Top Stories

L’apparentemente impalpabile presenza di Hal Willner.

Con 24 ore di ritardo sull’accaduto e a 48 dal suo 64esimo compleanno, la famiglia di Hal Willner ha comunicato la perdita dello straordinario produttore, a causa del virus che sta colpendo duramente anche il mondo della musica.
Dopo aver esordito nella seconda metà degli anni settanta partecipando alla produzione di un paio di album dell’eccentrico old time musician Leon Redbone, lavorerà anche coi Neville Brothers, funksters neorlensiani di già lunga e collaudata militanza musicale che solo da poco avevano riunito le strade sotto la comune egida famigliare, per il quasi-capolavoro “Fiyo On The Bayou”. Nello stesso anno (1981) diventa produttore delle musiche dello show televisivo “Saturday Night Live” e subito dopo anche del programma di David Sanborn “Sunday Night”.
La capacità di sintetizzare in tempi televisivi le performance più disparate lo mette in condizione di eccellere nel campo dei tribute album, solitamente croce e delizia del pubblico che, spesso, per gustarsi l’interpretazione di un proprio beniamino deve sciropparsi un calderone sconclusionato di partecipazioni di livello altalenante, aratteristica aliena dalle produzioni del Nostro.
A partire da “Amarcord Nino Rota” e passando per tributi a Thelonius Monk e Charles Mingus (con parteciapazioni che vanno da Bill Frisell a Peter Frampton, dai fratelli Marsalis a Debbie Harry, fino a Henry Rollins ed Elvis Costello), ci piace soprattutto ricordare capolavori quali “Lost In The Stars: The Music Of Kurt Weill” e “Stay Awake: Various Interpretations From Vintage Disney Films”.
Il primo, intenso e accurato, risale al 1985 e vede un cast eccezionale (Sting, Tom Waits, Lou Reed, Van Dyke Parks, Charlie Haden, John Zorn, Carla Bley, Dagmar Krause e persino Todd Rundgren) al servizio di un repertorio che, benché conosciuto anche dal pubblico “generalista” (alzi la mano chi non ha mai ascoltato Mac The Knife o le versioni dei Doors e di David Bowie di Alabama Song), riuscì a soddisfare i critici più esigenti.
Di “Stay Awake” (1988) diremo che si tratta di un miracolo di equilibrio: gli artisti coinvolti sono meno legati al mondo del jazz e dell’avanguardia (Michael Stipe, Natalie Merchant, Los Lobos, Suzanne Vega, Syd Straw, David Johansen nei panni di Buster Poindexter, James Taylor, Ringo Starr, Harry Nilsson e persino rocchettari come NRBQ e The Replacements), ma non mancano i riveriti nomi di Bill Frisell e Sun Ra con l’Arkestra, oltre a Tom Waits, Sinéad O’Connor e Bonnie Raitt.
Il repertorio di partenza è rischioso, sarebbe bastato un nonnulla per perdere la scommessa, ma entrambi i tributi risultano coesi, originali, piacevolissimi all’ascolto benché non convenzionali. In mezzo a queste due pubblicazioni, Hal trova modo e tempo per risollevare una carriera, quella di Marianne Faithful (da “As Tears Go By” rimarrà poi pressoché sempre dietro la console della chanteuse britannica, cucendole addosso incisioni stupende) e riprendere il filo del discorso con Lou Reed, che era rimasto affascinato dal lavoro fatto per September Song, nel tributo a Weill, al punto da volerlo accanto per “Ecstasy”, “The Raven” e “Lulu”, la stranezza incisa coi Metallica.
Giungono continue richieste di artisti desiderosi di essere prodotti da lui: Gavin Friday, Joni Mitchell, William S. Burroughs, Laurie Anderson, e molti altri. Anche Lucinda Williams, apparentemente molto distante da certi suoni e fresca del successo di “Car Wheels On A Gravel Road”, disco di solido impianto roots rock, decide di non sedersi sugli allori e si affida a Willner per “West”, album ispiratissimo che la vede approcciare il sound più “profondo” organizzato dal produttore nativo di Philadelphia e adottato da New York.
Altri tributi, da quello benefico dedicato alla New Orleans messa in ginocchio dall’uragano Katrina, per il quale produce 3 brani, a un altro capolavoro da lui ideato e organizzato, frutto dell’idea di un concerto: “Rogue’s Gallery (Pirate Ballads, Sea Songs & Chanteys)”, doppia raccolta di brani della tradizione marinara interpretati da un parterre de rois incredibile (Bono, Bryan Ferry, Loudon Wainwright III, Richard Thompson, seguito dal figlio Teddy, ecc.) che meriterà un seguito nel 2013 intitolato “Sons Of Rogues Gallery”, altrettanto godibile e con artisti completamente diversi dal capitolo precedente.
Numerose le produzioni di spettacoli, il più famoso dei quali fu il concerto-tributo a Tim Buckley, che spinse il figlio Jeff a presentarsi sul palco e sancì l’esordio di un’altra luminosissima, e infaustamente altrettanto breve, carriera.
Allo stesso modo, non si contano le colonne sonore: infiniti i titoli e sempre di altissimo livello, l’apice probabilmente rappresentato da “Million Dollar Hotel”. Ma la vera peculiarità è che in tutto questo vorticoso lavorio di produzione conto terzi, Hal Willner ci ha lasciato un’unica testimonianza a suo nome: “Whoops, I’m An indian” è un viaggio incredibile, ritmi funky, second line, drum&bass, sui quali poggiano sample rubati qua e là nel mondo del jazz e di ogni tipo di musica fosse stata incisa su 78 giri degli anni 20 e 30. Strepitoso. Grazie anche per quello, Hal: ci mancherai.

Massimo Perolini

Appassionato di musica, libri, cinema e Toro. Ex conduttore radiofonico per varie emittenti torinesi e manager di alcune band locali. Il suo motto l'ha preso da David Bowie: "I am the dj, I am what I play".