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Blur – Tu vuò fà l’americano

Per gli amanti della musica anni ‘90 non c’è niente di più English del nome Blur. Anche più del nome Oasis. Si sa, i pregiudizi sono gli ultimi a morire e ci piace molto di più pensare alla patria della Regina Elisabetta come la terra di sofisticasti e intellettuali ragazzi borghesi il cui leader è bellissimo, biondo e con gli occhi azzurri piuttosto che dei rozzi proletari scappati da una qualche catena di montaggio di una qualche fabbrica di Manchester. L’inizio di carriera dei Blur (gli intellettuali) effettivamente è British che più British non si può. Si parte da una costola del morente (sigh!) Shoegaze, ovvero una specie di seconda ondata del Madchester sound con “Leisure”; si prosegue con uno dei primissimi album del cosiddetto Britpop con “Modern Life is Rubbish” sino a consacrare la britannicità più totale con “Parklife”, il loro primo vero capolavoro. Per far capire quanto fosse Inglese quest’album basta pensare al fatto che Damon Albarn avrebbe preferito che fosse venduto nei negozi accanto alle cassette dei Monty Python e non nelle sezioni dedicate ai dischi, ad evidenziare la loro più completa devozione al famoso humor nero d’oltremanica.
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La lotta mediatica, fondata dai giornali inglesi, con gli pseudo-rivali Oasis è più accesa che mai e forse proprio in questa fase raggiunge il suo culmine. Ma gli intellettuali, si sa, sono strani e sempre controcorrente. Graham Coxon, chitarrista e vero motore musicale del gruppo, ascolta sempre di più musica MADE IN U.S.A., il più grande bacino di musica Indie Rock ad oggi ancora esistente: Sonic Youth, Yo la Tengo, Pavement…e decide di virare il timone verso altri lidi, molto più simili ai suoi ascolti quotidiani. Dopo l’ennesimo successo avvenuto con “The great escape”, arriva la svolta dell’album arancione con una barella sfocata in copertina. Il risultato è eccellente ed è quanto più diverso dal Principe Carlo si possa immaginare. Non a caso l’album riporta come titolo il nome della band: “Blur”, come un nuovo inizio. Un invito a giocare con le loro regole, prendere o lasciare.
L’all-in è completo: la dedica alle droghe di “Beetlebum” apre le danze, seguita dai 2 minuti e 2 secondi più famosi della storia, quella “Song 2” che ha sin da subito accompagnato le partite di calcio alla PlayStation di tutti noi, sino a proseguire tra le chitarre distorte e i ritmi forsennati di “M.O.R.”, la dichiarazione d’intenti di “Look inside America” o le follie proto-post rock di “Essex Dogs”.
La trasformazione era avvenuta, ma il successo proseguiva di pari passo. L’eroina nelle vene di Albarn e l’alcool nella gola di Coxon anche, ma questa è un’altra storia. Cos’altro fare per cercare di rovinare le cose? Pur provandole tutte non ci si riesce. La buona stella e il trifoglio di Gastone continuano a vegliare sulla loro scintillante carriera. Sempre più decisi a seguire la loro strada, i Blur hanno voglia di osare sempre più, di estremizzare. I rivoli e merletti della britannicità sono un lontano e sbiadito ricordo: con “13” il sogno indie rock americano dei 4 ragazzi di Londra viene completato.
Diventano, a tutti gli effetti, loro stessi dei punti di riferimento oltreoceano. La lunga dolce cavalcata di “Tender”, i meravigliosi zig-zag sonori di “Coffe & Tv”, per non parlare dell’iconico e geniale video, le guerre cosmiche e strumentali di “Battle” (pezzo insuperabile della loro discografia) e la ballata sghenga di “No distance left to run” sono contornate da avanguardismi di vario tipo che fanno da collante del disco, a volte riusciti, a volte no, a volte addirittura troppo ingombranti ma sempre liberi, sempre coerenti con la voglia del gruppo di sperimentare, di tracciare nuovi solchi sonori con l’obiettivo di scardinare le idee pre-costituite, sempre con il nume tutelare dei “Pavement” a proteggerli, a sinistra del loro planisfero.

Andrea Castelli

“All I want in life is a little bit of love to take the pain away, getting strong today, a giant step each day” (“Ladies and Gentlemen we’re floating in space” - Spiritualized)