Live Reports

Thurston Moore & King Hannah – Live


Dumbo Bologna 11 Giugno 2022 

Dumbo (distretto urbano multifunzionale di Bologna)  è  l’acronimo coniato per designare un area a ridosso del centro cittadino destinata in passato ad ex scalo merci che, con un azzeccato richiamo all’omonimo quartiere di Brooklyn, è diventata un zona che offre in quantità  spazi per occasioni di incontro, intrattenimento,  esposizioni artistiche e culturali, concerti. Vi accedo che sono le otto passate, l’ora in cui dal calore della fiamma viva si passa a quello delle braci. Il concerto si tiene in uno spazio perfetto per l’occasione e la stagione, un’area chiamata Baia costituita da una piattaforma coperta da una sorta di loggiato che permette di essere all’aperto pur se al riparo dagli ultimi barbagli del sole ed eventualmente dalla pioggia.
L’atmosfera è rilassata, si beve e si mangia seduti su mobilio grezzo costruito con pallets, il palco in fondo è piccolo, poche luci, nulla di appariscente, molto punk rock nello spirito. 

I gallesi King Hannah iniziano a suonare che ancora è chiaro, ma il calore degli applausi di incoraggiamento denota come una buona fetta dei presenti sia lì anche per loro, forti di un album d’esordio “I’m not sorry i was just being me” (vedasi recensione sul sito)  che ha dato sostanzioso seguito all’ep “Tell me your mind and i will tell you mine” confermandoli come una delle promesse più scintillanti emerse nell’ultimo anno dalla scena britannica.
Hannah Merrick ha un magnetismo interiore che arriva immediatamente nonostante la mise del tutto ordinaria. Magrezza diafana, mani sottilissime che accarezzano con leggiadria le corde della chitarra, una voce profonda e sensibilmente più matura della sua giovane età che richiama vagamente quella di Hope Sandoval, è intorno a lei che si raccolgono gran parte degli sguardi della platea. Alla sua sinistra Craig Whittle, rosso chitarrista che sfoggia un berretto di lana nonostante le temperature, padroneggia con sicurezza lo strumento che è il fulcro del suono della band, un suono che scaturisce dall’indie rock degli anni ’90 ma ricco di sugo psichedelico con puntate in territori groovy presidiati dai Portishead. La sezione ritmica è fantasiosa senza mai strafare con la particolarità dell’impiego del basso Fender VI a sei corde, essenzialmente una chitarra Baritona accordata un’ottava sotto.

L’ossatura del concerto è ovviamente costituita da brani dell’album “A well made woman“ “Big Big Baby”, “Foolius Caesar” e la lunga incantata “The moods i get in”, cui si aggiungono la cover di Springsteen “State Trooper” da “Nebraska” e l’ipnotica “Creme Brulee” dall’Ep.
La musica dei King Hannah avvolge come una coperta ma allo stesso tempo l’oscurità  soffusa, a tratti quasi minacciosa, presente sottotraccia non permette mai di sentirsi eccessivamente cullati. E’ un suono che scaturisce con grande naturalezza nel quale si ritrovano echi noti ma allo stesso tempo mai scontati. Non e’ poco.
Il finale è affidato a “It’s you and me Kid” che sancisce la chiusura dell’album in una sorta di promessa reciproca di amicizia tra i due leader Hannah e Craig, un pezzo in grado di risvegliare sorrisi sopiti.
Per la seconda volta Hannah ringrazia Thurston Moore per l’ospitalità, facendo presente di essere a conoscenza che il pubblico è li per lui, ma l’applauso conclusivo qualche dubbio in merito lo lascia. Questa band ha conquistato molti cuori. 

E’ lo stesso Moore a presentarsi in pubblico come un roadie qualsiasi  per il cambio palco, lo spirito hardcore DIY non è sopito, come lui soltanto Bob Mould ho visto fare altrettanto tra le “leggende”.
Un artigianale simbolo della pace ricavato da rami d’albero viene piazzato avanti al microfono dallo stesso Thurston che la invoca a gran voce prima di lanciarsi in una rasoiata sostenuta di feedback o in duello con l’altra chitarra nelle mani di James Sedwards. E’ l’inizio di “Locomotives” uno dei lunghi brani di sperimentazione sonica del penultimo album il possente “By the fire”. 

L’ingresso del basso, anche questo un Fender VI, di Debbie Googe dei My Bloody Valentine e della batteria di Jem Doulton spettina gli astanti. E’ giusto ricordare sin dall’inizio con chi si ha a che fare. I 12 minuti di “Siren” sono ipnotici nel loro reiterare riff granitici e assalti sonici dalla paternità inconfondibile, quella di chi con i Sonic Youth ha vergato una pagina immortale nella storia della musica degli ultimi 40 anni.
Hascisc” e “Cantaloupe” riportano in ambito più tradizionalmente rock i binari dello show, brani solidi evidentemente figli dei Sonic Youth meno sperimentali, quelli di Dirty per intenderci. Altri brani dall’ultimo “Screen Time” oscillano in quel mondo a cavallo tra lontani riverberi dell’avanguardia e indie rock muscolare che trova nel feedback il suo substrato naturale.
Speak to the wild” chiude il concerto in bellezza, tra cascate di note pure e scintillanti e groove chitarristico figlio di quei nineties in cui l’alternative rock spadroneggiava in lungo ed in largo anche nelle classifiche. Pare ieri, sono passati trent’anni. 

La nostalgia per i Sonic Youth si fa sentire, ma Moore e l’ottima band ce la mettono tutta per non far troppo avvertire la mancanza di Kim, Lee e Steve, e nonostante i sessant’anni abbondantemente superati la credibilità e l’attitudine sono esattamente le stesse. 

Non è davvero cosa da tutti. 

Ettore Craca

"Nel suono, nella pagina, nel viaggio, nell'amore io sono. In ogni altro luogo e tempo non sono".