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Dave Greenfield (29/3/1949 – 03/05/2020)

(O del come, quando e perché conobbi The Stranglers e uno tra i più inauditi e originali suoni di tastiere della Storia del Rock)
Leggi della morte di Dave Greenfield, tastierista di The Stranglers, e improvvisamente ti si affollano ricordi, netti e precisi.
Anno scolastico 1977-78, prima superiore. Non erano molti gli amici coi quali potessi parlare di musica: tutti la ascoltavamo, ma oltre “ti piacciono questi?” non si andava. Solo in certi ambienti un po’ barbosi (e barbuti, con sciarpone e maglioni slabbrati d’ordinanza anche in luglio) ci si lanciava in dissertazioni, ma queste vertevano anche sul cinema, la letteratura, il teatro (ma solo Brecht e l’avanguardia, eh?).
Il punk era stato uno schiaffone pazzesco, chiaro. Quei tizi in eskimo e jeans con pettorina ci guardavano commiserandoci ogni volta che sentivano nominare i Sex Pistols, tutti presi dall’ascolto serissimo e attento di jazz-rock strumentale o delle suite degli Yes, dei virtuosismi degli EL&P e incantati dalla poetica di cantautori prolissi e rigorosamente folk.
Già, i Pistols. Le riviste musicali erano ancora incerte su come interpretare il fenomeno, ma l’estetica cazzara dei protetti di Malcom McLaren era sicuramente vincente su tutti i concorrenti: anche i distratti li conoscevano, finivano persino sulle riviste patinate che le nostre mamme sfogliavano dalla parrucchiera, mentre non altrettanto riscontro “di massa” ottenevano The Clash o The Damned.
Stavo crescendo con una rapidità impressionante: nel corso dell’anno scolastico avrei preso ben dieci centimetri, mantenendo per contro l’originaria magrezza, che di conseguenza appariva sempre più evidente. Mia mamma era costretta ad allungarmi i pantaloni e le maniche ogni 20/30 giorni, col risultato che i maglioni e le brache erano sempre corti e mostravano i segni degli orli precedenti. Stranamente, incrociandomi sul portone della scuola, l’unico “true punk” (con cresta,”chiodo”, spille e catene) del liceo, credo fosse già in quarta, mi diede un’occhiata e disse: “Cool!”
Non la presi bene: sia alle medie che in prima superiore avevo sempre studiato (sì, insomma…) francese, quindi al tempo conoscevo poco l’inglese e l’esclamazione mi era parsa un epiteto. Peccato, sembrava un tipo un po’ suonato ma simpatico, chissà perché mi aveva definito così… Cominciai a pormi domande sul mio atteggiamento, chiedendomi se fosse quello il motivo per cui le ragazze parevano non essere assolutamente interessate a me (cosa che ad ogni ritrovo scolastico mi sottopone a una serie di “non capivi proprio niente: mi piacevi un sacco!”, ma sono più propenso a ritenerlo un rituale necessario in quelle situazioni che una verità).
In realtà “Mr. Punk Vicious” (quella la scritta che recava sulle spalle) mi considerava l’unico vero punk per via di quel look che gli sembrava davvero eccentrico, complice l’assoluta impossibilità di governare i capelli più dritti e caoticamente distribuiti che si fossero mai visti in zona. Appurato fortunosamente l’equivoco grazie a un amico con mamma e parenti inglesi, decisi che avrei potuto approfondire il significato di quelle spillette con un sacco di nomi strani che ornavano giacche e giubbotti della dandy con la cresta.
Non feci in tempo a chieder lumi che qualcosa attrasse la mia attenzione nel solito negozio di dischi di zona, ormai meta pressoché quotidiana che mi vedeva spulciare TUTTI gli LP esposti, poi controllare le tasche e, quando andava bene, uscire con un 45 giri. C’era questa raccolta che aveva in copertina una ragazza che indossava una canottiera in materiale plastico nero, tipo sacco dell’immondizia, con la scritta “PUNK” identica a quella della grafica che accompagnava alcune stampe italiane di gruppi che rientravano (spesso a torto) nel genere. Ma la cosa sensazionale era che il cellophane che sigillava il disco conteneva anche la replica della canotta!
Già mi immaginavo di incrociare nei corridoi quel bel tipo e vederlo strabuzzare gli occhi: ORA sarei stato davvero cool!
Naturalmente il fatto che “Punk Off!”, questo il titolo della compilation, venisse venduta a prezzo ridotto rappresentò il passo decisivo: “Lire 3.500 iva compresa”. Col feticcio, perdipiù. Chiesi alla pazientissima commessa di tenermelo per un paio di giorni, in modo che potessi ricevere l’appannaggio settimanale concesso dai miei, quindi il sabato seguente tornai e feci mio quel disco.
Va da sé che, nell’ordine:

– La canotta era troppo corta (non erano di moda gli ombelichi maschili esposti, al tempo).
– Essendo il fisico costituito da un ammasso d’ossa, mai più avrei avuto il coraggio di uscire in città in quelle condizioni.
– A ben vedere, nessuno dei gruppi presenti nelle foto di copertina aveva un look molto punk, secondo i canoni a me noti, tranne tali Maniacs.

Ma si trattò comunque di un’epifania estatica, appena poggiai il padellone sul giradischi e la puntina toccò il vinile: cos’era QUELLO? Un ASSOLO DI BASSO (!!!) in apertura di una canzone, seguito da rullata nervosa e QUELLA TASTIERA, suono e timbrica che sembravano spariti dalla scena EONI prima. Non ci capivo nulla: riposi l’indumento plasticoso all’interno della copertina mentre la seconda canzone iniziava di nuovo col basso a dettare una linea inconsueta. Alzai lo stilo e rimisi daccapo: di che parlavano, questi Strangolatori? Per la prima volta cercavo di capire un testo: sentivo nominare Leon Trotsky, uno di cui si parlava parecchio al cineforum di quei barbudos cui accennavo qualche riga fa, dopo le proiezioni di film che spesso non avevo ben capito, anche se annuivo sempre agli interventi di quel vicino di casa più grande che mi ci portava. E che c’entrava Sancho Panza? No More Heroes, non c’erano più eroi: avevano l’aria di fare sul serio. E quella tastiera con era una meravigliosa contraddizione anacronistica?
Questa seconda volta lasciai che il giro di basso e l’andamento reggae-funk un po’ disarticolato di Peaches mi mostrassero la via che mi avrebbe condotto a incrociare la strada dei Talking Heads. La chitarra in levare, l’Hammond doorsiano, la voce declamante. Che pezzi fantastici erano questi! Li riascoltai più volte di seguito, poi pensai che sarebbe valsa la pena di ascoltare anche il resto.
La raccolta era ben congegnata: edita dalla United Artist, coinvolgeva un totale di sei gruppi con due canzoni ciascuno. Dopo le due degli Stranglers, ecco She’s A Wind Up e Baby Jane, quelle che , la voce mi iniziarono al culto del pub-rock di casa Dr. Feelgood (già abbandonati da Wilko Johnson e nell’occasione prodotti da Nick Lowe), ma erano sicuramente molto più aderenti allo spirito annunciato dal titolo sulla copertina di quanto lo fossero al ruvido rhythm & blues di cui erano alfieri. La facciata terminava con i due veloci e concisi brani dei 999, pure punk for then people, parafrasando il produttore dei precedenti.
Girai il disco e venni aggredito dal pop senza fronzoli ma irresistibile dei Buzzcocks: Orgasm Addict era talmente perfetta che a 15 anni capivi di cosa stesse parlando anche se non familiarizzavi con l’inglese, mentre Whatever Happened To? sembrava uno scherzo: una canzone che si intitolava come la prima frase del primo brano della raccolta. Figo, no?
Celia & The Mutations rinverdivano un brano di Tommy James & The Shondells, Mony Mony, che non avevo mai sentito in precedenza e per mesi credetti fosse loro, mentre You Better Believe Me era un brano scritto dai compagni di etichetta J.J. Burnel e Wilko Johnson (in effetti, come avrei appreso anni dopo, i Mutations altri non erano che gli Stranglers stessi, dietro la voce di Celia Gollin, già vocalist assieme a Brian Eno nella composizione di Gavin Bryar “1,2, 1-2-3-4”).
Rimanevano i due pezzi dei Maniacs, i quali confermavano l’impressione suscitata nella foto di copertina: i più punk del lotto, con due canzoni veloci ed abrasive in pieno stile D.I.Y., la splendida Chelsea 77 e Ain’t No Legend.
Dopo questa compilation sarebbero immediatamente seguiti acquisti compulsivi di qualsiasi cosa avesse sembianze punk, compreso l’imbronciato Springsteen di “Darkness On The Edge Of Town” e i Rolling Stones di Lies (tratta da “Some Girls”). Ma, soprattutto, andai alla ricerca degli album che contenevano le canzoni dei Dr. Feelgood (facile: erano entrambe su “Be Seeing You”), mentre dei Buzzcocks non presi nulla: i due pezzi loro erano su un singolo, quindi mi sarebbe bastato tenermele sulla raccolta. Ma quelli a cui tenevo maggiormente erano gli Stranglers, così peculiari, un po’ folli, rock’n’roll e molto pop: quelle tastiere le avrei sentite solo lì, sui solchi di “Rattus Norvegicus” e “No More Heroes”.
E ancora oggi sento i brividi di allora che mi scorrono lungo la schiena, mentre ripenso a Greenfield che esegue l’assolo di No More Heroes mentre si scola una pinta di birra come faceva durante i concerti: grazie di tutto, Dave.

Massimo Perolini

Appassionato di musica, libri, cinema e Toro. Ex conduttore radiofonico per varie emittenti torinesi e manager di alcune band locali. Il suo motto l'ha preso da David Bowie: "I am the dj, I am what I play".