FONTAINES D.C. “A Hero’s Death”
Quanto facile è partire da zero, senza gli occhi di nessuno addosso e fare la propria cosa avendo tutto il tempo necessario e poi lanciarla nel mondo e vedere che accoglienza avrà ?
Per l’artista un esordio che suscita entusiasmo è un gran propellente e allo stesso tempo una trappola dalla quale è una bella scommessa uscire.
Non fanno eccezione i Dublinesi Fontaines D.c. autori l’anno scorso di uno dei dischi dell’anno e non solo in ambito “post-punk-wave-indie-etc-etc-etc”.
Un disco, “Dogrel” che ha raccolto molto nelle scelte di fine anno delle testate di tutto il mondo.
E allora come si prosegue ? Prima di tutto…di corsa, come si conviene a tempi in cui la velocità pare essere essenziale, nonostante il rallentamento momentaneo da lockdown.
E allora per tenere alta l’attenzione, lo “schedule” ormai consolidato prevede lo sgocciolare di nuovi brani, uno al mese come anticipazione di ogni album in uscita. Un modo per prolungare l’attenzione ma allo stesso tempo un meccanismo che tende a far crescere le aspettative, portando peraltro l’audience all’espressione di giudizi in rete tanto più spesso errati quanto più sono rapidi e tranchant essendo peraltro visione solo parziale di quel complesso meccanismo che è un album.
E allora in fila: “A Heros’ Death”, “Televised Mind” e “I dont’ belong” hanno adornato le bacheche sui social creando quell’”Hype” pronto ad essere confermato o ribaltato nel giro di uno massimo/due giorni di ascolto dell’opera completa. La partita ormai si gioca così.
Quindi ? Com’è questo seguito di “Dogrel” ?
“Non appartengo a nessuno, non voglio appartenere a nessuno”. Se scegli queste parole per l’inizio del tuo atteso secondo disco è chiaro che sai cosa ti stai giocando. E sai che non vuoi restare nella casella in cui ti vogliono rinchiudere.
“I dont’ belong” e “Love is the main thing” sembrano aggrapparsi alla solidità di due valori universali: l’indipendenza e l’amore. Ma lo fanno immersi in una sorta di capsula sonora desolata e rassegnata. Quasi che siano pronunciate da qualcuno che voglia riaffermare sé stesso in un momento in cui tutto intorno a lui e’ fermo, sospeso, e arreso. Qualcosa che molti di noi hanno provato in questi mesi anomali.
La staffilata elettrica di “A televised mind” accende la miccia andando a riallacciarsi ai momenti più brillanti di “Dogrel”. Il cantato sempre volutamente mantenuto in un range melodico estremamente contenuto, quasi un tentativo di mantenersi in equilibrio su un treno che corre a perdifiato a rischio di deragliamento.
E la corsa continua, ulteriormente accelerata, in “a Lucid Dream”. I Fontaines D.c. sono nel loro elemento, chitarre immerse in una sorta di pulviscolo scintillante, ritmica rutilante, riff discendenti su cui si appoggia il canto ipnotico di Grian Chatten.
E’ nel momento centrale dell’opera, a cavallo tra il groove cantilenante di “You Said” e l’intima, nostalgica, riflessione di “Oh such a Spring” che I Fontaines mostrano di avere in faretra altre frecce capaci di arrivare e colpire in modo diverso lasciando un segno forse persino più durevole di quando si affidano ciecamente alla ortodossia figlia del punk.
E’ alla title track che i dublinesi lasciano il messaggio centrale del disco, e non potrebbe essere altrimenti. Parole intrise di quella fiducia e di quella speranza, che a leggerle non puoi fare a meno di sentire echi del Bono dei primi tre dischi degli U2:
“La vita non e’ sempre vuota
Non restare immerso nel passato, ripeti a messa le cose che preferisci, di’ a tua madre che l’ami, esci dai tuoi binari verso altri, siedi dietro una luce che si adatti a te, e guarda avanti verso un futuro più’ luminoso, non farti trascinare talmente in fondo da non poterti far recuperare, la felicita’ non ha a che fare solo con la fortuna, fa che il tuo comportamento dia espressione del tuo io interiore, e non sacrificare la tua vita per la tua salute, quando parli sia con sincerità’ e credimi, amico, tutti ti ascolteranno”.
Il modo in cui Chatten sputa fuori le parole, con il suo stile che punta alla cantilena, alla ripetizione, quasi catatonica, delle frasi chiave, è lontano anni luce dalla voce carica, quasi sovraccarica, di pathos del leader dei primi U2, ma il messaggio è chiaro ed è analogo: “In tempi incerti e grami abbi fede e speranza. Credi in te” . Qualcosa che è probabilmente insito nello spirito Dublinese forse assunto direttamente con la Guinness.
E come i ben più noti connazionali anche i Fontaines arrivano a raccontare la loro America, su un suono minaccioso, notturno, urbano, le parole sono frammentate ma ancora intrise di spirito combattivo, di una consapevolezza che se ne può uscire: “Non è necessario che tu sia nato ricco, se ci credi sei tu l’erede”.
Si attraversa con rapidità l’assalto ritmico di “I was not born” forse l’unico momento debole del disco, per raggiungere la coda dell’album, dove ancora gli irlandesi mostrano di non voler “appartenere a nessuno”
“Sunny” è tutto tranne che solare, sghemba ballata dall’andamento alcolico, una passeggiata notturna alla ricerca di un sole desiderato: “non saprei dire dov’ero prima di ora”.
A chiudere il disco è “No” e diventa davvero impossibile non sentirci un richiamo ad “All I want is You”, ma “No” brilla di luce propria. “non trastullarti con la colpa, non aiuta a lenire il dolore, e non chiuderti dentro, impara ad apprezzare il grigio”
Even though you don’t know
Even though you don’t
You feel, you feel
E che un brano che porta un titolo che è pura negazione sia invece cosi gonfio di luce è l’esemplificazione più semplice del paradosso Fontaines D.c.
Utilizzare un suono desolato, cupo, incazzato, teso, non lirico, per portare una luce accesa in un epoca che pare infilata inesorabilmente in un crepuscolo sempre più buio.
I nuovi Fontaines non hanno perso un’oncia di quanto affermato con vigore in “Dogrel”, hanno anzi socchiuso nuove porte che, se ne avranno la forza ed il carattere, potrebbero portarli a lasciare un segno forte sul futuro di questa musica con le chitarre, così incapace da tempo di ritrovare senso e direzione, in cui ci ostiniamo a credere.