SONGS FROM THE BIG CHAIR – Tears for fears (1985)
Fine Febbraio 1985 .
Ci sono ancora cumuli di neve grigia, se non nera, in giro per la città. I lunghi giorni di straordinaria nevicata ininterrotta di gennaio hanno lasciato tracce che richiedono tempo e un rialzo deciso delle temperature che tarda ad arrivare per riuscire a sciogliersi ed abbandonare finalmente le strade.
Vado a scuola in autobus, è l’ultimo anno di liceo, è in arrivo lo spauracchio della maturità. Siamo rimasti solo in 14 in classe e riempiamo un’aula minuscola con la tradizionale disposizione dei banchi.
Un passo indietro dopo la splendida esperienza del quarto anno che ci ha visti tutti raccolti intorno a due grandi tavoli uniti posti al centro dell’aula con il professore di turno ad occupare uno dei quattro lati in una situazione che in qualche modo mi ha fatto sempre pensare ad una sorta di “comune” scolastica.
C’è una vibrazione latente in classe man mano che ci avviciniamo al 16 marzo, la data prevista per la partenza per la gita scolastica. La destinazione ? Berlino, quella Berlino ancora spezzata in due dal Muro che racconta come nessun altro luogo cos’è l’Europa nei decenni della guerra fredda.
Videomusic è nata da poco meno di un anno andando ad affiancare la propria programmazione quotidiana di videoclip alle poche ore destinate allo stesso medium dalla “Deejay television” di Claudio Cecchetto.
I video sono ormai diventati il mezzo principale per la promozione e la diffusione della musica. Sono “il nuovo”, “la modernità” e in questo si affiancano all’altra assoluta novità nell’ambito di fruizione del suono: “il Walkman” introdotto da pochissimo dalla Sony ed in grado di regalarti quella stravolgente esperienza di vivere la vita quotidiana circondato dalla tua personale colonna sonora.
In quei giorni a cavallo tra febbraio e marzo c’è un video in heavy rotation che in pochissimo tempo diventa uno dei tormentoni per eccellenza del 1985.
Una scogliera, due ragazzi poco più vecchi di noi in cappottone “dark” e “mullet” d’ordinanza sfogano verso il mare a pieni polmoni quel potente ed immediato refrain che in pochi minuti non potrai più dimenticare “Shout, Shout, let it all out these are the things i can do without, come on, i’m talking to you, come on”.
E che cosa puoi volere di più a 18 anni se non urlare a pieni polmoni quello che vorresti anche se non sai ancora bene magari che cos’è; cosa puoi volere di più se non liberarti urlando dei dubbi, delle insicurezze, delle fragilità che hanno rivestito parti significative della tua adolescenza ?
“Shout”, chevvelodicoaffare, diventerà una delle colonne (sonore) portanti di quella gita scolastica.
I Tears for Fears, perché è di loro che si parla, un paio di anni prima avevano riempito i dance floor delle discoteche più di tendenza con “Change” uno dei singoli tratti dal loro esordio “The hurting”, un album che sin dal titolo e dall’immagine del bimbo piangente in copertina ti sputava in faccia il dolore di un adolescenza di pena e sofferenza, sublimandolo in brani che riuscivano a coniugare in modo splendido immediatezza pop e intensità emotiva. Gli altri due singoli in particolare “Mad World” e “Pale Shelter” non perderanno mai il loro appeal e saranno in seguito spesso recuperati anche da altri artisti in cover piu’ o meno riuscite.
I nuovi Tears for Fears dell’85 sono più muscolari, paiono più sicuri, più decisi, nel clip di “Shout”, frutto peraltro dell’esperienza terapeutica dell’”urlo primario” concepita dallo psicologo Arthur Janov resa popolare anche da John Lennon, addirittura si presentano in forma quasi epica.
L’album “Songs from the big chair” sarà uno dei blockbuster di quel 1985, un successo probabilmente inatteso e straordinario nelle cifre, e tale da creare quasi un blocco creativo al duo che riuscirà a tornare al disco soltanto quattro anni dopo, in un periodo in cui restare lontani dal mercato per più di un biennio equivaleva ad una sorta di suicidio commerciale.
Il traino più potente dell’album resta il secondo singolo che riempie l’etere per l’intera estate del 1985, onnipresente, come l’aria: “Everybody wants to rule the world”, un altro titolo ammantato di spirito positivo sebbene le inquietudini di Roland Orzabal e Curt Smith, come emerge dai testi, siano tutt’altro che sopite.
“Songs from the Big Chair” è un disco pop di qualità adamantina, un pop cesellato e costruito pezzo per pezzo, modernissimo per l’epoca, decisamente ispirato nella scrittura, capace di sperimentare ed osare negli arrangiamenti come avviene nella sublime “The Working Hour”, nelle cavalcate ritmiche “Mother’s talk” e “Broken”, nei passaggi più rarefatti di “I believe” (dedicata a Robert Wyatt) e della conclusiva “Listen”, e con linee melodiche irresistibili quale quella di “Head over Heels”.
Un disco da accostare nel suo scintillante splendore alle prove coeve di Peter Gabriel e dei Simple Minds.
Le cose cambieranno radicalmente negli anni a venire. I Tears for fears riusciranno a mantenere fama e successo anche con il successivo riuscito e iperprodotto “Sowing the seeds of love” nel quale tuttavia si perderanno inevitabilmente, com’è normale che sia, le tracce di quei due ragazzi dolenti ripresi sulla copertina di “The hurting”.
In quel 1985 erano crisalidi che stavano tramutandosi in farfalle.
Erano in quel momento preciso. Il momento perfetto.
E mi piace pensare che forse lo ero anch’io.