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“Io accuso, tu accusi, noi condanniamo”

Un’accusa non scompare solo perché non si può dimostrarla secondo regole giuridiche.
(Hermann Hesse)

Se la vostra quotidianità vi sembrerà povera, non date ad essa la colpa. Accusate invece voi stessi di non essere abbastanza poeti per scoprire tutte le sue ricchezze.
(Rainer Maria Rilke)

“I have sinned dear father, father I have sinned
Try and help me father”
(Queen, “Liar”)

Scommetto che a qualcuno di voi è già capitato di trovarsi davanti ad una persona davvero importante della propria vita, e di venir improvvisamente, ripetutamente, inesorabilmente posto sul bancone degli imputati. Come vi siete sentiti? Provo ad indovinare: colpevoli. Credo che sia normale. Certo: la reazione, umana e (se vogliamo) pure razionale che si ha, nel momento stesso in cui si viene accusati – per la primissima volta – di qualche nefandezza più o meno grave, è quella della negazione. “Negare, negare sempre, anche l’evidenza!” non dev’essere stato, la prima volta che è stato proferito a qualcun altro come consiglio o come affermazione aforismatica, un suggerimento da amico.
Sono anzi quasi sicuro che fosse la traduzione verbale di una reazione spontanea di quel tizio lì che, per primo al mondo, venne accusato con veemenza per la prima volta. Credo dovesse trattarsi di Caino, o probabilmente di qualcuno a lui temporalmente vicino. Ma a prescindere da queste digressioni fantastoriche, la reazione normale e immediata è statisticamente sempre quella: la negazione del misfatto, a sé stessi prima che agli altri. Ma a lungo andare, essere sul banco degli accusati, provoca reazioni sempre più sfumatamente diverse. Fino ad arrivare a ciò che dicevo prima: stancamente, ci si ritrova a pensare di essere davvero colpevoli, senza avere più la forza di reagire, né probabilmente altri argomenti rispetto a quelli che si sono già elencati o tirati fuori.

In campo lavorativo, questa situazione viene chiamata – con un banalissimo ma riassuntivo (così come sanno sempre essere gli inglesi) termine albionico – “mobbing”: in realtà dovrebbero chiamarla, più propriamente, “lento stillicidio simile a quella tortura cinese della goccia d’acqua che cade sulla testa e ti causa un feroce malditesta”. Ma forse “mobbing esistenziale” è più rapido da comprendere. Da una situazione del genere se ne può uscire, a mio modo di vedere, solo sconfitti: da qualsiasi lato vogliate guardarla, che ammettiate la vostra “colpa” – ormai diventata quasi causa ancestrale della discussione – o continuiate a negarla, non ci possono essere vincitori in una situazione come questa. L’esserne consapevoli potrà solo aiutarvi a non fare troppi ulteriori danni, in quello stesso momento.
Il silenzio non sarà di certo mai l’arma di una vittoria schiacciante, ma non è a ferire che si dovrebbe pensare in un momento come quello. Semmai, ad offrire un riparo, dentro cui attendere, ripararsi, e mettere tutti in sicurezza. Anche gli altri, dai vostri spigoli.

Stefano Carsen

"Sentimentalmente legato al rock, nasco musicalmente e morirò solo dopo parecchi "encore". Dal prog rock all'alternative via grunge, ogni sfumatura è la mia".