Live Reports

NICK CAVE & THE BAD SEEDS – Arena di Verona 4/7/2022

E’ a metà del tragitto tra Vicenza e Verona che tutto cambia. Il vento esplode con forza, il volante dell’auto tra le mani lo avverte, le chiome degli alberi sono sconvolte, detriti leggeri di vario genere iniziano a volare sul nastro autostradale, rallentiamo tutti, ancora niente pioggia ma il cielo sa di grandine ed il timore è quello di una possibile tromba d’aria.
Sembra di stare per immergersi nel suono dei solchi introduttivi di “Tupelo” il tour de force dedicato a Elvis The King che apre “The firstborn is dead” il secondo album di Nick Cave & The bad seeds, e non è coincidenza da poco dato che siamo diretti all’Arena di Verona proprio per incontrarlo tra poco meno di due ore.
Inizia a piovere in modo sostenuto mentre guadagniamo l’entrata, la giornata è stata torrida come le precedenti e pare che l’accoglienza meteorologica per Cave e i suoi sodali sia di quelle che intendono farsi ricordare.

La platea è ancora semivuota e così le gradinate. Il palco appare impacchettato a dovere per proteggere le apparecchiature, i roadies armeggiano alacremente, una voce avvisa che è stata sciolta la riserva, evidentemente legata a ragioni di sicurezza dato il fortunale da poco passato, ed il concerto si terrà regolarmente anche se inizierà non prima delle dieci. Ci mettiamo il cuore in pace infagottati nei ponchos impermeabili che man mano colorano a mo’ di arcobaleno tutta l’arena creando una sorta di sorprendente contrasto con l’aspettativa visiva normalmente immaginabile in una situazione simile.
Ci vuole mezz’ora perché il cielo decida di interrompere il pianto e restituirci un po’ di speranza. Sono passate le dieci, il palcoscenico è pronto, un intro vagamente riecheggiante quella di “Where the streets ha no name” nutre l’attesa.

Giù le luci, i Bad Seeds prendono posto, un boato accoglie l’ingresso di Nick e siamo subito dentro “Get Ready for Love” attestazione che più chiara non potrebbe essere di dove andremo a parare questa sera. E’ tempo di sentimenti forti. E’ tempo di comunione.
“There she goes my beautiful world” prende slancio sulla rodata macchina dei semi cattivi guidata con sicurezza ormai da un decennio da quel diavolo in barba, baffi e zazzera selvaggia che porta il nome di Warren Ellis.
Sulla destra della classica formazione a sei è collocato un coro gospel a tre voci, due femminili una maschile, che affianca con gran ricchezza di sfumature il baritono del leader che emerge con la consueta forza esplosiva dall’intensa coltre di suono.

Le prime parole di Cave sono di accorato benvenuto e ringraziamento, sono trascorsi da tempo i modi aspri e taglienti degli anni che ne videro l’ascesa, ma è evidente che un problema c’è e Nick se ne sta rendendo conto, pare, in questo momento. C’è una grande “fottuta” voragine tra il palco ed il pubblico. La buca per l’orchestra è rimasta vuota per ragioni di sicurezza e questo non può che costituire un vulnus per il compiersi del rito ormai irrinunciabile che lo vede dall’inizio alla fine semi immerso tra le braccia dei suoi fan in una continua ricerca di contatto fisico resasi evidentemente salvifica dopo il violento lutto che lo ha colpito.
In fondo se la montagna non va a Maometto, sarà Maometto a cercare la montagna e bastano un paio di minuti del primo tour de force in arrivo perché Cave tagli gli ormeggi che lo legano al palco e si proietti lateralmente, dopo aver mandato a quel paese qualcuno della security che tentava di frenarlo, verso le prime file, dritto verso di noi peraltro, subito accolto a braccia aperte in mezzo a voci declamanti al cielo l’eterno refrain “ From her….to Eternity”. Ed è già delirio mentre sale sulle gradinate alla destra del palco in bocca ad altri fan adoranti. Nulla, evidentemente, può frenare l’uomo Cave quando cerca il faccia a faccia frontale con il pubblico. Ne ha bisogno e non è disposto a rinunciarci per nessuna ragione.
“O Children”, delicata ballata dedicata all’infanzia e impiegata per questo anche nella colonna sonora di un episodio di Harry Potter, raffredda per un attimo animi già surriscaldati. E’ una breve pausa prima del brano che da circa un decennio segna, quasi come una cerniera, il momento in cui il concerto lascia il terreno e decolla. Lo scarto ritmico che interviene a circa metà di “Jubilee Street” ha una forza tellurica, in quel momento Cave molla qualsiasi freno istigando selvaggiamente l’eccitazione dei fan mentre il brano accelera e si gonfia passo passo. Un momento perfetto per sentirsi parte di una celebrazione comunitaria di intensità fuori dal comune.
“Bright Horses” inaugura la porzione del concerto che raccoglie quattro dei brani più sentiti delle ultime opere di Cave, quelle in cui ha tentato di venire a patti con il dolore di una perdita inestimabile ed irreparabile. Il tono si fa confessionale, Nick è al piano, Warren seduto di fronte con uno dei suoi aggeggi infernali. E’ tempo di preghiera, nostalgia, ricordo, bisogno, e di sofferenza per la sorte dell’umana specie: “I need you”, “Waiting for you”, “Carnage”. Al dolore personale si affianca la riflessione sul tormento che l’umanità si è trovata ad affrontare nell’ultimo biennio. Il silenzio è completo mentre la liturgia laica si compie in un invito insistito di continuare semplicemente a respirare “Justbreathjustbreath….”
Ma è già ora per il preacher man, il Cave in veste di biblico predicatore, di tornare ad incantare il pubblico frontalmente, ed è l’altra parte dell’arena questa volta ad essere direttamente assalita dalla furiosa cavalcata di “Tupelo”. Cave è già di nuovo immerso in una foresta di braccia, mentre il suo “BOOM BOOM BOOM” erompe come salve di cannone da un magma ribollente di corpi.
“Red Right Hand” e”The Mercy Seat” completano un trittico in cui la comunione tra l’artista ed il fan raggiunge l’apice. Potesse l’irrefrenabile Cave raggiungerebbe ogni punto dell’arena per offrirsi in pasto spirito e corpo ai devoti.

“The Ship song” a seguire è il peana all’amore come dono di libertà reciproca, che non manca dalla setlist da quando “The good son” che la contiene fu pubblicato. E’ pura perfezione compositiva fondata sull’interazione tra piano, vibrafono e coro, una melodia che tocca corde profonde la cui sollecitazione è inevitabile ogni volta che essa risuona. “we make a little history baby, everytime you come around”.
Il terzo ed ultimo bagno di folla è destinato alla celebrazione iconoclasta del Bosone di Higgs, la cui scoperta compie proprio oggi dieci anni. E’ una lezione magistrale di interazione tra Nick e I Bad Seeds, musica e cantato procedono affiancate nonostante la distanza tra palco e platea dove Cave spadroneggia senza confini. I crescendo, i calando, i rallentamenti, le accelerazioni, dinamiche che sono perfettamente calibrate da una conoscenza reciproca tra i musicisti ormai pluridecennale.
Il finale vede Cave riunirsi all’ensemble sul palco per quel treno in corsa che è “City of Refuge” e per l’inno gospel “White Elephant”, tratta da “Carnage” in cui il coro riesce ad aggiungere trasporto emotivo dove non parrebbe possibile nemmeno farlo tanta è la forza dell’originale.
Nick si profonde in dichiarazioni d’amore e ringraziamenti al pubblico mentre la band lascia il palco. La mezzanotte è superata, la prima impressione è che tutto sia terminato ma non è ancora il momento. Si trova ancora tempo per l’atteso abbraccio finale di “Into my arms”, solo pianoforte voce e coro del pubblico, e per la “Vortex” suonata con la band al completo a degno suggello di un incontro memorabile. Di quelli che lasciano traccia profonda nei giorni a venire.
Può disturbare questa presenza costante e a tratti eccessiva di Cave su tutti i canali comunicativi da quando è stato colpito dalla tragedia del figlio Arthur.
Come il forse eccessivo ricorso al registro confessionale ad essa conseguente.
E’ comprensibile.
Del resto un cambiamento di questo livello nell’approccio al contatto con il pubblico può essere spiegabile con la necessità di fare i conti con la profonda angoscia che un lutto simile inevitabilmente porta con sé.
E allora magari alcuni followers, soprattutto della prima ora, hanno preso le distanze dall’artista Cave persino rinunciando ad andare a vederlo, tacciandolo di ruffianeria e calcolo che avrebbero sopravanzato la genuinità selvatica di un tempo.
E’ ovvio, Nick è un professionista dotato di mestiere e perfettamente in grado di sapere costruire uno show che resti, eppure non c’è momento nella sua espressione live in cui la formula sopravanzi la passione, l’improvvisazione del momento ed il continuo dono di se stesso, del resto è sufficiente ricordare i palchi di cinque anni fa riempiti di pubblico in chiusura di concerto per rendersene conto.

Il fatto innegabile è che quando quest’uomo di quasi sessantacinque anni prende possesso di un palcoscenico è in grado di rivoltare come un calzino qualsiasi venue, di qualsiasi dimensione.
Cave è il più grande performer attualmente vivente.
Gli altri sono in un altro campionato.
Solo Springsteen può giocarsela.
Dio lo abbia in gloria.

Ettore Craca

"Nel suono, nella pagina, nel viaggio, nell'amore io sono. In ogni altro luogo e tempo non sono".