqua. Nel barcone faceva un freddo pungente e c’era un vecchio bidone del gasolio con un buco e una sorta di tubo di scarico che usciva dalla parte superiore. Tutte le sere lo riscaldavano. Finirono per bruciare un terzo della casa nel tentativo di tenersi caldi. Cipollina si prese anche la polmonite, una parete della sua stanza aveva un enorme buco e quando arrivava la marea, l’acqua si riversava sul suo letto.
“Era piuttosto freddo vivere là, tra il fango e l’acqua, la barca veniva frustata dalla pioggia e dal vento, così bruciammo tutto quello che trovavamo, qualsiasi cosa. Ce ne siamo andati di corsa dopo aver dato fuoco alla barca di un vicino e, alla fine, anche la nostra bruciò”.
Tornarono a Mill Valley e incontrarono Ron Polte, e Ron divenne il loro manager. Prima di lui, avevano avuto a che fare con una mezza dozzina di altri manager. Il primo era stato arrestato e messo in prigione, i successivi erano due fratelli fanatici del cibo naturale che tennero a stecchetto la band per tre mesi, quello seguente era un astrologo pazzo di Chicago.
“Comunque, ora vivevamo in questa casa di tre piani nella Mill Valley, un ex manicomio in stile vittoriano o qualcosa del genere, con tanto di fantasma”.
Era il 1966, la gente da tutta l’America cominciava ad arrivare a San Francisco, e i Quicksilver divennero famosi come il gruppo che viveva a un isolato e mezzo dal deposito degli autobus nella Mill Valley. “Così le ragazze prendevano un mezzo e venivano a cercarci. Di conseguenza, i poliziotti erano sempre lì a stanare quelle minorenni”.
Verso la metà del 1966 stavano lentamente guadagnandosi una reputazione nella Bay Area; erano la prima band sulla scena e la gente li amava perché avevano vissuto in quella maledetta casa galleggiante e andavano ancora in giro con il fango sugli stivali. Follie da hippy.
Dopo qualche mese, le restrizioni della vita in città cominciarono a farsi sentire e per sfuggire alla crescente notorietà si spostarono ancora una volta verso nord, in un ranch di ottantotto acri presso Point Reyes, circa venticinque miglia a nord-ovest di San Francisco.
“Gary Duncan ed io siamo andati subito a comprare dei cappelli da cowboy; se dovevamo vivere in un ranch, lo avremmo fatto con stile. Poi ho tirato fuori la mia collezione di pistole e abbiamo portato con noi tutte queste ragazze. Avevamo una mandria di cavalli, dai quaranta ai settanta capi che scorrazzavano in giro tutto il tempo. Poi mi presi un lupo, un vero lupo dei boschi del Nord; era il più grande della cucciolata, suo padre pesava duecentoventiquattro libbre ed era lungo sette metri e mezzo”.

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Riccardo Magagna

"Credo in internet, diffido dello smartphone e della nuova destra, sono per la rivalutazione del romanticismo e dei baci appassionati e ho una grande paura dell'information overload"