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Wilco – Ode To Joy – L’Inno (sommesso) alla Gioia del grande gruppo di Chicago – dBpm

Ci sono dischi che sono legati ad una stagione dell’anno precisa, dischi che in quella specifica fase esprimono tutta la loro magia riuscendo a parlarti come non accade in altri momenti.
“Summerteeth”, l’album con cui i Wilco si allontanarono per la prima volta dall’orbita alt/country/folk per esplodere come una piccola supernova nel panorama pop americano era un album che già dal titolo reclamava con urgenza la propria appartenenza all’estate. Canzoni che ascoltate sotto il sole sprigionavano tutta la loro ricchezza in melodie, armonie e arrangiamenti, quasi come se i Beach Boys si fossero trasferiti a Chicago.
Venti anni esatti più tardi I Wilco ci portano in dono il loro disco autunnale, un inno alla gioia celebrato nel periodo dell’anno in cui rapidamente alba e tramonto si avvicinano giorno dopo giorno, lasciando emergere e poi sfumare pian piano le nostalgie per le infinite giornate estive.  “Ode to joy” è un disco vestito delle atmosfere della stagione in cui le foglie si aggrappano al ramo in un ultimo tentativo di restare vive pur sapendo che è questione di poco prima di spiccare il breve volo che le vedrà spegnersi in qualche aiuola. Abbiamo provato e riprovato a immaginarne un ascolto primaverile e semplicemente… niente da fare.
Partiamo dalla copertina, indefinibile, criptica, incapace di comunicare altro se non un freddo vuoto nel suo abito bianco e grigio. Davvero nulla che faccia presagire un peana alla gioia. Passiamo oltre.
Il primo incontro é con Bright Leaves (già…le foglie dicevamo) costruita su un drumming semplice, cadenzato, costante. Quasi una camminata lenta sotto un cielo plumbeo una domenica pomeriggio, quelle domeniche pomeriggio con le loro malinconie inevitabili che ognuno di noi conosce.  Il testo parla di pioggia calda, di neve, di lui e lei seduti in auto a discutere in preda allo scoramento e alla frustrazione con quel refrain “non cambio mai, non cambi mai, non cambierà mai” desolante nel suo ripetersi come un mantra. Altro che gioia, qui sono dolori.
Da solo con coloro che sono venuti prima di noi” è la cantilena ripetuta in Before us: I coltelli immobili posati nella credenza, un campanello alla porta che risuona nella chitarra appesa al muro, il ricordo di quando i combattimenti avevano una fine, mentre ora è la pietà a mancare in questo ritratto di amara solitudine.
La batteria di Glenn Kotche è netta nel rifiutare qualsiasi suono luminoso di piatti o charleston, solo tamburi e percussioni assortite segnano il passo ritmico dell’album costante, a volte, ad esempio in Quiet Amplifier, quasi ossessivo come un treno in galleria. Intorno chitarre acustiche ed elettriche, organi, pianoforti, imbastiscono, cuciono, decorano abiti eleganti ma mai sfarzosi sulle canzoni. Anche Nils spesso inCline a lasciarsi andare, resta più in controllo del solito, misurato come evidentemente richiestogli da Tweedy in ossequio ad un disegno ben chiaro.
Mi resta solo il mio desiderio di cambiare ma resto a letto tutto il giorno, non posso uscire dal mio dominio” l’amara confessione del proprio fallimento in One and half stars e’ un altro chiodo nella bara della gioia proclamata nel titolo, e ancora desiderio incompiuto si manifesta in Quiet Amplifier (“Vorrei che il tuo mondo mi appartenesse, ma non arriverà  alcun treno, ho atteso tutta la vita”) prima della “botta di energia” di Everyone Hides che, nel suo passo scanzonato, parla comunque di celarsi agli altri per proteggersi.
Le immagini di definitiva irreparabile perdita in White Wooden Cross (“cosa farei se una croce bianca di legno mi raccontasse che ti ho perduto? Il mio sangue ghiaccerebbe”) diventano le “bianche bugie” di Citizens per sfumare quindi nel ricordo di quanto si era stati fortunati a voler stare insieme prima che tutto finisse, cantato in We were lucky il cuore freddo del disco che nemmeno le chitarre a briglia sciolta alla fine riescono a riscaldare.
Dov’è in questa terra desolata la decantata gioia allora? Dov’è l’amore, né più né meno. E l’amore è dappertutto se non lo si teme, se non lo si rifugge: “Tante sono le cose che non ti posso spiegare, ma proprio adesso l’amore è ovunque, proprio ora sono spaventato, l’amore è qui …attenzione, il nostro amore è ovunque”. Ed è negli arpeggi scintillanti di Love is everywhere la più incantevole espressione di serenità del disco, un bagliore di gioia vera che si riverbera anche nella scanzonata Hold me anyway, alla ricerca di un abbraccio perché alla fine “l’avresti mai detto che tutto sarebbe andato a posto?”. Alla fine allora forse l’abbiamo trovata questa anelata gioia.  In extremis…eccola lì, è tutto nell’accogliersi e nel raccogliersi reciprocamente.
Ma naturalmente sarebbe troppo facile e scontato chiuderla così: i dubbi, le incertezze, le incomprensioni sono dietro l’angolo, tra una sniffata di cocaina, un sogno incompleto, il non sentirsi desiderati, una vita selvatica, una violenta lite, e l’ostinarsi a non credere che a lei non freghi più nulla. An Empty Corner chiude in…tristezza, quasi una Ashes of American flags ancora più desolata, diciassette anni dopo.
Un Inno a qualcosa che non abbiamo, a qualcosa che inequivocabilmente manca, insomma è questo “Ode to Joy”.
Diavolo di un Tweedy, da quando eri tornato a stare bene e ad essere felice ti si dava per “bollito” e con te i Wilco e tu cosa combini? Ci torni a raccontare storie di abbandono, solitudine, amore perduto, apatia, incapacità   di cambiare e lo fai tirando fuori dal cappello il vostro miglior disco da…………….(compilare a piacere) e lo dedichi per di più alla Gioia.
No Jeff non ci si può proprio fidare di te.

Qui trovate la nostra recensione del concerto di Padova e qui l’articolo di Riccardo Magagna su Jeff Tweedy.

Ettore Craca

"Nel suono, nella pagina, nel viaggio, nell'amore io sono. In ogni altro luogo e tempo non sono".