Live Reports

Jazz is Dead 2023 – Chi sei?

Bunker, Torino 26 -27 -28 maggio.

Già, “chi sei?”
La risposta nelle parole di Alessandro Gumbo, Direttore Artistico di Jazz is Dead:

“𝗖𝗵𝗶 𝘀𝗶𝗮𝗺𝗼?
Siamo in tanti, quasi troppi. Abbiamo registrato il record di presenza su tutti i giorni. Grazie per la fiducia, grazie a chi ci ha sostenuto.
𝗖𝗵𝗶 𝘀𝗶𝗮𝗺𝗼?
Siamo metallari, jazzisti, minimalisti, dronisti, siamo dancefloor, siamo attenti ascoltatori, alcuni abili ballerini.
𝗖𝗵𝗶 𝘀𝗶𝗮𝗺𝗼?
Siamo associazioni, siamo band, siamo solisti, orchestre, dj, tecnici, volontari, producer, label manager, baristi, facchini, social media manager, giornalisti, fotografi, circensi, siamo museo, siamo planetario, siamo cinema, siamo immagini, siamo musica, siamo silenzio.
𝗖𝗵𝗶 𝘀𝗶𝗮𝗺𝗼?
Siamo un contenitore senza forma, un appuntamento, una serata, un male incredibile alle orecchie, un male incredibile alla testa.
Siamo un festival internazionale.
𝗦𝗶𝗮𝗺𝗼 𝗝𝗮𝘇𝘇 𝗶𝘀 𝗗𝗲𝗮𝗱.”

 


C’è stata l’anteprima al CAP10100 con Jim O’Rourke e Eiko Ishibasi, ci sarà una serata extra al Cinema Massimo con ospiti gli Irreversible Entanglements capitanati da Moor Mother e un epilogo al Planetario dove si esibirà la violoncellista guatemalteca Male Fratti, ma il programma centrale dell’edizione 2023 di Jazz Is Dead si è concluso trionfalmente domenica sera con la straripante esibizione dei giapponesi Boris.
Il successo di un festival si può misurare in diversi modi. Il numero di presenze innanzi tutto, 8000 persone molte delle quali arrivate da fuori regione, distribuite nelle tre giornate è davvero impressionante.
L’efficienza dell’organizzazione è un altro dei motivi.
Si è avuta la netta sensazione “che il festival andasse avanti da solo“[Cit.]
Sono stati affrontati con grande professionalità gli eventi meteorologici (non è mancato nulla: caldo, umidità, pioggia battente e grandine), la gestione degli ingressi nelle aree dei concerti e tutta la logistica: siamo stati ospiti di un vero Bunker.
Ma credo  sia stata la selezione della line-up, frutto del meticoloso lavoro di ricerca di Alessandro Gumbo e dei suoi collaboratori il fattore più importante.
Una visione che non conosce confini unita al coraggio di osare ha portato ad assemblare una tre giorni all’insegna della libertà artistica e della genuinità di intenti, offrendo al pubblico la possibilità di assistere a esibizioni di musicisti di estrazione artistica e provenienza geografica molto distanti tra loro.


Fattore questo che rende il Jazz is Dead il festival italiano con la vocazione più internazionale, che porta ad avere un pubblico estremamente disomogeneo, un ritrovo per gli appassionati dei generi musicali più disparati a confermare la regola che la musica di qualità non conosce età e confini.
Un festival senza barriere.

La sfida di iniziare il venerdì con la musica da camera e terminare la domenica sera col fragore dell’heavy metal è stata vinta a mani basse.
In mezzo generi musicali distantissimi tra loro in un esponenziale crescendo ritmico e di decibel.
Quello che mi sono perso e che avrei visto volentieri: Leya, Shakleton, tutti i DJ-set e l’Orchestra Pietra Tonale che mi era piaciuta parecchio lo scorso anno.
Chi mi ha impressionato di più: i Moin, ovvero i Raime insieme a quel martello pneumatico che è Valentina Magaletti, batterista dotata di una potenza e precisione devastanti.


La loro formula mischia tutto il post – qualcosa che si possa immaginare, elettronica, campionamenti, rumore, con l’attitudine e la voglia di suonare che appartenevano a, che so, i Fugazi?
Ecco, in qualche modo mi hanno ricordano loro.
Per quanto mi riguarda il concerto più coinvolgente e trascinante dell’intera manifestazione.

Gabriele Mitelli + John Edwards + Mark Sanders, un trio che ha offerto un free-jazz ben organizzato nei suoni e nelle dinamiche. Del loro concerto ricorderò la bellezza dei fraseggi alla tromba e dei traetments elettronici dell’italiano, l’originalità della ricerca sui suoni della batteria di Sanders e soprattutto il trasporto e la sensualità, quasi un abbraccio con una donna bellissima, con cui John Edwards trattava il suo contrabbasso.


Il set dei C’mon Tigre è stato molto, molto bello. La naturalezza con cui sanno coniugare avant-jazz, strumenti acustici ed elettronici, ritmi africani e brasiliani è stupefacente. Un’alchimia sonora davvero speciale resa molto bene nei dischi in studio, che diventa esplosiva nella sua dimensione live. Fighissimi.


Tra le proposte della prima giornata mi è parsa di caratura superiore la cinese con base a Berlino Pan Daijing.
Il suo modo di stare sul palco e l’intensità con cui affronta le sue macchine hanno reso ancora più affascinante una proposta musicale in equilibrio tra estasi ambient e inquiete pulsazioni industrial-techno.
Molto delicato, forse fin troppo ma in linea con le intenzioni del programma, il set della canadese Sarah Davachi mentre NZIRIA ha proposto una per nulla scontata miscela di trance e NeoMelodico napoletano.
Può piacere o meno, di certo non è passata inosservata.


Un’altra proposta interessante è stata il trio Brandon Seabrook + Cooper-Moore + Gerald Cleaver, fragorosi e intriganti: propongono musica improvvisata e fuori dagli schemi dove un potente drumming e l’uso furioso del diddley-bow, un basso con una corda sola autocostruito e suonato dal formidabile Cooper-Moore, fanno da sfondo alla chitarra elettrica schizoide e al banjo modificato di Seabrook. Ne nasce una musica spontanea e travolgente, ossessiva, pulsante e psicotropa.
Stavo tralasciando i Lalalas, terzetto turco che mette molta carne al fuoco (e anche in vista) con un set energico che miscela elettronica, chitarre e ritmi orientali, godibile sul momento ma facilmente dimenticabile.


Il Daykoda 4tet, quartetto capitanato dal giovane milanese Andrea Gamba autore delle musiche, ha proposto del jazz sperimentale, a tratti molto morbido e in altri momenti più radicale, contaminato da influenze hip-hop ed elettroniche che non sfigurerebbe nel catalogo della International Anthem.


La chiusura come si diceva è stata affidata ai giapponesi Boris, vista la loro enorme discografia avrebbero potuto proporre qualsiasi tipo di show che rispecchiasse le loro derive doom e stoner. Invece no, dagli enormi Orange alle loro spalle sono partite centinaia di watt che hanno colato una miscela incandescente di hard-noise-punk’n’roll addosso a un pubblico accalcato contro le transenne, scatenando un gran bel pogo sfociato infine in un glorioso stage-diving come non si vedeva da tempo.


Jazz is Dead, nato timidamente nel 2017 è giunto ora alla completa maturità, in grado di affrontare il futuro con la sicurezza e la determinazione di chi è diventato adulto e porsi orgogliosamente a fianco dei grandi festival internazionali grazie a una formula che non teme confronti.
Lo meritano Torino, il bellissimo pubblico che lo frequenta e gli organizzatori stessi.

Author: Roberto Remondino

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Roberto Remondino

"Wishin' and hopin' and thinkin' and prayin' Plannin' and dreamin' each night of her charms That won't get you into her arms So if you're lookin' to find love you can share All you gotta do is hold her and kiss her and love her And show her that you care".