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Arthur Lee – All You Need is Love

Arthur Lee evoca il mito. Il leader dei Love, il creatore di “Forever Changes”, carismatico, irascibile, del quale si raccontavano storie che sgorgavano dalla strada, spettrali e strane come leggende metropolitane, in gran parte dimenticate. Come quando i Rolling Stones, durante un tour negli Stati Uniti al Brave New World di Los Angeles, rimangono così colpiti nel vederlo torturare per mezz’ora “Smokestack Lightning” di Howlin’ Wolf, che corrono a casa a comporre “Goin’ Home”. O quando in un parco, un barbone si avvicina a un tizio che sta suonando la chitarra seduto su una panchina, il barbone tossisce, parla a vanvera, dice che anche lui ha suonato per un po’.
E, dopo che il tizio si è allontanato ed è scomparso in fondo alla strada, si capisce che era Arthur Lee. Oppure quando, una sera sul palco, suonando “Revelation”, afferra una pistola e si fa saltare le cervella tra un crescendo di accordi. O ancora quella di come uccide il suo roadie, impiccandolo. Un’altra la raccontava Bruce Botnick, che contribuì a registrare due dei primi album dei Love: “Stavo andando al Whisky A Go Go. Erano gli anni ’80”, ricorda, seduto nella sua casa a Pacific Palisades, “e questo pezzente mi ferma, mi spaventa a morte e mi dice: “Ehi, amico, hai dei soldi?” “Era ovviamente strafatto”. Solo dopo Botnick capì chi fosse. “Era Arthur, e nemmeno mi aveva riconosciuto. Mi aveva fatto sentire malissimo”. Alla fine degli anni ’60, la storia andò avanti, e Lee interpretò la sua struggente epopea rock.Una parola di quattro lettere, semplice, preceduta da nessun altro elemento, lì ha avuto origine la storia che circondava i Love. I Love erano una band con la quale i giovani di Los Angeles vollero, fin da subito, identificarsi. Le performance incendiarie sulle tavole del Bido Lito o del Whisky A Go Go, dove si esibivano in una manciata di canzoni originali o in versioni completamente rielaborate di successi come “Hey Joe”. Jim Morrison avrebbe accettato volentieri di tosare la sua bella criniera, di rinunciare al bourbon e alle ragazze, per suonare in un gruppo del genere. Ironia della sorte, proprio i Doors li avrebbero arrostiti sull’ultimo gradino che conduce ai cancelli dell’Olimpo.
Nei trent’anni trascorsi dal debutto, Lee è diventato l’enigmatico eroe underground, le cui crisi di anonimato, di dipendenza e di problemi con la legge, non hanno fatto altro che amplificare il racconto del suo genio. L’Enciclopedia del Rock & Roll di Rolling Stone definisce Lee “the missing link” tra i Byrds, i Beach Boys e i Doors. Ma, mentre i Byrds e i primi Beach Boys catturavano la solarità del sogno californiano, e i Doors strisciavano a terra per scavare il loro ventre oscuro, i Love furono la band che meglio rappresentò, nella musica e nella vita, le dicotomie, la spaccatura psichica, il sole e il nero, di Los Angeles. Una storia che tocca altezze da capogiro e la spenta dissipazione della sua città. Lee cambiò la musica. I Love furono il primo gruppo rock ingaggiato da Jac Holzman per l’Elektra, furono il primo gruppo rock interrazziale.  Musicalmente, nelle canzoni si combinava tutto, dal garage-punk al soul, dal rock psichedelico alla musica mariachi. Lee ha avuto una forte influenza su tanti, tutti, dai Ramones ai Blondie, dagli Echo & the Bunnymen agli Yo La Tengo. Ma, se l’influenza della band è universalmente riconosciuta, i suoi membri sembrano maledetti. Lui è rimasto chiuso in una cella della Pleasant Valley State Prison a Coalinga, California, facendosi 12 anni per aver sparato in aria con una pistola. Il resto della band non se l’è cavata molto meglio. Il chitarrista Bryan MacLean e il bassista Ken Forssi sono morti. Tjay Cantrelli, vero nome John Barberi, flautista e sassofonista, si presume morto, anche se nessuno, in realtà, ne ha certezza. Il batterista Michael Stuart è diventato un fotografo professionista, ma ha cambiato nome per non essere rintracciato. Il batterista-tastierista Alban “Snoopy” Pfisterer è un incallito giramondo. E Johnny Echols ha camminato per anni nel deserto.  Oggi è tornato a suonare. Una cosa è certa: nessuno vuole parlare della vecchia band.
Per quanto Arthur sia stato un incoerente”, dice Harold Bronson co-fondatore della Rhino, “era molto più sincero di chiunque altro, ha continuato a suonare, fino alla sua morte, cogliendo ogni piccola ondata di fama e cercando di cavalcarla, finendo, inevitabilmente, in qualche guaio”. Autodistruttivo, perennemente disconnesso. Bronson ricorda che quando lo incontrò, l’eroe della sua adolescenza, rimase sorpreso dalla sua personalità. “È stato difficile conciliare nella mia mente il fatto che colui che aveva scritto quei testi sorprendenti, fosse la stessa persona che avevo davanti e mi parlava”. “Tutte queste storie sono così ridicole”, affermava Lee dalla prigione, concedendo la sua prima intervista dopo l’incarcerazione. “Ma quando smettono di parlare di te, è allora che ti trovi nei guai. Ecco perché devo uscire di qui. Devo iniziare a creane altre”.In molti descrissero le sue due facce, l’incantatore e il mascalzone. Ha scritto canzoni d’amore incredibilmente sensibili, l’ossessiva “A Message to Pretty”, eppure finì per maltrattare fisicamente le sue donne. Minò, ripetutamente, le sue possibilità di fare soldi mettendo a dura prova la pazienza delle persone che cercarono di aiutarlo. Durante il suo processo, quando avrebbe avuto bisogno della stampa probabilmente più che in qualsiasi altro momento della sua vita, evitò tutti – dal Los Angeles Times a Rolling Stone. Poteva essere il tuo migliore amico, ma se lo attaccavi, diventava il tuo peggior nemico.
Era nato a Memphis, Tennessee, il 7 marzo del 1945. Suo padre era stato un musicista, ma Arthur lo vide raramente. Lui e sua madre, una maestra, si trasferirono a Los Angeles quando aveva appena cinque anni. Alla South Los Angeles Dorsey High, divenne una celebrità del basket, suonava già l’organo, l’armonica (era un pessimo armonicista), la batteria e le percussioni. Lasciò la scuola a 17 anni per dedicarsi alla musica. Si dice che aver visto, una sera, Johnny “Guitar” Watson nella sua Cadillac dorata, circondato da guardie del corpo, gli avesse cambiato la vita. Da ragazzo, poco più che adolescente, era già una star, pantaloni a zampa di elefante, bello come il sole, nerissimo; un uomo che catturava anche fisicamente tutte le caleidoscopiche possibilità dell’epoca. “È difficile comprendere quale sia stato l’effetto che conseguì quando, per la prima volta, camminò per il Sunset Strip, nel 1966”, scrive Barney Hoskyns nel suo libro, “Waiting for the Sun”, “Arthur was at the centre of it all, a black freak on the white scene, a ghetto punk in beads”.
Robert Rozelle, membro di Love negli anni ’70, ricorda il suo primo incontro con Lee al Bido Lito, appena fuori l’Hollywood Boulevard. “I fan si mettevano in fila intorno all’isolato per vedere il gruppo. Entra questo ragazzo con degli occhiali a goccia a guisa di lampadario; una lente era rossa e una blu, come in un prisma. Santo cielo, non ho mai visto niente di simile. Un fenomeno da baraccone, pensai. Poi iniziarono a suonare. Non avevo mai sentito niente del genere in vita mia”.
Aveva già suonato in altri gruppi, Arthur Lee & The L.A.G.’s con Johnny Echols, prima di incontrare il roadie dei Byrds, Bryan MacLean, il bassista, ed ex Surfaris, Ken Forssi, e il batterista Don Conka. Conka fu presto sostituito da Alban “Snoopy” Pfisterer, si chiamavano Grassroots , ma il nome della band fu cambiato subito in Love. Quando la band si formò nel 1965, Los Angeles era inondata dalle divise dei Beach Boys, pulite e a righe orizzontali, color Oxford, la versione “cars and surf” del divertimento pop del sud della California: “Fun, Fun, Fun”. In netto contrasto, Lee stava già coltivando il suo personaggio: in parte sonico viaggiatore spaziale, in parte solitario e recluso dentro un profondo canyon di disperazione. Il marchio della controcultura stava cominciando a diffondersi. Era un periodo innocente, ma la musica cominciava a diventare più inquietante e provocatoria. Sempre di più. L’industria discografica si stava trasferendo in città, prima Los Angeles non era conosciuta come un luogo che ospitasse le più pure, o intellettualmente più utopiche, intenzioni e anche quel breve periodo di innocenza fu sempre sospeso, precariamente,  sul filo di una esperienza. Sebbene la cultura hippie si sviluppasse attraverso la sua musica, l’elemento che oggi rende la canzone d’autore di Lee potente e rivelatrice è il suo lato oscuro, persino sinistro. “Non sono mai stato un tipo da “I love you, I want you, I need you”, ero separato dai figli dei fiori che stavano solo a grugnire e tubare”.
Descriveva cose minacciose”, ricorda lo scrittore Harvey Kubernik. “Stavamo uscendo dalla Summer of Love, e lui cantava “Bummer in the Summer”. “In the middle of the summer I had a job bein’ a plumber/Just to pass till the fall it was you I wanna ball all day/Ah-we were walkin’ along, honey, hand in hand/I’m a-thinkin’ of you, mama, when you’re thinkin’ of another man/But you can go ahead if you want to/Cause I ain’t got no papers on you”. Parlava di tensioni razziali, di contrasti sociali. Era quasi come se potesse vedere l’altro lato di quella accecante libertà. Parlava di queste cose mentre quei fili venivano spezzati. Stava dando a tutti un dolce frullato di realtà. Ed è per questo che la sua musica regge ancora oggi.
I Love sedussero Jac Holzman quando girava per i club, perlustrando la fiorente scena per la sua etichetta, l’Elektra. Nel suo libro “Follow the Music”, descrive ciò che intuì al Bido Lito la prima volta che li vide suonare. “Era uno scenario da Inferno dantesco”, ricorda Holzman. “Corpi che si schiacciavano l’uno contro l’altro, ragazze dai capelli biondi stirati, vestite di seta, che si muovevano seminude in danze fortemente sessuali. Stavano distruggendo “Hey Joe” e “My Little Red Book”. Ma quella era la “My Little Red Book” di Burt Bacharach e Hal David, quella del film di Woody Allen “What’s New, Pussycat?”. Un calcio dritto nello stomaco. Qui c’erano Arthur Lee e suoi Love che ci davano dentro con un’intensità da maniaci. Cinque ragazzi di tutti i colori: il nero, il bianco e lo psichedelico. Il mio cuore saltò per aria”.
Lee aveva preso spunto dai Byrds e dalla british invasion, il britpop dei Manfred Mann e i Kinks e lo sfacciato blues degli Stones. Ma si era spinto ancora più in là, nella terra di nessuno, forgiando una nuova psichedelia. Scabrosa. Si era tuffato nella spacconeria di Elvis Presley, nelle appariscenti chitarre della surf music, nelle “note blue” del jazz, nel folk di Dylan, nell’anima sensuale di Jackie Wilson, Johnny Mathis e Nat King Cole, i cantanti della sua gioventù. Il tutto unito all’amore infantile di Bryan MacLean per i musical, un bizzarro compendio di musica americana, dalle cigolanti verande del sud degli Stati Uniti fino alla raffinata Broadway. Questo fu ciò che Jac Holzman vide. E se ne innamorò immediatamente.
Quella sera stessa offrì alla band un contratto. E il gruppo firmò. L’omonimo debutto fu registrato in soli quattro giorni, tra il 24 e il 27 gennaio del 1966. La band, all’epoca, viveva in una casa appartenuta, nel passato, a Bela Lugosi, prontamente soprannominata “The Castle”, o detta anche Talmadge House, al 4320 di Cedarhurst Circle. La dinamica compositiva del gruppo era attentamente definita, con Arthur Lee genio creativo e tiranno feudale. Quando gli venne chiesto il ruolo degli altri nel gruppo Bruce Botnick, senza un attimo di esitazione, disse “Sidemen. C’era solo Arthur. Non erano una democrazia”.“Love” non è di certo un album innovativo o sorprendente, ma il mix di influenze è perfettamente chiaro. Ritmo e energia. Leggendo le note di copertina di “Love Story” il boxset della Rhino, gli stessi Love definirono metà delle canzoni come “filler”. La prima side è impeccabile. “My Little Red Book”, la cover di Bacharach/David, viene sottoposta a un nuovo trattamento di bellezza. Ne esce nervosa e scattante. “Can’t Explain” si apre con un riff alla Byrds, mentre la ritmica è più blues e la voce si colloca direttamente tra Jagger e McGuinn. Il sound dei primi album dei Byrds era molto amato da Lee e compagni, risentirlo su “My Little Red Book” e “Can’t Explain” funzionava. L’apertura di “A Message To Pretty” è stupenda, la voce è, di nuovo, colma di accenti alla McGuinn, “Softly To Me” è scritta da Bryan MacLean che, da ex roadie dei Byrds, condivide gli elementi che permeavano “Fifth Dimension”. “I could love you more and more each day for a million years/And I’d sit around all day just crying happy tears” canta Lee. “My Flash On You” è un “anthem” garage, recuperata negli anni da Fuzztones, dagli australiani Lime Spiders e dai londinesi Sting-Rays. “People talk about the way I look/I say come on and say it, I got enough to write a book”. “No Matter What You Do”, ”Emotions” e “You I’ll Be Following” ritornano nel solco del folk-rock. La versione di “Hey Joe” arriva qualche settimana dopo quella dei Leaves, più o meno in linea con Byrds e Standells. Presenta un testo leggermente diverso, la frase “gun in your hand” qui diventa “money in your hand”. “Signed D.C.” è il capolavoro del disco. Roba agghiacciante e meravigliosamente inquietante, il testo è, in pratica, una lettera, descrive la dipendenza e la solitudine al cospetto della droga. D.C. sta per Don Conka, il batterista originale, sostituito prima delle registrazioni per i suoi problemi con eroina e LSD. Non si poteva contare su D.C. per prove e concerti. Era sempre in ritardo o non si presentava proprio, era costantemente sballato. “Signed D.C.” fu scritta come se fosse stato un messaggio d’addio dopo l’ultima overdose. I lamenti lugubri di Lee sull’armonica aggiungono enfasi, un crossover drammatico con note dritte su registri alti “Sometimes I feel so lonely/My comedown I’m scared to face/I’ve pierced my skin again, Lord/No one cares/For me”.
Quando l’Elektra cercò di convincerli ad andare in tour, si rifiutarono di lasciare la California. Nel 1967 c’era un sacco di musica in giro. Tantissima nella Sunset Strip. Arthur Lee stesso aveva consigliato a Jac Holzman di andare a sentire i Doors dal vivo, covandosi in seno quella lucertola, Jim Morrison, che, nel giro di pochi mesi, gli rubò la ragazza, Pamela Courson, e il ruolo di star negli uffici dell’Elektra. Di fronte alla congestione causata dall’arrivo di nuove band, Arthur Lee optò, sempre, per strade secondarie. Non solo astenendosi dai tour, ma rinunciando a partecipare al Monterey Pop Festival, citando oscure divergenze di opinione con l’organizzatore Lou Adler, e alienandosi, così, una delle figure più potenti del rock business.
Il secondo album della band, “Da Capo” (registrato tra il 27 settembre e il 2 ottobre del 1966), galleggia dai solchi viscerali del primo disco verso la stratosfera. È molto più psichedelico, jazzistico e liricamente folle: “If I don’t start crying it’s because I’ve got no eyes” canta Lee in “7 and 7 Is”. Ma, non fu solo un provocatorio riscaldamento per il capolavoro che seguirà. Fortemente segnato dai Beatles, oltre che dagli spartiti di Gil Evans per “Sketches of Spain” di Miles Davis, si assunse il rischio di ritirare la band dalla competizione acid-rock.Dall’apertura di “Stephanie Knows Who”, è tutto scintillante di clavicembalo, cambiamenti nervosi e frenetici, con Arthur Lee che urla in maniera ossessiva. I passaggi, i salti nelle dinamiche, l’assolo di sax di Tjay Cantrelli nel mezzo, le chitarre dissonanti alla fine. È un gioiello. Ricordo di averla ascoltata tre o quattro volte di fila, prima del resto dell’album, sempre più forte ogni volta, cercando di capire cosa fosse. Era come un’esplosione di colori, un rumore che non riuscivo a identificare, e sembrava il suono della mia mente che si apriva e si dipingeva di colori primari. Il tutto in tre minuti e mezzo. Mi piaceva la follia di tutto questo, l’urgenza, e il suono libero dalle regole che veniva gettato fuori dalla finestra. “What’s in your life, dear Stephanie/What’s in your life for me/Aches and pains they cloud your sight/But tired you did you said you did/What can I say, dear Stephanie/Who shal I next inform/Of love and poetry that you bring/Your eyes, your hair, your everything/Yeah!”. Il brano successivo “Orange Skies”, è una delle più belle canzoni d’amore mai registrate, qui c’è tutta la scrittura di Bryan MacLean nel suo modo più dolce, puro, vitale. Il flauto che danza attraverso la sezione ritmica e la voce morbida e calda di Arthur sono una gioia assoluta da sentire. “Orange skies/Carnivals and cotton candy and you/And I love you too, you know I do”. “¡Que Vida!”, è tutto un sole inebriante tornito di atmosfere spagnole, un flauto, un vorticoso Hammond suonano come in una bossanova (di nuovo Bacharach?). La voce di Lee ricalca quella di Johnny Mathis e il testo, che tratta di temi come morte e reincarnazione, è costruito su paranoiche filastrocche in “-ing” che suonano come un incantesimo “With pictures and words/Is this communicating?/The sounds that I’ve heard/The growling voice then fading/And yes my heart was beating/Or was it just repeating”. “7 And 7 Is” esplode, energica ed essenziale. È tutta vocalizzi urlati, accordi che si infrangono, suoni di basso distorti e una traccia di batteria di Pfisterer quasi impossibile da seguire. Registrata qualche mese prima del resto dell’album, vive di racconti leggendari quanto la canzone stessa, la droga che alimentava il caos era all’ordine del giorno. Cominciavano a formarsi delle crepe, comparivano ostacoli inamovibili, il malumore e la diffidenza dominavano il momento. “If I don’t start crying it’s because I’ve got no eyes/My father’s in the fireplace and my dog lies hypnotized/Through a crack of light I was unable to find my way/Trapped inside a night but I’m a day and I go/Oop-ip-ip oop-ip-ip/Yeah/1,2,3,4!”. Esattamente quell’angoscia che traspare fino al momento nel quale esplode un’atomica prima di un finale rilassato. La pura energia e la furia di questa canzone ancora sbalordiscono, è davvero qualcos’altro, un altro livello di grandezza nel rock and roll. Un intricato e barocco fingerpicking è l’inizio di “The Castle” che chiude il lato, l’arrangiamento per clavicembalo ispirato a Bach, crea un’atmosfera grandiosa e celebrativa. Il testo vive di autentica semplicità, bellezza, armonia. “Can my love be a love so hard to choose/If that were in my mind, it I would use”. Il ritmo cambia, gli spostamenti dal classico al flamenco aggiungono profondità e ampiezza. Come detto “The Castle” era il nome della villa che la band condivise per un paio di anni. Quando soldi e droga attraversarono quei cancelli, la loro unione fuggì dal retro. Nel documentario “Love Story”, Arthur visita il luogo in uno stato di completa alterazione, cercando, invano, di ricordare quei giorni. Il primo lato di “Da Capo” si conclude con l’incantevole “She Comes In Colors”, che è una delle più belle canzoni di Lee. È poesia, strana e sognante, che Echols ricorda difficile da registrare a causa dei continui cambi di accordi. Ancora una volta, flauto e clavicembalo si uniscono per dare alla canzone quell’atmosfera ultraterrena, e per sollevarla attraverso i cambiamenti dinamici dei quali parla Echols. Apparentemente è dedicata a Annette Ferrell, amica di Lee e groupie dei Love. Echols ricorda che la canzone “parlava di quella ragazza di nome Annette che a tutti i loro concerti si presentava vestita da zingara”: “A thought in my head, I think/Of something to do/Expressions tell everything/I see one on you/Whoa-oh-oh-oh, my love she comes in colors/You can tell her from the clothes she wears/When I was invisible/I needed no light/You saw right through me, you said/Was I out of sight?”.Il secondo lato di “Da Capo” è composto da una singola canzone “Revelation”. Poco meno di 19 minuti, poco più di “Sad Eyed Lady of the Lowlands” di Bob Dylan. C’è un’introduzione al clavicembalo, poi si cade in un groove blues. Manca di una vera e propria struttura, è una lunga jam disorganizzata e, a tratti, indulgente, destinata soprattutto alle esibizioni live.

Ecco “Forever Changes” (registrato tra il 9 giugno e il 25 settembre del 1967), uno dei migliori dischi mai realizzati, la cui esistenza, oggi, suona ancora, miracolosa. Verso la fine del 1966, gli effetti di soldi, groupie, droga e divertimenti cominciarono a risucchiare la vita della band. Quando iniziarono le registrazioni, erano già un relitto, strafatti, sia emotivamente che fisicamente, dilaniati da presagi di morte imminente. “Pensavo potessero essere le mie ultime parole”, ricordava Lee. “Mi stavano cadendo tutte addosso”. Harold Bronson pensa che proprio la sensazione di essere appeso a un filo avesse alimentato le intuizioni contorte e profonde del disco. Ricorda Botnick, che lo ha co-prodotto: “Questa è una delle ragioni per cui suona così spettacolare. Arthur parlava di cose alle quali la gente non aveva mai pensato. Verso la fine andavamo in studio e non riuscivano più a suonare. Bryan, Snoopy e tutti gli altri stavano seduti su un divano a piangere a dirotto. L’album è stato completato solo grazie a Carol Kaye, Don Randi, Hal Blaine della Wrecking Crew. Poco dopo il lancio del disco, Lee sciolse la band”. Immaginate Arthur Lee come un Brian Wilson meno privilegiato: un artista di grandissimo talento, vittima della droga, senza i soldi e senza il Dottor Landy. Wilson era l’introspettivo, la vittima ferita degli anni ’60; Lee, no, per lui parlavano i rapporti della polizia.
Sentiva che non avrebbe dovuto cercare di produrre un “Da Capo-bis”, perché probabilmente voleva superare la sterile competizione interna tra Love e Doors. In origine, Neil Young doveva occuparsi della produzione del disco. Le canzoni erano pronte, il via libera era stato dato da Young stesso, ma si ritirò all’ultimo momento, preferendo dedicarsi ai Buffalo Springfield. Lee in seguito, in un consueto scoppio di orgoglio, avrebbe spesso sostenuto di aver lui stesso licenziato Young. Se non sappiamo come sarebbe stato l’album sotto la direzione del canadese, è chiaro che il risultato sarebbe stato completamente diverso. Sappiamo che Lee non desiderava più sentir parlare di orchestrazioni. Bruce Botnick e lo stesso Jac Holzman avrebbero insistito, fino a convincerlo ad assumere l’arrangiatore David Angel. Consapevolmente o meno, Lee accettò di andare ancora più lontano di quanto avesse originariamente immaginato nella sua rivoluzione personale. I suoi testi onirici, pieni di allusioni, avrebbero impedito ai Love di penetrare nei gusti del pubblico a qualunque costo. L’altro artigiano del suono era Bryan MacLean, eterno secondo di Lee: secondo chitarrista, secondo cantante, secondo compositore. Già responsabile di “Orange Skies”, su “Da Capo”, è lui che compone “Alone Again Or” e specialmente “Old Man”, la cui linea melodica si ispira al tema de “Il tenente Kijé” di Sergej Prokofiev. Dobbiamo quindi a MacLean una parte troppo spesso dimenticata nella composizione coreografica che archi, cori e chitarre acustiche eseguono per tutto l’album. Pochi dischi pubblicati all’epoca mostrano un tale pedigree, alimentato in parti uguali dal folk-rock dei Byrds, ma era già successo, e dalle melodie dei musical di Broadway, di cui MacLean era un fervente consumatore. Questo strano bastardismo contribuisce alla magia di “Forever Changes” tanto quanto le canzoni stesse: è il primo disco di un nuovo genere. Randy Newman, Van Dyke Parks e Harry Nilsson stesso non smetteranno mai di rendergli grazie. Come non evocare anche l’influenza che i Love ebbero sui Beatles, quando alcuni passaggi di “Abbey Road” mostrano a volte inquietanti somiglianze con le variazioni di “Forever Changes”. Il broccato alla Burt Bacharach fece il resto. E sì che il compositore di “My Little Red Book” si arrabbiò molto quando sentì il trattamento inflitto alla sua canzone. Nel 1967, Bacharach pubblicò “A House Is Not a Home”, è indubbio che, la qui presente “A House Is Not a Motel” dei Love non fosse solo una coincidenza.I “cambiamenti” di “Forever Changes” rimarranno invece un flop magistrale, non dissimile in alcun modo dalla disastrosa avventura del disco in Europa. Un album maledetto, o per lo meno trascurato, che rivelerà i suoi infiniti splendori solo molti anni dopo.
Il brano di apertura, “Alone Again Or”, scritto da MacLean, mostra, tuttavia, tutta la sua  separazione tra testo e musica, una positività compensata, che diventa un segno distintivo della sua brillantezza. “You know that I could be in love, with almost everyone/I think that people are the greatest fun/And I will be alone again tonight, my dear”. Come già scritto, MacLean non ne è stato il principale autore, ma questo brano seziona l’amore libero, lo espone come il sofisma che era diventato e lo abbandona affinché tutti possano averne testimonianza. Su una traccia di chitarra, con trombe mariachi, una piccola melodia che rende il messaggio ancora più potente. Con “A House Is Not A Motel”, Lee si allontana, ancor di più, il commento è pungente. “By the time that I’m through singing/The bells from the schools of walls will be ringing/More confusions, blood transfusions/The news today will be the movies for tomorrow/And the water’s turned to blood, and if/You don’t think so/Go turn on your tub/And it it’s mixed with mud/You’ll see it turn to gray/And you can call my name/I hear you call my name”. Un quadro cupo del futuro che è stupefacente per la sua precisione. La sottocorrente sociologica che guida la mission di questo album non è sempre così ovvia. Scorre attraverso ogni canzone come un filo sottile, a volte difficile da vedere, a volte chiaro come un giorno limpido, sempre presente. Ci sono suppliche e quel “guardarsi allo specchio” abilmente camuffato da autoanalisi. “You Set The Scene”, spiega l’opus magnum di Lee. “This is the time and life that I am living/And I’ll face each day with a smile/For the time that I’ve been given’s such a little while/And the things that I must do consist of more than style/There are places I am going/This is the only thing that I am sure of/And that’s all that lives is gonna die/And there’ll always be some people here to wonder why/And for every happy hello, there will be good-bye/There’ll be time for you to put yourself on”. L’ultimo verso è quello nel quale Lee ribalta le carte in tavola con un appassionato appello alla consapevolezza e alla partecipazione per fissare ciò che sta accadendo. “Everything I’ve seen needs rearranging/And for anyone who thinks it’s strange/Then you should be the first to want to make this change/And for everyone who thinks that life is just a game/Do you like the part you’re playing?”.
Non c’è da stupirsi, quindi, che “Forever Changes” sottolinei, ancor oggi, in modo così perfetto gli sconvolgimenti del 1968. Il disco avrà anche più di cinquant’anni, ma la sua fusione ermetica tra personale e politico è più che mai attuale. Racconta di “quel presente” e del “nostro presente” come un disco dei Jefferson Airplane non potrebbe mai fare, qualunque sia il parallelo tra la fine degli anni ’60 e la nostra contemporaneità. Infatti, a differenza della maggior parte dei musicisti del suo tempo, Arthur Lee era un membro della controcultura che non comprava flower power all’ingrosso, e intuitivamente capiva che lasciando entrare il sunshine rock non avrebbe istantaneamente evaporato la materia oscura del mondo (o di lui stesso). Per lui, una risacca di sventura imminente oscurava la superficie scintillante dell’Era dell’Acquario. Penso allo Yeats de “La seconda venuta”, la “parusia”: “Quando una incontenibile immagine dello Spiritus Mundi/Turba gli occhi: in qualche luogo tra le sabbie del deserto/Ombra con corpo di leone e testa d’uomo,/Sguardo vuoto e spietato come il sole,/Muove lentamente le cosce, mentre ovunque/l’oscurità dei rapaci del deserto dilaga”, o, più prosaicamente, il Jim Morrison che cantava di bambini pazzi “lost in a Roman wilderness of pain” in “The End”. Alla fine degli anni ’60, “il meglio che l’America potesse pretendere era la purezza di una flagellazione, l’estetica dell’apocalisse, non una visione politica” (Todd Gitlin). Bob Dylan, dopo aver cavalcato i limiti della canzone popolare, si era schiantato e nel 1968 stava nascosto dentro le immagini bibliche di “John Wesley Harding”, avvertendo che “the hour is getting late”. Per molti versi Arthur Lee anticipava questi momenti. Era un paranoico, era il re della Sunset Strip prima di Morrison; commerciava la sua “estetica dell’apocalisse”, si era rifugiato nell’isolamento prima di Dylan stesso. Quando hai quell’età, prendi le cose molto seriamente. Non ti rendi conto che stai solo vivendo la tua vita. Lee era anche una delle pochissime figure musicali degli anni ‘60 ad essere assolutamente convinto che, come lui, all’apice del baccanale hippie, la nascente cultura giovanile, la Summer of Love, stesse per morire. “Avevo ventidue anni. Avevo sempre pensato a questa cosa del morire, del deteriorarmi fisicamente”. Fu con questo terribile senso di urgenza che Lee si mise a registrare “Forever Changes”. Le canzoni che aveva scritto, così come il titolo stesso, riflettevano quello stato d’animo. “Sitting on a hillside/Watching all the people die/I’ll feel much better on the other side”, canta su “The Red Telephone”, il brano che chiude il primo lato. Costruita intorno a una progressione circolare di accordi al suono di un clavicembalo e di una chitarra acustica a 12 corde, la canzone evoca l’inquietudine del carnevale psichedelico di Los Angeles in temi solo impliciti in “Heroes and Villains” di Brian Wilson o “People Are Strange” dei Doors, “Sometimes my life is so eerie/And if you think I’m happy paint me (white) (yellow)” confessa Lee, più avanti, mentre i suoi coetanei inauguravano l’Era dell’Acquario e cantavano d’incenso e menta piperita. Questa curiosa inversione è tipica di “Forever Changes”, un disco difficile da analizzare quanto lo è da consumare. Potrebbe essere un semplice capovolgimento di “Paint It Black” dei Rolling Stones, è complicato non solo dallo status di Lee come uomo di pelle nera che opera nell’ambito del rock, ma anche dal fatto che egli usi una doppia voce sul verso per recitare “white” e “yellow”, il giallo psicotico, retaggio dell’ottimismo hippie, il colore della codardia, della paura della morte, il colore della pelle dei Viet Cong. “What is the color/when black is burned?/What is the color?” si chiederà Neil Young in “I Am A Child”. Mentre il brano finisce, Lee canta il suo mantra paranoide “They’re locking them up today/They’re throwing away the key/I wonder who it’ll be tomorrow, you or me?/We’re all normal and we want our freedom/Freedom, freedom, freedom, freedom, freedom, I want my freedomcitando l’opera teatrale Marat/Sade di Peter Weiss, suonando alternativamente interrogativo e robotico, ed enfatizzando la seconda sillaba fino a quando non diventa, inequivocabilmente muto. Le intriganti contraddizioni e le infinite intertestualità di “The Red Telephone” persistono in tutto “Forever Changes”, un titolo che offre a sua volta molteplici significati: tutto cambia per l’eternità, l’epitaffio musicale per le generazioni future, il concetto che il “per sempre” è sempre soggettivo mentre il cambiamento è costante e inesorabile. L’umanità continuerà ad evolversi, o a deviare, per millenni, almeno fino a quando il presidente americano o il dittatore sovietico non alzeranno la cornetta del “telefono rosso” per annunciare la fine del mondo.
La passione di Lee per le sillabazioni che destabilizzano i significati, evocata in titoli di canzoni come “Alone Again Or”, “Andmoreagain” e “Maybe the People Would Be the Times Or Between Clark and Hilldale”, e la doppia diafonia vocale “I can see you/With no (hands)/(face)/Eyes I need you/You’re my (heart)/(face)” di “The Daily Planet” turbano la seducente struttura sinfonica del disco e, più in generale, l’utopia della Summer of Love. Per dirla alla Bogdanovich, quei mesi, celebrati come l’alba di una nuova era, sarebbero stati per i Love un “ultimo spettacolo”, e per i sixties, un immaginario che era impegnato a nascere proprio come Lee era impegnato (nella sua mente, se non nel suo corpo) a morire. La musica di “Forever Changes” riecheggia di un tono elegiaco che spiega in gran parte la peculiare atemporalità del disco. Uscito nello stesso mese di “Their Satanic Majesties Request” dei Rolling Stones e “Sell Out” degli Who, si distingue per la sua relativa austerità sonora, con influenze folk e classiche. Quando arriva una chitarra elettrica in piena esplosione, cosa che accade solo due volte, attraversa questo paesaggio sonoro gotico-pastorale come un aereo a reazione, rendendo il suo punto di vista molto più efficace di quanto non farebbe in un tipico contesto psichedelico. Le splendide orchestrazioni di David Angel, con il contributo di Lee e di Bryan MacLean, si asservono alle canzoni in modo splendido. Questo è il segreto della longevità del disco. Mentre è profondamente, quasi impareggiabilmente psichedelico, lo è a livello di prospettiva lirica e di struttura armonica, non a livello di estetica e di arrangiamento. La produzione di Lee, con l’aiuto di Bruce Botnick, è priva di cliché – tracce al contrario, effetti e riverberi eccessivi, sitar -, non si trovano da nessuna parte, e il risultato è un disco difficile da classificare. L’effetto complessivo è una paranoia. “Forever Changes” è un’ode alla paranoia, come lo sono, “La Conversazione” di Frances Ford Coppola o “L’incanto del Lotto 49” di Thomas Pynchon. Ma questo è solo uno degli aspetti di un’opera d’arte totale che, come un oscuro sistema solare, sembra penetrare ogni strato della realtà una volta che l’ascoltatore è in sintonia con il suo codice arcano. All’interno del sistema, dietro le mura del “castello”, si sente il lamento di un ipocondriaco, un diario dell’esilio auto-imposto di un eccentrico decadente contro la natura, un sermone mistico con sfumature occulte sui significati e sulle conseguenze di una rivoluzione, una dichiarazione d’intenti esistenzialista, un’apocalittica geremiade contro Los Angeles. Ci vuole della fatica per scalare le mura del “castello”, più lavoro di quanto la maggior parte degli ascoltatori di oggi siano disposti a sopportare ma, come per ogni comprensione di una grande opera d’arte, le ricompense sono gratificanti. “Forever Changes” scaturisce da codici di significato profondamente personali e onirici, eppure univocamente in dialogo con la storia, attraverso vite passate e invocazioni di divinità dimenticate. Suggerisce intrusioni del soprannaturale, del metafisico, nel mondo reale e viceversa. Porta l’aria della profezia. È senza dubbio un monumento della sua epoca, ma a differenza di molti dischi degli anni ’60, qualunque sia il loro fascino, sembra destinato a durare nel tempo. Forse perché la posta in gioco è alta. Come ha scritto Jon Savage nella sua recensione su “Mojo” della ristampa Rhino/Elektra: “Its ambition and scope make it representative of the principal cultural and perceptual challenge of the hippie period (Does life have to be like this?) that remains powerful because it has never been adequately addressed”.[1]
Dopo che la band originale si sciolse, si dispersero. Forssi ed Echols furono arrestati e incarcerati per possesso di eroina. Secondo la leggenda, la coppia avrebbe derubato dei chioschi di ciambelle, meritandosi il soprannome di “The Donut Robbers”. Alla fine, Forssi divenne uno scultore. MacLean, dopo una conversione spirituale, incise un album “Ifyoubelievein” pubblicato nel 1997 su Sundazed. Continuò a scrivere canzoni per il gruppo della sorellastra Maria McKee, i Lone Justice, una di queste “Don’t Toss Us Away”, divenne un successo per Patty Loveless. Pfisterer si mise in viaggio e Echols abbandonò temporaneamente la musica.
Arthur Lee continuò, si avvicinò al Black Panther Party, al soul, al R&B. C’era ancora un album da realizzare per rispettare il contratto con l’Elektra e la storia di quel disco “Four Sail” aveva delle radici profonde perchè era iniziata prima ancora che esistessero i Love.
L’influenza di Jimi Hendrix divenne sempre più prevalente nella musica di Lee dopo “Forever Changes”. La loro relazione, che era più una rivalità che una fratellanza, era iniziata già nel 1964 quando Hendrix e Lee registrarono, ai Gold Star Studios di Los Angeles, il brano “My Diary” di Rosa Lee Brooks. La storia che Lee ha sempre raccontato, cioè che fosse stato lui a sceglierlo e a chiamarlo in studio per primo, è contraddetta anche dal ricordo della stessa Brooks che sostiene di aver scritto la canzone insieme a Hendrix e, poi, di aver scelto Lee come seconda voce. Il loro primo incontro non andò bene. “Quando Jimi lo vide, divenne subito molto geloso”, racconta la Brooks nelle note di “West Coast Seattle Boy”. “Si parlavano a malapena, Jimi pensava che tra me e Arthur ci fosse qualcosa di più di una semplice amicizia”. È difficile conciliare questo ricordo con l’idea che Lee ha sempre sostenuto, cioé di essere stato il mentore del futuro dio della chitarra. Lee affermò anche di aver prodotto la registrazione, ma in realtà fu Billy Revis, che la pubblicò per la sua Revis Records nel 1965. In realtà rimasero “amici” e nel giorno di San Patrizio del 1970, dopo che i Love avevano terminato il loro tour europeo, Hendrix si unì alla band negli Olympic Studios di Londra. Lee, Jimi e la band s’imbottirono di mescalina. Delle canzoni che Hendrix realizzò con i Love agli Olympic, solo “The Everlasting First”, il singolo dell’album “False Start”, fu pubblicato ufficialmente. Il resto, con alcune tracce live, è uscito nel bootleg “Love & Arthur Lee – ‎The Hendrix Sessions” del 2015. Sembra che Lee avesse maturato una sorta di fissazione per Hendrix e la sua ascendente carriera. Ricordava Lee: “Il fratello di Jimi mi ha detto che Hendrix aveva copiato tutto dal mio primo album con i Love. Quello stronzo mi ha rubato l’abito da sera, e non mi piace quello che suona. Ma non potrò mai suonare la chitarra come lui”. Forse è una speculazione, ma è possibile che ai tempi di “Four Sail” avesse voluto assomigliare a Hendrix.

È incontestabile comunque che, musicalmente, dovesse rompere con i primi album dei Love. Poi c’erano tutte quelle storie di eroina e altre droghe. I primi Love erano una cosa di famiglia. C’era una magia, e la si poteva sentire nella musica, ma “Four Sail” è diverso. Dato che Lee non sapeva suonare la chitarra come Hendrix, non è del tutto sorprendente che quando arrivò il momento di trovare un nuovo chitarrista, si rivolse a Jay Donnellan, un musicista poco creativo, ma con tecnica da vendere. A Donnellan si aggiunsero Frank Fayad al basso e George Suranovich alla batteria.  Dove Lee li incontrò è un mistero, ma il booklet di “Love Story” riporta che avesse suonato con questi ultimi due in una delle sue prime band, “The VIPs”, insieme al chitarrista Gary Rowles (che si unirà ai Love più tardi) e a un cantante soul di nome Nooney Rickett. Tuttavia, Lee, Donnellan, Fayad e Suranovich entrarono in studio all’inizio del 1969 e registrarono ventisette canzoni nell’arco di qualche settimana. Dieci di queste furono selezionate per “Four Sail”, mentre il resto uscì qualche mese dopo sull’album “Out Here”. Che sia stata l’influenza di Hendrix o la naturale continuazione di quello che stava cercando di fare, Lee sembra suonare libero, sereno e i risultati sono stupefacenti, soprattutto per le canzoni che finirono su “Four Sail”.Le dinamiche della nuova band sono immediatamente evidenti in “August”, che dà il via all’album. Un fitto intreccio di chitarre acustiche ed elettriche, un basso distorto in sottofondo, aprono il brano. “I said August is all that I know/It’s with me where ever I go/It’s with me when I need a friend/It brings me good weather/It keeps me together/It picks me up when I’m down”, canta Lee, Come Tim Buckley più o meno nello stesso periodo, utilizza un linguaggio semplice, più emotivamente diretto rispetto al passato. Dopo la seconda strofa (non c’è il refrain), si scatena la piena potenza della band e  Donnellan, Fayad e Suranovich decollano per quasi due minuti e mezzo. La ritmica di Lee tiene tutto ancorato, ma c’è spazio, non è un brano stretto nei suoi assoli, mi lascia senza fiato ogni volta.
Your Friend And Mine – Neil’s Song” è quasi country olde tyme, una strana scelta con cui elogiare un ex roadie dei Love che truffò la band e poi morì di overdose. I Love mostrano la loro sobrietà e il lato lirico di Donnellan è evidenziato in due assoli. Anche in una canzone ironica come questa, il groove è profondo. “I’m With You” è puro pop, con un ritmo di bossa accelerato e un bridge mozzafiato, tanto che Lee lo canta due volte. “I’ll be with you, my love, if you/You say you want me, ooh/Anything you want I’ll try to get it for you”. In “Good Times” la ritmica si alterna a un coro ululante in un’alternanza di silenzi e rumore sugli assoli di Donnellan. Quando si ferma, tutti cambiano marcia per ripetere il verso d’apertura e terminare la canzone. Drachen Theaker, ex batterista del Crazy World Of Arthur Brown, suona in “Your Friend And Mine” e “Good Times”. “Singing Cowboy”, scritta da Lee e Donnellan, è il vertice dell’album. La melodia è grandiosa, la strofa appena eclissata da un bridge con chitarra, sul finale due minuti di Donnellan superato solo dalla voce di Lee, “You/Coming after you/I’m on my way/Comimg through to you/I gotta keep on rollin’ on”. Una performance ipnotica che ha un potere lisergico tutto suo. Il secondo lato si apre con “Dream”, una miniatura pop con sempre Donnellan sugli scudi. Segue “Robert Montgomery”, la melodia è presa in prestito da “Eleanor Rigby”, ma l’effetto è ben diverso. Le doti melodiche di Lee sono ancora presenti in “Nothing”, una di quelle canzoni in cui i cambi di accordo sono ambigui quanto gli stati emotivi descritti nel testo, felicità e tristezza per sempre legati, proprio come nella vita. “I like to smile, I like to ride/I like to feel the moving tide/And in the night/I feel secure/To know the true meaning of you/Has got to be”. Qui la performance di Suranovich è una delle più belle dell’album e la voce di Lee è sublime. “Talking In My Sleep” è l’unica concessione del disco, un rock blues poco ispirato, dalla struttura banale, salvato solo dagli intermezzi strumentali. L’album si conclude con “Always See Your Face”, un altro classico di Lee, con un testo che è una semplice richiesta d’amore e comprensione. “And no matter where I go, no/I will always see your face/Hey, look and I can see your face/Yeah, look and you can see my face/Hey, I’m lookin’ at you lookin’ at me”.
Anche se “Four Sail” era un prodotto dei suoi tempi tanto quanto “Forever Changes”, che si adattava perfettamente a quello che facevano Hendrix o gli MC5, o anche i Beatles del dopo Sgt. Pepper’s, cadde nel vuoto. Ci fu sempre il problema dei mancati tour. Un bootleg intitolato “Fillmore West, November 21st 1970” di circa sei mesi dopo (con Craig Tarwater alla chitarra) ci restituisce una band in una performance quasi funky soul.
Il primo dei due album targati Blue Thumb “Out Here” esce sempre nel 1969, ed è un doppio. Come detto recupera parte delle registrazioni di “Four Sail”, ma è zeppo di “filler” quelli che spesso rappresentano il peggior tipo di eccesso di rock negli anni ‘60, compreso quello più maligno di tutti, l’assolo di batteria.
L’album parte con “I’ll Pray For You”, è un buon inizio, ma si deteriora rapidamente con “Abolony”, un banale country rock. Seguono un remake di “Signed D.C.” e “Listen To My Song” un’eccellente ballata acustica dal testo fortemente introspettivo. “I see you, can you hear me/If you can, I want you to listen to my song/Yes I want you to listen to the whole words/I’ll sing to you/They told me, that you sold me/And you see, it’s just a little question in my mind/All it what was is just a portion of my time/My time, my time”. Il secondo lato inizia con “Stand Out”, che esprime l’emergente coscienza razziale di Lee, una tendenza che alla fine lo porterà ad abbracciare completamente la musica soul con “Reel-To-Real” nel 1974. Poi arriva “Discharged”, una scialba protest song. Qualcuno potrebbe dire che questo è il genere di stronzate che contribuì a motivare la “maggioranza silenziosa” e fare eleggere presidente Richard Nixon. Poi arriva l’interminabile “Doggone” con il suo assolo di batteria apparentemente senza fine. Il resto dell’album segue lo stesso schema, una profonda incostanza qualitativa; l’ottima “I Still Wonder” è seguita dall’interminabile jamming di “Love Is More Than Words or Better Late Than Never”, e la bella “Willow Willow Willow” è seguita dallo strumentale “Instra-Mental”. “Willow Willow Willow” e “I Still Wonder” (c’è anche  Donnellan come autore) sono tra le migliori canzoni che Lee abbia mai scritto ma, alla fine, l’album è abbattuto dalla bassa qualità degli altri brani. Sarebbe stato meglio un album singolo, forse, ma “Out Here” è l’ennesimo esempio della tendenza di Lee ad auto-sabotare la propria carriera.
Il secondo e ultimo disco per la Blue Thumb s’intitola “False Start” (1970). Di “The Everlasting First”, uno dei brani che Hendrix registrò con i Love nel 1970, abbiamo già detto. Per essere un album dei Love, è un album minore, in parte per la superficialità dei testi, in parte per le concessioni radiofoniche. Le inclinazioni più pessimistiche di Lee sono mascherate, represse, con una mentalità vuota e altruista. L’uomo che una volta avvertiva che l’acqua si trasformava in sangue ora canta cose tipo: “Aprite il vostro cuore e lasciate che entri il sole”. ”Stand Out“, un brano di “Out Here”, è suonato live, l’immatura “Slick Dick” e “Gimi a Little Break” (Gimi sta per Jimi) banalizzano ulteriormente l’album. La band suona bene, è tesa, funky, è solo che Lee era capace di molto di più di questi esercizi di stile. Alla fine in “Keep on Shining”, grida ripetutamente la parola “amore”, ma, come se lo imprigionasse, come se lo trattenesse impedendogli di brillare, in realtà.
Arthur Lee non ha resistito bene ai tempi. Anche se ha continuato a suonare dal vivo, a registrare album, ogni volta mettendo insieme un diverso gruppo di musicisti e chiamandoli Love o Arthur Lee and Love, così per tutti gli anni ’70 e ’90 (con una pausa negli anni ‘80), cadendo in frequenti crisi dovute alla tossicodipendenza e all’alcolismo. Robert Rozelle, suo bassista per molti anni, afferma di averlo visto una volta iniettarsi una quantità di cocaina tale che “avrebbe ucciso un cavallo. Era anche fortunato, aveva una costituzione da cavallo”. Eppure Lee ha sempre negato o allontanato ogni domanda relativa alla droga; negando, persino, a un certo punto, di aver mai preso LSD, cosa che è contraddetta dalla maggior parte delle persone che lo conoscevano negli anni ’60.
Nel 1971 uscì “Vindicator” su A&M Records, il suo primo disco solista, nel 1981 su Rhino l’omonimo “Arthur Lee” ‎dove tra un suo classico e l’altro recuperava “Mr. Lee” (!) delle Bobbettes e “Many Rivers To Cross” di Jimmy Cliff. La ragione sociale Love fu rispolverata in quel “Reel-To-Real” (RSO 1974). Nelle undici tracce dell’album, Lee se ne esce con un suono sommesso e senza meta, eppure, sempre in anticipo sui tempi, brani come “Stop the Music” e “Which Witch is Which?” lo trovano attingere al funk e al R&B in pieni anni ’70. L’album rimasterizzato fu pubblicato per la prima volta in digitale nel 2015 dalla High Moon Records, la stessa che nel 2012 ha anche fatto uscire il disco perduto dei Love, “Black Beauty, dove, oltre a Lee, suonano Robert Rozelle al basso, Joe Blocker alla batteria, Craig Tarwater e Melvan Whittington alla chitarra e Frank Fayad in una traccia. All’epoca, nel 1973, quando ebbe spazzato via il fallimento commerciale di “Vindicator”, mise insieme un gruppo di musicisti, qualcuno dice solo per problemi con la sua label discografica. Però, alla fine, accantonò i nastri, relegando quelle session al ruolo leggendario di “album perduto”. I dieci brani sono piuttosto ispirati. Due anni prima, Sly & the Family Stone avevano alzato la posta in gioco con “There’s A Riot Goin’ On”. E si sente. “Stay Away”, il gospel midtempo di “Can’t Find It” e “See Myself In You” portano quell’impronta. “Young & Able (Good & Evil)”, sul massacro in Vietnam, e l’ironica ode agli “sbirri” di L.A., “Lonely Pigs”, ci ammoniscono che queste canzoni avrebbero potuto far impennare la sua carriera e chissà in quali affascinanti modi si sarebbe potuto evolvere questo suono. Come al solito, il mercurioso leader dei Love aveva stracciato tutto per un percorso dai risultati meno redditizi.
E poi arrivarono tutti i problemi con la giustizia. Già negli anni ’80, si era dichiarato innocente di fronte all’accusa di tentato incendio doloso quando aveva cercato di accendere una catasta di proiettili vicino alla casa di una sua ex. Poi ci furono il possesso di stupefacenti e le imputazioni per molestie e percosse. Tra il maggio e il giugno del 1995, proprio mentre la Rhino stava pubblicando il boxset “Love Story”, tutto cominciò ad andare terribilmente male.
Lee e la sua ragazza, Susan Levine, si trovavano in un centro commerciale vicino al loro appartamento di Van Nuys quando un tizio si lasciò andare a un commento sgradevole sulla coppia e, improvvisamente, Lee estrasse una pistola, almeno secondo alcuni testimoni. “Non c’era nessuna pistola, nemmeno una pistola ad acqua – ricorda la Levine. Ce ne siamo andati e basta”. Il 29 giugno la polizia fece irruzione nell’appartamento della coppia, la Levine sembrava malconcia, ma non volle sporgere denuncia. Più tardi disse di essere ubriaca e di essere caduta. La polizia aveva un’idea diversa su ciò che era successo e lo incriminò, poiché lei non lo avrebbe mai fatto. In realtà, però, non fu mai processato per abusi, perché un altro incidente lo fece finire in prigione. Negli Stati Uniti alla terza denuncia scatta l’arresto. Due settimane prima del presunto episodio di abuso, il 10 giugno, un vicino dichiarò di averlo visto in piedi sul terrazzo con una pistola in mano. Disse anche che Lee gliela avesse puntata contro, dopo che lo aveva minacciato di chiamare la polizia. E poi avesse sparato un colpo in aria. Lee e altri testimoni hanno sempre dichiarato il contrario. Non ci fu nessuno sparo. O meglio, l’unico colpo esploso fu sparato da Doug Thomas, un amico di Lee. L’avvocato William Genego raccolse la testimonianza di Thomas: “Sono stato io a sparare il colpo. C’è stato un solo colpo e sono stato io”. I test alla paraffina su Lee risultarono tutti negativi. Qualora si fosse dichiarato colpevole, sarebbe stato condannato a nove mesi di prigione, però decise di combattere e perse. Essendo recidivo, e a seguito degli altri eventi di quel mese, il tribunale lo condannò a dodici anni di reclusione, più di nove da scontare.
Dopo il suo arresto, si rifiutò sempre di parlare con i giornalisti, spiegò: ”Pensavo che avrei vinto. Tutto ciò è stato così umiliante per me”. Fece due volte appello e perse.
Il suo caso mise in subbuglio tutta la comunità musicale. Nick Saloman (Bevis Frond) durante un concerto allo Spaceland di Los Angeles dichiarò: “Penso che la condanna draconiana che ha ricevuto sia spaventosa. È una farsa che qualcuno come lui sia stato rinchiuso. Dovremmo erigere delle statue per Arthur Lee, non rinchiuderlo in prigione”. I Make-Up di Ian Svenonius, nel 1997, incisero “Free Arthur Lee”, ma le parole più belle arrivarono anni dopo da un musicista paradossalmente molto distante, Robyn Hitchcock: “The Wreck of the Arthur Lee” non è solo una canzone, è un lamento, un commento sulla condizione umana. Il testo parla di una nave che affonda, che Hitchcock così appella in onore del suo eroe. “The wreck of the Arthur Lee/Will never return again/The captain and all his men/Went up and jumped overboard/”Jesus is Lord!” they cried/Believe in love!/Believe in love/And I’ll believe in you”.
Ironia della sorte, la sua incarcerazione arrivò, proprio, nel momento in cui era ai massimi livelli, come non gli era più capitato dagli anni ’60. Nel 1992, l’etichetta francese New Rose aveva pubblicato l’album “Arthur Lee And Love”, probabilmente il suo miglior disco da anni a questa parte. L’album contiene “Five String Serenade”, un brano stupendo che richiama certe cose dei contemporanei Mazzy Star e “Somebody’s Watching You”, scimmiottata da Paul Weller nella sua “Brand New Start”. Nel 1994, la Alias Records aveva fatto uscire un album tributo con Teenage Fanclub e altre band intitolato “We’re All Normal and We Want Our Freedom”. Quando la Rhino tenne la festa per la pubblicazione del suo “Love Story”, Lee era in prigione.
Il 12 dicembre 2001, fu rilasciato dal carcere, dopo aver scontato cinque anni e mezzo della sua condanna originaria. Una corte d’appello federale in California aveva rovesciato l’accusa di detenzione di arma da fuoco. Nell’aprile 2006 fu annunciato pubblicamente che Lee era in cura per una leucemia mieloide acuta. Poco dopo, fu istituito un fondo, con una serie di concerti di beneficenza per aiutarlo a pagare le spese mediche. Al Beacon Theater di New York si esibirono Robert Plant, Ian Hunter, Ryan Adams, Nils Lofgren, Yo La Tengo, Garland Jeffreys e Johnny Echols. Plant eseguì “7 and 7 Is”, “A House Is Not A Motel”, “Bummer in the Summer” e “Old Man”. C’era anche Arthur, sempre corrucciato, dinoccolato e immancabilmente trasandato, con i suoi vestiti dandy e caleidoscopicamente colorati. Passò gli ultimi anni leggendo la Bibbia e facendo esercizio fisico. Per la leucemia fu sottoposto a diversi trattamenti, la chemioterapia e un trapianto di cellule staminali. Le sue condizioni continuarono a peggiorare.
Morì il 3 agosto del 2006, a Memphis, Tennessee, all’età di 61 anni. Lasciò una moglie, Diane.
È una seccatura”, disse, uscendo di prigione, “Sto scrivendo. Ho delle belle canzoni. Sto organizzando un’orchestra nella mia testa”.
Tutto già scritto nelle parole di “Live and Let Live”: “Served my time/Served it well/You made ou made my soul a cell soul a cell”.

 

[1]              “La sua ambizione e la sua forza lo rendono rappresentativo della principale sfida della cultura e della percezione del periodo hippie (dev’essere proprio così la vita?), sfida che rimane valida perché non è mai stata affrontata adeguatamente”.

Riccardo Magagna

"Credo in internet, diffido dello smartphone e della nuova destra, sono per la rivalutazione del romanticismo e dei baci appassionati e ho una grande paura dell'information overload"