Live Reports

“Boia, che brutte facce qui stasera!” – Giorgio Canali e il suo “RossoSolo” all’Hiroshima

Bisogna ripartire, sempre e comunque, dopo una gravosa complessa e durissima battuta d’arresto. Non è importante come, se con più o meno slancio, ad alta o bassa velocità, con poco o con tanto ardore. Rimettersi in moto è essenziale, per dimostrare – soprattutto a se stessi – che gli eventi potranno anche remare contro, o porre immensi ostacoli davanti ai piedi frenandone il moto, ma senza mai riuscire a togliere la voglia di camminare, correre, sentire il vento tra i capelli e sul viso. Minacciava pioggia all’Hiroshima, e nell’hinterland torinese già qualche acquazzone faceva la sua beffarda comparsa, spargendo acqua e ulteriore umidità sulla pelle e nelle ossa degli ancora copiosi cittadini rimasti fermi nelle proprie case. Ma è stato chiaro da subito che nemmeno quella minaccia avrebbe dissuaso Fabrizio e gli amici dello storico locale della capitale sabauda dal continuare a muovere nuovi passi nel territorio salvifico e refrigerante della musica live. “Tirare a campare fino al vaccino, rimanendo chiusi ci relegherà ad una giusta irrilevanza, e non possiamo davvero dire di credere nel nostro lavoro se poi ci trinceriamo ogni giorno dietro il rischio d’impresa, alle probabilità e agli imprevisti” aveva energicamente e intelligentemente detto lo stesso patron del circolo poche settimane fa, il giorno del lancio del programma della stagione estiva 2020 dell’Hiroshima Sound Garden, studiata con coraggio, passione e impegno in dosi considerevoli, ma ordinarie nel cuore di chi ha sempre creduto nella musica e nella filosofia dell’andare sempre in direzione ostinata e contraria. Giorgio Canali
Cosi che, quando ho saputo che ci sarebbe di nuovo stato movimento in quei recinti metropolitani di Via Bossoli – dove si è fatta così tante volte la storia della musica – non so perché ma mi è sembrata quasi scontata l’adesione al progetto da parte di Giorgio Canali, “L’ultimo vero rocker italiano” come da molti del settore (e quasi tutti i suoi fan) viene considerato il “rosso” chitarrista e autore romagnolo originario di Predappio: città che – soprattutto di questi tempi – val la pena di ricordare davvero proprio solo perché ha dato i natali a lui, e non più a qualche altra personalità del tutto trascurabile del passato. Al termine del set di una Maria Messina ironicissima e piacevole scoperta musicale che varrà davvero la pena approfondire, Canali te lo ritrovi immediatamente sul palco subito preso a sistemare pedaliera e accordatura della sua chitarra, mentre il vento scompiglia mascherine e capigliature, e i lampi illuminano il retro del palco in preoccupante vicinanza. “Mai salire sul palco con una chitarra blu elettrico”, ripete all’inizio, in un mantra che è anche una danza dell’anti-pioggia, dietro a quel sorriso sarcastico e sornione che lascia quasi l’impressione di riuscire a proteggerci tutti, e non solo dalla minaccia della tempesta incombe all’orizzonte. “Mai salire sul palco con una chitarra blu elettrico, dico davvero… vabbè, disse quello con la chitarra coi brillantini sul palco!”. E con quella chitarra luccicante , immerso nel suo spettacolo “rossosolo”, attacca con “M.me et Mr. Curie” e i suoi “orsi che ballano sul fuoco”. Ci si immerge volentieri nelle sue note un po’ ruvide e un po’ tanto amaramente coinvolgenti: ma di quella amarezza che cura, che ravvicina, che ti fa sentire un bel po’ meno solo, perché senti che ti affratella ai presenti e a lui. Un veloce stacco, un “come state?” lanciato lì a trascinarti ancora un po’ verso di lui, e parte “Piove, finalmente piove”, dedicata anche un po’ a quella cazzo di pioggia che incombe ma, soprattutto, che finalmente se cade dove davvero dovrebbe cadere, allora si “fanculo alle mie scarpe nuove”. Combatte un po’ contro l’incordatura della chitarra, in una piccola lezione tecnico-musicale di un chitarrista che ha, dietro di sé, 40 anni di militanza e di carriera su palchi d’ogni tipo: che “le corde si scordano, con la temperatura che cambia anche di poco, fanno il cazzo che vogliono, come fa il vento e un po’ come fa l’amore”. È il Canali che conosci, che non hai avuto bisogno di impegnarti ad amare nel tempo visto che ascolti lui e la sua musica da quando avevi 14 anni e i CCCP furoreggiavano in lungo e in largo per l’Italia del punk, e poi ancora quando a 20 i C.S.I. insegnavano a tutti come si potesse fare un fantastico album rock da classifica senza snaturare sé stessi e la propria musica. È il Canali che porta in sé quella carezza graffiante e sincera della vita vera, e quella agrodolce filosofia del “fatevi anche un po’ fottere”, marchio di fabbrica che anche durante la sera non evita di lesinare, ma che è il classico abbraccio di chi sa che piangersi addosso non serve a un cazzo.
Giorgio CanaliCosì porta sul palco sé, la sua ironia, e una musica che – con canzoni come “Nuvole senza Messico“, e poi “Undici” ( “Un’altra canzone di merda, ma in Sol”) , e ancora “Messaggi a nessuno” e “Fuochi supplementari” – arriva sempre dove deve. “Se non brucia, non cura” diceva spesso mia nonna pugliese quando ero piccolo, e sulle mie ginocchia e sui gomiti erano parecchie di più le sbucciature che non le righe dell’età: è così che arriva “1, 2, 3, 1000 Vietnam”, nella versione francese, che diventa anche una lente d’ingrandimento per valutare anche i nostri giorni, e le nostre battaglie di “libertà”. Poi il tempo inizia ad incombere: ma non quello atmosferico, che si è ormai capito che non avrà il coraggio di venire a rompere la festa. E’ l’orario, quello della vicina “rompicoglioni” che sbraita per il rumore, e a cui a gran voce richiesta dal pubblico finiamo per dedicare “Precipito” (“guarda caso già in scaletta, che in vita mia non ho mai fatto il juke box!”) e quei suoi versi così fieramente catastrofici e auto catartici, anche qui lo specchio di una modernità sempre sotto i riflettori di videocamere e social. E poi tutti ancora a cantare a mezza voce – e urlata dentro – le parole di “Lazlo”, quelle frasi che ci apparterranno sempre rivolte più a noi stessi che non agli altri:

“e a chi voleva la libertà
cosa gli diciamo?
Ai compagni morti per niente
cosa raccontiamo?
Che un pelato appeso a testa in giù
poteva bastarci.
Caro Valerio,
non dovevamo fermarci!”

E pure se non hai mai bestemmiato in vita tua, sai che questa volta puoi, perché ci sta. Che si vadano tutti a far fottere, su quel “non dovevamo fermarci!”. E pure te Giorgio, fatti fottere. Anzi no, te un bel po’ di più.

Stefano Carsen

"Sentimentalmente legato al rock, nasco musicalmente e morirò solo dopo parecchi "encore". Dal prog rock all'alternative via grunge, ogni sfumatura è la mia".