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La magia che volevamo. I Verdena live a Torino.

La magia esiste praticamente da quando esiste il suo presupposto: la possibilità di evocarla, esprimerla, di fascinare con l’eco delle sue formule, di affabulare i presenti con la musicalità singolare dello scandire di ogni parola. Nel famoso Film Excalibur di qualche anno fa – quella fantastica ricostruzione cinematografica della Saga di Camelot e di Re Artu’ – Merlino custodiva il segreto fantastico e tremendo della “Magia del fare”, una formula cantilenante che, approssimativamente, così intonava: “Anál nathrach, orth’ bháis’s bethad, do chél dénmha“. In questi pochi ed articolati fonemi, si racchiudeva il sommo mistero del piegare la realtà al proprio volere e alla propria immaginazione: ancor più singolare era che soltanto la giusta “musicalità” della frase apriva la strada verso la Magia del fare. La ripetizione delle sillabe in sequenza creava una energia ‘aliena’, avulsa da chi le proferiva, ma che stabiliva una connessione con l’essenza delle cose, con la coscienza delle persone: una connessione ancestrale, che quasi mesmerizzava gli stessi atomi della realtà fisica. E quella connessione diveniva tanto più potente quanto più quelle parole musicali entravano in connessione melodica con la fisicità stesse, facendola vibrare. Insomma, avete capito credo: la magia è connessione di fonemi e onde armoniche, una commistione di energia palpitante che tanto penetra nei legami tra cellula e cellula quanto più riesce a sostituire quegli spazi con la propria sostanza.
Era anche un po’ a questo che pensavo mercoledì, in piedi in mezzo alla sala del Teatro Concordia di Venaria Reale, mentre – letteralmente ad un passo dal mixer – ascoltavo Alberto Ferrari sferzare le ultime sillabe di “Volevo Magia”, lanciandole nel sottilissimo spazio, ormai divenuto elettrico, che separava persona da persona. Artefici di quella autentica stregoneria che ormai si era dispiegata quasi completamente alle orecchie e agli occhi dei fedeli accorsi, la paganissima trinità del rock italiano: quei tre laconici sciamani che al secolo – se considerati in rispondono al nome di Verdena, prima e ben più che ai rispettivi nomi propri. E quella musica, da tempo in tutto e per tutto consustanziale alla loro volontà artistica, aveva appena compiuto quel miracolo o – se preferite – quel sortilegio messianico, di riuscire a riempire una dopo l’altra tutte le sale in cui si sono materializzati.
Incantesimo, malìa, sortilegio, stregoneria: voi chiamatela come volete, ma io non ho un’altra più plausibile teoria che spieghi ciò che è successo in quel della data torinese. A cominciare dalla fauna presente. Che, se nelle retrovie vedeva alternarsi giovani chiome fluenti e variamente colorate, e ben più attempate e fulve capigliature, nelle avanguardie poganti annoverava una sequela di umanità gioviale e giovanile, altrimenti definibile come “Generazione α”, un mondo nuovo composto da pronipoti del rock, alla cui così copiosa presenza verrebbe difficile credere, se solo non l’avessi vista materializzarsi davanti a me. E non era l’incredulità di un miscredente quella che si alzava forte da me, in cerca di un appiglio che garantisse una visione più chiara di ciò che era palese agli occhi, ma autentica e divertita sorpresa: quella di un attempato appartenente alla setta, i cui sacerdoti sono certo più prossimi – per età, referenze, epoca – rispetto a tutta quella giovanissima accolita. Ma è stato solo un attimo: quello che è passato dall’ingresso nel santuario del trio – più che adeguatamente accompagnato, come spesso accade quando si materializzano dal vivo, da Carlo Maria Toller – fino all’attacco di Pascolare, primo brano del loro esaltante set di 23 brani, e quasi due ore di spellbound, liberatorio sollievo per un periodo di astensione durato addirittura sei anni.
Nelle vibrazioni del basso di Roberta Sammarelli – che, tra le altre cose, dimostra come non ci sia assolutamente bisogno di denudare seni e lanciarsi in amplessi mimati per infiammare il pubblico – la voce di Alberto, amplificata e come sempre un po’ distorta e raddoppiata al passaggio dalla pedaliera, ha salmodiato il suo fiele lisergico sui seguaci di ogni età, ormai sincopati dalle percussioni di Luca Ferrari – un tam tam di sottofondo tra un incantesimo e l’altro, praticamente in soluzione di continuità. Nessun fronzolo tra brano e brano, come piace ai tre stregoni bergamaschi: che certi retaggi – antichi quanto la magia che li contiene – non si possono lasciar cadere, anche se di mestiere non fai il carpentiere ma lo sciamano. Si passa dal nuovo all’antico (per modo di dire), tra un alternarsi di vibrazioni postpunk, distorsioni tardo-grunge e melodie indie. Il tempo passa veloce, molto più di quanto infinita sia sembrata l’attesa per riaverli live e vegeti.
“Non voglio realismo. Voglio magia.” faceva dire Tennessee Williams alla sua Blanche DuBois, tormentata protagonista del capolavoro “Un tram che si chiama Desiderio”, che – rivolgendosi al suo tragico amore Mitch – ribadiva “Sì, sì, magia. Io tento di fare della magia, altero la realtà. Non dico la verità ma quella che vorrei che fosse la verità, e se questa è una colpa, che mi puniscano pure.”
Ebbene, anche noi volevamo questa magia. Anelata per così tanto, che ancora ci rimbomba negli occhi, tra le orecchie, in ogni lembo di carne visibile e invisibile. Una magia che non si placa mai. Non temiamo punizioni, che la redenzione è sempre ad un passo più in là dalla dannazione. Un po’ esagero? Forse.

Ma, nel caso, anche io “Piani non ne ho \ Ho solo mille forse \ Mi ami o no? \ Splendida sorte \ Assaggia il mondo!”.

Stefano Carsen

"Sentimentalmente legato al rock, nasco musicalmente e morirò solo dopo parecchi "encore". Dal prog rock all'alternative via grunge, ogni sfumatura è la mia".