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There is no year: Algiers (Matador 2020)

Diciamola tutta fino in fondo. L’impressione a caldo è che gli anni dieci siano stati nel mondo occidentale anni di rinuncia e accettazione, anni in cui ci si è chiusi in casa dietro lo schermo a vedere passare gli eventi rinunciando ad agire da protagonisti.
Utilizzando terminologie desuete, abusate, forse fastidiose, è stato un decennio di riflusso, quasi andando a ripetere trent’anni dopo i “famigerati” anni 80. Sono stati in sostanza dieci anni in cui la massa si è lasciata guidare in modo passivo se non totalmente acquiescente, in balia di una realtà in rapidissima evoluzione tecnologica e soprattutto di una rivoluzione senza precedenti nei mezzi di comunicazione e informazione che nel mentre aprivano i nostri possibili spazi di visione e conoscenza riducevano paradossalmente al contempo i confini del nostro mondo, troppo spesso costretto all’interno dei quattro lati dello schermo digitale.
Non è certo mancato il malessere in un decennio di crisi economica profonda quale quello iniziato nel 2008. Quella che è  invece mancata è stata una risposta critica di massa decisa e concreta, è mancata la discesa nelle piazze che per decenni era stata la risposta normale ed automatica al disagio ed alla rabbia della gente.
Le prime avvisaglie che qualcosa stava iniziando a cambiare si sono avute nell’ultimo anno appena terminato. I Fridays for future in tutto il mondo e i movimenti di piazza più  o meno pacifici ad Hong Kong, in Cile, in Francia hanno fatto intuire un cambio di passo, è parso che sia tornato ad essere impugnato nel 2019, soprattutto tra i più giovani come è giusto e normale che sia, il vessillo del “People have the Power” cantato da Patti Smith più di trent’anni addietro.
Sotto questi nuovi auspici si apre il nuovo decennio (al di la delle polemiche per cui ad essere matematici inizierebbe in realtà tra un anno preciso) e anche l’arte è chiamata inevitabilmente a fare la sua parte.
L’uscita del terzo album degli Algiers il giorno Venerdi 17 del primo mese degli anni venti non sembra casuale. Pare proprio in qualche modo essere al posto giusto al momento giusto nella sua chiamata alle armi riecheggiata sin dai versi dei primi due brani del disco.
Al contesto disegnato dalla title track “There’s no Year”( “mancano due minuti a mezzanotte, e stanno costruendo castelli di carte che continuano a salire fino al giorno in cui crolleremo tutti. Mentre il nemico ci circonda e ci consuma lentamente, continueranno a salire sino al giorno in cui cadremo tutti. Ci stiamo preparando al suono”) rispondono le parole di “Dispossession” (“Correte via, scappate dalla vostra America mentre brucia nelle strade, saremo lì ad attenderli, pronti all’aggressione, correte a dirlo a tutti, presto saremo liberi”).
Quando le prime note del disco, echeggianti i Suicide, vengono sovrastate dalla potente voce soul di Franklin James Fisher è quasi inevitabile sentirsi smuovere qualcosa dentro, sentire ribollire il sangue da qualche parte negli organi, sentire il battito del cuore accelerare.
E allora rivedi gli MC5 nel 1968 al convegno dei democratici a Chicago, rivedi la copertina di “There’s a riot goin on” di Sly and the family stone, risenti l’attacco di Bombtrack sul primo Rage Against the machine e li vedi sul palco nudi con la bocca incerottata a Philadelphia nel 1993, rivedi John e Yoko nel bed in all’HIlton di Amsterdam, rivedi gli scontri di Detroit nel 67 e di Los Angeles nel 93, risenti i Clash urlare White Riot, rivedi il subcomandante Marcos nella selva lacandona, risenti  Gil Scott Heron raccontare che la rivoluzione non sara’ teleripresa, rivedi…rivedi.…
L’armamentario verbale non lascia margini a dubbi. Le parole chiave sono: confronto, lotta, rivoluzione. Ma il tessuto del disco è tutt’altro che meramente retorico e scontato. L’ensemble multietnico di Atlanta porta a perfetta cottura la magica ricetta di quel Gumbo che aveva fatto gridare al miracolo molti già nel 2012 all’epoca dell’acerbo esordio per essere rinforzata con il secondo “The Underside of Power”.
Amalgamare il calore e la profondità del soul e del gospel con una matrice di electro rock industriale era un tentativo già  portato avanti con alterni risultati dai TV on THE RADIO e gli Algiers parevano ripartire da quella piattaforma rinforzando da un lato la spiritualità  dell’espressione e dall’altro il portato politico sociale dei testi. Tuttavia non sempre nei primi due tentativi   il songwriting era stato all’altezza.
“There is no year” è stato registrato in sole due settimane nello stesso luogo, un modo radicalmente diverso di operare per la band, i cui primi due album erano frutto di registrazioni sparse effettuate in luoghi diversi e fatte girare tra i membri del gruppo nel primo caso o da sessioni in diversi studi di registrazione durante i tour nel secondo.
L’impressione netta, e parlo da ascoltatore che si era mantenuto fino ad oggi scettico, è di un lavoro più conciso e più a fuoco.
Il titolo “There is no Year” è preso in prestito da un romanzo  di Blake Butler uscito nel 2011 all’inizio del decennio, una distopia postmoderna che ha a che fare con la vita di una normale famiglia americana che prende possesso gioiosamente di una nuova casa per ritrovarsi fianco a fianco vicini di una famiglia praticamente “gemella”. Giorno dopo giorno la vita della famiglia inizia a fronteggiare una serie di eventi negativi ed inquietanti in una progressione claustrofobica quasi orrorifica.
Il concept di fondo del disco quindi pur nella sua matrice arrembante si mantiene in un ambito che non rinuncia al privato, anzi nei suoi momenti più intimi (Losing is ours,  Wait for the sound e Nothing Bloomed) affonda il coltello nel malessere interiore, quello chiuso all’interno delle pareti di casa, quello che comprime lo sterno la mattina quando di alzi dal letto. E i suoni profondi e notturni dei sintetizzatori affiancati da dolenti claps e cori gospel ne disegnano in modo estremamente puntuale il contesto.
Il cuore del disco e’ in quel “We all dance into the fire” ripetuto ad libitum nel suo brano più intenso “Hour of the furnaces”: l’ora dei forni, che citando l’omonimo film del 1968 manifesto del terzomondismo rivoluzionario sudamericano diventa il momento perfetto nel suo riuscire a disegnare la nostra danza sull’orlo del precipizio nell’anno di grazia 2020.
Tanti sono i riferimenti sonori che trovi in questo eccellente “Gumbo” made in Atlanta: il Sax impazzito alla Coleman/Coltrane innestato su un groove quasi NIN in “Chaka”, il motorik beat a la Neu/Kraftwerk di “Repeating night” su cui si appoggiano arpeggi chitarristici evocativi di certa wave, la chitarra punteggiata all’inizio di “We cant’ be found” che richiama quella della bowiana “Lazarus”, lo space/hardcore frontale e senza compromessi di Void figlio di Fugazi  e Bad Brains a chiudere con un pugno in pieno viso il disco…e si potrebbe continuare a lungo.
Ma, cosi come accade con gli LCD Soundsystem a citare un altro progetto che lavora in modo simile con i riferimenti della storia musicale,  tutto questo è inserito in una cornice pienamente personale e inconfondibile e soprattutto concisa e concreta, in un disco perfettamente figlio del proprio tempo, un disco del “qui e ora”, un disco di cui si sentiva il bisogno, un disco finalmente “necessario”.

 

 

Ettore Craca

"Nel suono, nella pagina, nel viaggio, nell'amore io sono. In ogni altro luogo e tempo non sono".