ROBYN HITCHCOCK @Circolo della Musica, Rivoli.
Alcuni compositori trovano nel dramma tragicomico dell’amore il significato centrale della vita. Altri lo vedono emergere nello scontro di movimenti sociali e politici. Robyn Hitchcock vede le verità dell’esistenza – o le sue mancanze – dentro inquietanti lucertole o uomini con la testa a forma di lampadina. Più simili ai koan zen che alle canoniche narrative, le sue canzoni esprimono l’indefinibile stranezza degli esseri viventi attraverso una visione surreale spesso più veritiera della più intima ballata. Euforico o tetro che sia, Hitchcock non fa dei suoi dischi che un portale per l’anima e la sua arte non è null’altro che un mezzo espressivo per mantenere sano il cervello. Ma soprattutto, quella visione è radicata in una scrittura che può evocare il lirismo tormentato di Nick Drake, il delirio psichedelico di Syd Barrett o le sonorità folk-rock dei Byrds.
La serata è fredda. Per il nostro rendez-vous la cornice è quella splendida del Circolo della Musica di Rivoli. Mi sono sempre chiesto perché Hitchcock non scrivesse un libro per bambini, alla Lewis Carroll, intendo. Sarebbe perfetto per i bambini. Forse perché, in realtà, scrive per noi adulti, noi adulti rimasti bambini e ne intravedo tanti, come me, di bambini in sala. Mette giù le cose con la stessa consuetudine che utilizzerebbe un bambino. E quindi, tutto ha la stessa importanza, e i personaggi che ufficialmente esistono, come Donald Trump o Boris Johnson, convivono con persone che potrebbero non esistere, come il diavolo. Quelle stesse cose che si manifestano quando ti addormenti o insegui un coniglio bianco e ti imbatti in una specie di storia e inizi a vedere delle cose: il ginocchio di una cameriera, gli occhi di una bella ragazza o carte geografiche appese con mollette da bucato. Penso siano lì per sanguinare nella mia coscienza.
Per il mio personalissimo banchetto del tè, prima di lui, Robyn, il Cappellaio Matto, introduce la sua Lepre Marzolina, Emma Tricca. Solo la musica e la letteratura possiedono il potere evocativo di trasportarti “altrove”. Bastano due note è, anche se fuori non sale la nebbia di Avalon, ti ritrovi a Londra, nel 1967, in luoghi come il Troubadour a Earl’s Court o il Les Cousins a Soho. Emma è romana d’adozione, da molti anni trasferita in Inghilterra, non certo una “chitarra in fuga” per inseguire il successo, ma soltanto per assecondare il dharma. Ho consumato il suo ultimo album “St Peter” (Dell’orso Records 2018) e, sebbene maneggi stupendamente la nobile arte del brit-folk, nella sua musica c’è molto di più. Un’evoluzione del genere in chiave sperimentale, come fecero gli Espers” e più recentemente Ryley Walker. Anzi, se dovessi citare un altro artista, menzionerei Jason McNiff e il suo bellissimo “Joy and Independence”. Mi capita spesso di ripensare al senso liquido della musica, a come possa essere indefinibile o, meglio, definita in modo diverso per ognuno di noi e quanto questa generazione di musicisti colga perfettamente questo aspetto. Basterebbe la stupenda The Servant’s Room per definirne il concetto. L’incantesimo finisce dopo poco, troppo poco, e Emma sparisce dietro una delle sue tazze.
Eccolo il Cappellaio. Ci sono artisti che, più che persone, sembrano storie in movimento. Hitch sale sul palco, scarmigliato, indossa la classica camicia a pois bianchi appena fuori da un paio di pantaloni grigi. Uno statement artistico, insomma. Perfettamente riuscito. Sempre uguale a se stesso, sempre adorabile. Si siede al pianoforte e attacca Astronomy Domine (Lime and limpid green, a second scene/Now fights between the blue you once knew) seguita dalla struggente “Flavour of Night” con il suo coro (You, yeah, you/with your ice cream hands/you, yeah, you/are my friend), che è una delle vette di “I Often Dream of Trains”. Somewhere Apart” è Lennon puro (Somewhere apart/Somewhere you must be dreamin’/Somewhere the world is screaming), non so quanto sia una rilettura di “Remember”, ma è sorprendente quanto gli sia vicino. Ultimamente, mi è successo anche con Bill Fay, quando ascolto un artista al pianoforte, sento Lennon, sempre solo Lennon. Il passaggio alla chitarra è con “The Abyss da “Tromsø, Kaptein” e Tonight dal secondo album dei Soft Boys “Underwater Moonlight” (I am me and everywhere tonight/I am me and everywhere tonight/I am me and everywhere tonight/Tonight). Metà del divertimento in un concerto di Hitchcock è vedere dove ti porta il suo capriccio tra una canzone e l’altra. Chiede scherzosamente al mixer per tutta la durata del set: “Se potessi far suonare la mia voce come qualcosa tra David Crosby e John Lennon, sarebbe fantastico“. Scivola tra la politica, il personale, il superfluo e lo struggimento. A volte è così silenzioso che si riesce a sentire il respiro del vicino. A volte è impossibile soffocare le risate.
Ha più di 40 anni di canzoni alle quali attingere, Madonna Of The Wasps è una pop song senza tempo, Queen Of Eyes ancora dal reportorio dei Soft Boys e Be Still da “Love from London” dove gioiosamente gioca sui contrasti (Be still/Let the darkness fall upon you!).
Hitchcock utilizza spesso accordature aperte che conferiscono alla sua musica un timbro psichedelico. Attenzione un timbro, un’attitudine. Hitchcock non ha mai suonato psichedelia. E proprio con The Lizard”, dal suo primo album da solista, strizza la sua chitarra per ricavarne quel suono. Saturday Groovers e Hurry for the Sky vengono dal reportorio con i Venus 3. Specialmente la prima è zucchero filato (All the mad old girls/Mad old boys/Did we ever get it together). Cynthia Mask ha un attacco fantastico (Napoleon/Wore a black hat/Ate lots of chicken/And conquered half Europe/Napoleon/Was caught by the British/Imprisoned on Elba/He died on the phone). Ricordo una sua vecchia intervista. “Qualcuno stava cercando di convincermi che Cynthia Mask parlasse del declino dell’Impero Britannico, ho pensato fosse sorprendente. È come guardare le nuvole e dire: Hanno la forma di un cammello? O forse è un’anatra?”. Caramelle per il cervello, la sua più grande impresa sta nel dimostrare che le narrazioni possono essere intellettualmente rinfrescanti senza essere letterali. Sunday Never Comes è tratto dalla colonna sonora di “Juliet, Naked”, I’m Only You (I’m a house that burns/Down every night for you/Sometimes when I’m lonely, baby, then I’m only you) illustra perfettamente quanto sappia bilanciare la tenerezza di una canzone d’amore con una prospettiva non convenzionale. Non si arrende mai all’umorismo. I Used To Say I Love You sempre da “I Often Dream of Trains” è una serenata, perché sognare spesso treni, specialmente quelli per Glasgow, è meraviglioso. Virginia Woolf, Glass Hotel e Just Like a Woman di Dylan chiudono il set. Le canzoni altrui raggiungono aree emotive alle quali le tue non riescono ad arrivare. Tendono a coprire una certa parte del tuo spettro emotivo. Hitchcock ha sempre amato Dylan. È nato nel 1953, quando Dylan pubblicava “Blonde on Blonde” era solo un adolescente. Semi recluso al Winchester College lontano dalla famiglia, da tutti quelli che conosceva in un mondo completamente alieno, ma c’era la musica di Dylan (How does it feel, how does it feel?/To be without a home/Like a complete unknown, like a rolling stone). Anni dopo vedendolo per la prima volta all’Isola di Wight con il suo vestito bianco e la sua voce, fu come guardare la sua amata scendere dal treno. Gli alterò la struttura metabolica, la sua ““personal mineshaft of bleakness”. Sono parole sue. “You can see that music. It’s visual, like fireworks, like LSD. It’s in my DNA”. Ma era solo un ragazzo inglese e l’altro un ebreo del Minnesota.
Benedetto Cappellaio neanche il tempo per una sigaretta. Rieccolo al pianoforte, come se ricominciasse. “Ted, Woody and Junior” è una delle più amate (Ted, Woody, and Junior/Stand in the bath together/And cover each other with soap) e quando sale in cielo (It’s a wonderful world/With a lot of strange men/Who are standing around/And they’re all wearing towels) è una meraviglia. Mi ritorna in gola quel sapore lennoniano anzi ci sono giorni nei quali “Ted Woody & Junior” è la mia canzone di Lennon preferita. Take Off Your Bandages nel encore finale chiude in satira politica dedicando “I Want To Destroy You a Johnson, Trump, e Rupert Murdoch. La canzone, che, come sempre, sogghigna selvaggiamente rimane una delizia. Ne cambia pure il testo (A pox upon Fox media and all that he owns/He’s acquired Jerry Hall but was never in the Stones). Un modo inarrestabile per concludere una notte favolosa.
Hitchcock, l’artista, l’uomo, è una sorta di affascinante nichilista, un personaggio con radici ancora piantate nella sua adolescenza quando, mentre la maggior parte dei ragazzi giocavano a cricket, stava già formulando il suo cinismo costruttivo. Né questo pessimismo pervasivo né un’educazione comoda e borghese avrebbero soffocato la sua iperattiva immaginazione. La creatività gli è sempre stata di grande aiuto. La devozione di suo padre per il folklore tradizionale inglese ha avuto un forte impatto su di lui, ma le sue influenze più vere sono state quelle di Dylan, Beatles, Kinks, dei Velvet Underground e Captain Beefheart. E Syd Barrett, ovviamente. Con i suoi racconti di cattedrali di vetro, fantasmi neandertaliani, api, vespe, ragni e aggressioni di marshmallow. È sorta di aiuto visivo alla musica. E questo sguardo nell’affascinante psiche di ognuno di noi è il fascino indelebile di questo artista che avrà sempre il mio cuore.
“Sono sicuro di avere un sapore tutto mio; non saprei dire quale sia, perché non ne ho la prospettiva. Così come un pompelmo non sa che aspetto ha, ma tutti gli altri frutti sanno che aspetto ha il pompelmo. Sono grande come il pompelmo; sì! Giallo. Rotondo. Oh, pensavo fosse un’arancia. No, lava i bicchieri, banana. Quello è un pompelmo! Sono solo uno di quei frutti che non si conoscono, in realtà.” (Robyn Hitchcock)