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The Rise and fall of Kanye West: “JESUS IS KING”

“- Ma davvero ti piace Wagner? – Certo, anche se ogni volta che lo sento mi viene voglia di invadere la Polonia!” (D. Keaton e W.Allen in “Misterioso Omicidio a Manhatthan”, 1993)

È stata sempre un po’ questa la sensazione che ho provato nell’ascoltare Kanye West, sin da quando ho visto in tv il video (si, sulla tv pubblica si vedevano ancora video musicali) del suo primissimo singolo “Through the Wire”, contenuta nel suo primissimo album “The College Dropout”.
Ero un adolescente bianco di famiglia medio-borghese, in Italia, con problemi di autostima come quasi tutti gli adolescenti bianchi di famiglie medio-borghesi e mi ha sempre entusiasmato vedere la voglia di riscatto sociale, di rivendicazione della propria forza di essere umano, di volontà di alzare costantemente l’asticella, di superarsi, di migliorarsi di questo ragazzone nero con la mascella rotta a causa di un incidente stradale, che non si deprimeva per ciò che gli era accaduto ma che invece sfruttava questa orribile situazione a proprio vantaggio per scriverci una canzone, per scrivere il suo primo vero singolo che lo ha lanciato nello stardom mondiale.
Con gli anni Kanye West è diventato senza dubbio uno dei miei artisti preferiti. Ogni album un capolavoro, ogni album un misto di sacro e profano. Le musiche erano un benchmark per chiunque volesse fare musica black e non solo; i testi erano allo stesso tempo lirici e incantevoli e delle spacconate senza senso, incredibilmente kitsch e da un certo punto di vista inutili eppure fondamentali nell’economia finale del disco. Un esempio perfetto di come la musica non debba sempre avere necessariamente un intento morale, che spesso si trasforma in moralismo, ma possa essere pura catarsi. Un mondo nel quale tutto può succedere e tutto rimane lì, racchiuso. Tanto poi c’è il mondo reale con le sue regole e i suoi compromessi a svegliarti dall’incanto (“Wake up Mr West!”).
Con il tempo però la fama, la gloria, ha iniziato sempre più a compromettere la sanità mentale di Mr West e la morte dell’amatissima madre Donda nel 2007 è stata per l’artista il punto di non ritorno.
La qualità della sua musica non sembrava però averne risentito. Anzi. Come spesso accade ai veri artisti, questo ha permesso a Kanye di pubblicare il suo più grande capolavoro nel 2010: “My Beautiful Dark Twisted Fantasy”, osannato da tutti come forse non è mai successo ad un disco rap. Ma la situazione, aldilà dello studio di registrazione, è iniziata a diventare fuori controllo. Innumerevoli, imbarazzanti siparietti, quasi sempre oltre il limite della decenza e del buon senso, che facevano intravedere la sua bipolarità ben prima che il diretto interessato la ammettesse pubblicamente. Ed è così che, purtroppo, è arrivato il momento in cui anche la sua arte ha iniziato a essere compromessa da queste sue, forse a volte, insormontabili difficoltà private. Questo è accaduto in primis in “The life of Pablo”, la cui uscita è stata rimandata copiosamente come, ahinoi, è divenuta ormai prassi per il nostro amico. Le tracce sono spesso frammentate, quasi in versione demo in alcuni casi, il risultato finale è ancora una volta ottimo (“Famous”) ma le crepe si intravedono e si fanno spazio. Nel 2018 è toccato alle “Wyoming Sessions” allargarle ancora di più. 5 piccoli album di 7 tracce usciti a suo nome, “Ye”, “KIDS SEE GHOSTS” (con Kid Cudi), e a nome di numi tutelari della scena hip-hop come NAS con il suo “NASIR” che hanno riportato il nostro alla produzione, come avvenuto per “Daytona” di Pusha T e “KTSE” di Teyana Taylor. Album complessivamente deludenti, diciamocelo.
Eppure, quando Kanye è al microfono, soprattutto in “Ye”, il nostro riesce ancora a tratti a risvegliare il fuoco dentro di lui e dentro di noi (“All Mine”, ad esempio).
Nel 2019 la crisi artistica raggiunge, sin ora, il suo apice. Complice una fulminante conversione al Cristianesimo più estremista, decide volontariamente di recedere, come un braccio in cancrena, la sua parte più dissacrante, con l’obiettivo dichiarato di convertire l’umanità più recalcitrante al Grande Messia. Non ha calcolato, però, che senza la sua parte più profana, più libera, brilli molto di meno anche il suo lato più intimo e più sacro. Quello che non funziona nell’ultimo album “JESUS IS KING” è il fatto che sia un prodotto frettoloso, undici tracce che possono quasi considerarsi degli scarti di produzione se non fosse che siano stati creati appositamente per dare gloria a Dio. Manca sempre l’acuto, sempre, in tutto l’album. Sono canzoni stanche, create da un uomo stanco che per la prima volta ha degli obiettivi troppo grandi per lui. Il disco è comunque godibile e raggiunge una piena sufficienza ma non è più un disco di Kanye West. Il problema non è certo che lui abbia rinsaldato la sua fede. Canzoni gospel o con temi religiosi il nostro le ha sempre fatte e con ottimi risultati (“Jesus Walks”), Cristiano lo è sempre stato, seppur alla sua maniera. Come non lo sono le sue uscite pubbliche fuori dall’ordinario, o le sue idee politiche sempre più discutibili. Il problema è che il re mida della black music del nostro millennio ha perso il suo tocco magico, ha perso la sua lucidità anche a livello compositivo.
Vi lascio con l’invito di dare un’occhiata al cortometraggio di “Runaway”, che troverete in calce all’articolo, con la speranza che anche il nostro amato Kanye, come la fenice del video, possa bruciare per compiere il suo destino, per poter tornare a casa.
Piccolo spoiler: Al termine del video la fenice riesce nel suo intento e vola attraverso il cielo avvolta in un’aura dorata. Che sia di buon auspicio per West, perché oltre che Jesus anche lui possa tornare a essere il King!

 

Andrea Castelli

“All I want in life is a little bit of love to take the pain away, getting strong today, a giant step each day” (“Ladies and Gentlemen we’re floating in space” - Spiritualized)