Little Richard – The Architect of Rock & Roll
Sta tutta in una sola bizzarra espressione la miccia con la quale Little Richard innescò l’esplosione del rock’n’ roll, l’onomatopea urlata di un attacco di batteria: “A-WOP-BOP-A-LOO-BOP-A-LOP-BAM-BOOM!”.
Era il febbraio del 1955, Little Richard, ventiduenne, già da qualche anno si esibiva e registrava dischi senza alcun successo. Fu su consiglio di Lloyd Price, “Mr. Personality”, che inviò una registrazione alla sua etichetta, la Specialty Records. Passarono mesi prima che ne ricevesse risposta. Infine, a settembre, il proprietario della Specialty, Art Rupe, gli prestò i soldi per liberarsi dal suo contratto con la Peacock Records e lo mise a lavorare con il produttore Robert “Bumps” Blackwell. Inizialmente Blackwell non ne rimase entusiasta. Anzi, non voleva proprio saperne del suo look esagerato, dei suoi capelli sparati. Girava per lo studio inveendo contro la sua camicia: “È così appariscente che sembra che tu abbia bevuto succo di lampone, di ciliegia, malto e verdure e te lo sia vomitato addosso, cazzo!”. In realtà il repertorio scelto per le registrazioni non era particolarmente buono. Il quattordici settembre del 1955, durante una pausa, Blackwell e Richard andarono al Dew Drop Inn, il più elegante night club di New Orleans. Notando un vecchio pianoforte appoggiato contro un muro, Richard si avvicinò e cominciò a suonare. E fu lì che il musicista libertino si liberò. Sbatteva i tasti martellando a squarciagola le parole di una sorta di cantilena “Tutti Frutti, Tutti Frutti!”. Blackwell ne fu rapito. Fecero adattare il testo a Dorothy LaBostrie e tornarono in studio per registrarla. Per Richard era la grande chance. Cominciò con quel “A-WOP-BOP-A-LOO-BOP-A-LOP-BAM-BOOM!” e non mollò mai. Cantava a squarciagola, urlava, suonava sbatteva su quel pianoforte fino a staccarlo da terra, ci aveva portato il rock’n’ roll lì dentro.
All’epoca, nel 1955, il rock’n’ roll era ancora agli inizi. “Rock Around the Clock” di “Bill Haley and His Comets” era stato la prima hit in quella primavera raccolto nella colonna sonora di “Blackboard Jungle” (“Il seme della violenza”), Elvis Presley non era ancora entrato negli studi RCA di Nashville, e Chuck Berry non aveva ancora rovesciato Beethoven. Ma arrivò Little Richard e il disco sconvolse gli americani da costa a costa. I conservatori, e ce n’erano tantissimi nel 1955, tutti fedeli ad Ike, il “Generale Presidente”, rimasero sconcertati. Ma gli adolescenti tremavano, si agitavano e rotolavano al cospetto del nuovo funky beat. Tra il settembre 1955 e l’ottobre 1957, Little Richard registrò circa cinquanta canzoni. Con questo materiale, la Specialty realizzò nove singoli e due album. “Long Tall Sally” e altre canzoni raggiunsero le vette delle classifiche, e le sue esibizioni dal vivo fecero saltare i soffitti delle sale da ballo. Apparve in televisione e, nel 1956, in due film: “Don’t Knock the Rock” e il più famoso “The Girl Can’t Help It” (“Gangster cerca moglie”). Richard indossava i suoi abiti, paillettes, quell’acconciatura che lo faceva sembrare Madame de Pompadour, il trucco era pesante e, mentre cantava, ti rivolgeva uno sguardo assassino, selvaggio. Poi, improvvisamente, gettava una gamba sul pianoforte e colpiva i tasti, il pubblico si scatenava. Mai più, ci sarebbe stato un altro Little Richard.
La sua storia era cominciata il 5 dicembre 1932, quando Richard Wayne Penniman era venuto al mondo. Un uomo nato durante la Grande Depressione, nel cuore del Sud segregazionista, il terzo dei dodici figli di Leva Mae e Charles “Bud” Penniman, cresciuto nella zona povera di una città povera: Macon in Georgia. La musica, però, arricchì la sua vita. Per tutto il suo quartiere, predicatori e venditori cantavano per conquistare l’attenzione della gente. Suo padre era un predicatore e la famiglia cantava gospel, i “Penniman Singers”. Anche l’adrenalinico Richard cantava, o meglio, dava a tutti sui i nervi sballottando e picchiando barattoli di latta. La gente si arrabbiava e lui urlava e gridava ancora più forte.
Ma era destinato a suonare, e ancora adolescente, lasciò casa per unirsi al “Sugarfoot Sam’s Minstrel Show”. Vinse un talent show nel 1951 e ottenne un contratto con la RCA Victor. Anche se il contratto fu annullato, continuò a suonare. A Macon, di giorno lavava i piatti nella caffetteria di una stazione di autobus e la sera si esibiva al Tick Tock Club. Fu lì che conobbe, un musicista di nome Esquerita, al secolo Steven Quincy Reeder, detto Eskew e noto anche come S.Q. Reeder, ovvero “The Magnificent Malochi”. Esquerita gli insegnò tutto ciò che sapeva sul pianoforte. Esquerita aveva la stessa età di Little Richard, entrambi venivano dal Sud. Le loro storie erano simili: cresciuti nel gospel, musicisti autodidatti, avevano registrato i loro primi dischi più o meno nello stesso periodo, a metà degli anni Cinquanta. Purtroppo la sua parabola fu diversa.
Da un altro musicista, il bluesman Bill Wright, copiò il look. Rimmel, eyeliner, capelli sparati e abiti sgargianti. Gli anni Cinquanta furono un periodo di transizione, un periodo nel quale gli Stati Uniti iniziarono il passaggio da una società industriale a una società postindustriale, l’ambiguità sessuale, transgender ante-litteram, e l’epoca nella quale cominciarono ad abbattersi le prime barriere tra la cultura afroamericana e la cultura bianca. Ecco la modernità del rock’n’ roll.
Dopo le delusioni alla RCA Victor, iniziò a registrare per la Peacock Records. Il suo brano “Little Richard’s Boogie”, era un anticipo di quello che sarebbe stato il futuro. E torniamo a “Tutti Frutti”. Elvis lo cantò due volte in televisione e la versione mite e depotenziata di Pat Boone salì al dodicesimo posto delle classifiche. Tra il 1956 e il 1957, Little Richard incise “Long Tall Sally”, “Slippin’ and Slidin’ ”, “Rip It Up”, “Lucille”, “Send Me Some Lovin’ ”, “Jenny, Jenny” e “Keep a knockin’ ”. Poi la musica si fermò.
Mescolando Dio e rock, Little Richard sentì che c’era qualcosa di immorale e poco cristiano nella sua musica. “Se vuoi vivere con il Signore, non puoi fare rock’n’ roll anche tu”, dirà più tardi. “A Dio non piace”. Nell’ottobre 1957, durante un’esibizione in Australia, ricevette quello che sentiva essere un segno di Dio. L’Unione Sovietica aveva lanciato nello spazio lo Sputnik. “Sembrava che la grande palla di fuoco arrivasse direttamente sopra le nostre teste a circa due o trecento metri” disse, “mi ha scosso la mente. Mi ha davvero scosso. Mi rialzai dal pianoforte. Eccoci qua. Ho finito. Lascio il mondo dello spettacolo per tornare da Dio”. E lo fece. Nel gennaio 1958, iniziò a studiare presso l’Oakwood Theological College, in Alabama. E, mentre “Good Golly, Miss Molly” quella primavera, dominava l’etere, lui apprendeva per diventare un predicatore avventista della Chiesa del Settimo Giorno. Si riaffacciò alla musica nel 1959, ma solo come cantante gospel. Quando nel 1962 tornò al rock, i promoter gli aprirono le braccia.
Nel 1962, il manager dei Beatles, Brian Epstein, gli chiese di spendersi per pubblicizzare negli Stati Uniti i suoi ragazzi. In un’intervista del 1984 con il giornalista Bill Boggs, Little Richard ricorda il suo incontro con Epstein. Mi disse: “Richard, ho quattro ragazzi, ti dispiacerebbe fare delle foto con loro? Gli chiese di aiutarli ad affermarsi nel mercato americano. “Ti darò una percentuale per portare questo nastro negli Stati Uniti”. Non la prese. Non credeva, che ce l’avrebbero fatta. Pensava che solo Paul McCartney avrebbe potuto, da solo. Richard, però, li invitò ad aprire il suo concerto allo Star Club di Amburgo. I Beatles registrarono “Long Tall Sally” nel loro EP del giugno del 1964 e alla voce c’era Paul. E i Rolling Stones girarono con Richard nel tour europeo del 1963. Anche un giovane Jimi Hendrix suonò nella sua band per diversi mesi nel 1965. Dopo un anno lo stesso Hendrix avrebbe detto: “Voglio fare con la mia chitarra quello che Little Richard fa con la sua voce”.
Little Richard avrebbe ancora registrato musica rock e gospel, ma senza alcun successo commerciale. Negli anni Settanta, dopo aver combattuto le sue dipendenze da droga e alcol, tornò di nuovo alla predicazione. A metà degli anni Ottanta era di nuovo sui giornali. La sua biografia del 1984, “The Life and Times of Little Richard”, fu un successo. Nel 1985 scampò miracolosamnete a un grave incidente d’auto. Quando, nel 1986 apparve nel film “Down and Out in Beverly Hills” (“Su e giù per Beverly Hills”), fu l’occasione per un nuovo successo con “Great Gosh a ‘Mighty”. Nello stesso anno, entrò nella Rock and Roll Hall of Fame. Da quel momento fuse le sue due “passioni”. Durante le esibizioni, suonava musica gospel e i suoi vecchi successi. E predicava la parola di Dio dal palco. Nel 1993 si esibì alla Casa Bianca per l’insediamento del presidente Bill Clinton.
Nel 2004, Rolling Stone ha classificato Little Richard al n. 8 della sua lista dei 100 più grandi artisti rock di tutti i tempi. La maggior parte di coloro che gli stavano davanti, avevano sostenuto che Little Richard era stato una loro fondamentale influenza. E, tra loro, c’erano i Beatles, Elvis, Bob Dylan e i Rolling Stones.
Nel giugno 2007, la rivista inglese, Mojo, ha pubblicato “Big Bangs: 100 dischi che hanno cambiato il mondo”. Elvis era terzo con “Heartbreak Hotel”, i Beatles secondi con “I Want to Hold Your Hand”. Il disco che aveva cambiato il mondo? “Tutti Frutti” di Little Richard.
“One can only imagine,” riportava Mojo “how it must have sounded when the song exploded across the airwaves!”. E suonava così: “A-WOP-BOP-A-LOO-BOP-A-LOP-BAM-BOOM!”.
Nel vistoso e appariscente mondo della musica, forse non c’è mai stato nessuno così vistoso e appariscente come Little Richard, l’autoproclamato “King and Queen” del rock’n’ roll, il Liberace di bronzo, il creatore, il motore primordiale, l’architetto, l’emancipatore. Little Richard si è raccontato come se il corsivo fosse stato per lui un diritto di nascita. È stato lui a dare il primo morso ai Beatles e ai Rolling Stones, Mick Jagger si sarebbe coricato e avrebbe dormito tra i suoi piedi e Paul McCartney avrebbe supplicato solo per potergli sfiorare la camicia. Jimi Hendrix, “The Artist Formerly Known As Prince”, David Bowie esistono solo in virtù del suo glorioso insegnamento. Un debito che non potrebbe essere ripagato neanche se si costruisse a sua immagine una montagna tutta d’oro. Ha mostrato fin dall’inizio quanto il rock potesse spingersi lontano, quanto potesse essere selvaggio, emotivo, sospeso, instabile. E piuttosto che intonare motivi di libertà, urlava “A-WOP-BOP-A-LOO-BOP-A-LOP-BAM-BOOM!”, incarnando la libertà. Quanti si sono limitati a fare un solo passo nell’enorme impronta dei suoi tacchi! Quando nella sua città natale, a Macon, in Georgia, andava in giro vestito da drag queen con i capelli marmorizzati alti un metro e mezzo. Quando le figlie bianche della rivoluzione osannavano questo nero inzuppato di sudore, e gli lanciavano addosso le loro mutandine. Quando contro di lui giravano messaggi come: “Avviso! Fermi! Aiutate a salvare i giovani d’America. Non comprate dischi di quel negro. Le urla e la musica selvaggia di questi dischi stanno minando la morale della nostra gioventù bianca”. Quando la maggior parte degli artisti afroamericani di quel tempo non vedevano ricompensato il loro talento e Richard, sui milioni di dischi che vendeva, era fortunato se vedeva mezzo centesimo di royalty.
Tutti gli altri facevano rhythm and blues, e lui faceva rock. E il rock and roll è un rhythm and blues up-tempo, e lui aveva un pianoforte che urlava fino a squarciare la voce e colori forti e capelli in alto nell’aria. Nel 1957 abbandonò rock per studiare teologia e predicare la parola del Signore, stimolato dall’aver visto nel cielo il satellite sovietico Sputnik. Come predicatore mostrò la misura della salvezza rivelando la profondità dei suoi peccati, la narrazione dei suoi eccessi. Tutte storie che si contraddicevano a vicenda. “Il rock’n’ roll è demoniaco”. Oppure: “La mia musica sollevava lo spirito. Sollevava l’animo”.
Ma era ancora un cantante rock, un vecchio ragazzo che, a Macon, in Georgia, beveva latte e si ingozzava di sciroppo d’acero.
“I think that if Elvis had been black, he wouldn’t have been as big as he was” (Little Richard)