“Che faccio, vado?”
40 anni di armadilli, biliardi e rock da combattimento rivoluzionario.
Alzi la mano chi nel 1982 non aveva la Fiat Panda.
Comincio io, per due motivi:
A) avevo ereditato la Simca 1000 GLS azzurro metallizzato di mio papà.
B) Poco dopo, dato che la carrozzeria era così arrugginita, sotto la vernice, da bucarsi ogni volta che qualche amico sfiorava con un dito il cofano chiedendo “cos’è quel puntino?“, avrei condiviso con mia mamma una Citroën LNA. Che, se non l’avete mai avuta, era stabile come una 2CV ai 200 km/h, solo che lo era già agli 80, e aveva la particolarità di avere le leve al volante invertite. Per cui, i primi tempi, prima di prenderci la mano, mettevi in azione il tergicristalli e ti beccavi le strombazzate di chi ti accusava di non aver messo la freccia.
Tutti gli altri, però, avevano la Panda e ne erano felici. Perché era un simbolo di libertà: era squadrata, ma a due volumi, tipo una Volvo 740 (ammiratissima, all’epoca), dandoti l’idea di una famigliare (si cominciava a chiamarle “stescion uegon”, perché in inglese tutto sembra più figo) da viaggio, un po’ tipo quei mini-suv che oggi ti illudono di sentirti alla pari con quel vicino ricco che viaggia in Porsche Macan.
Aveva un’altra particolarità, la Panda: un mini cruscotto che spuntava dal nulla, attaccato al piantone, inserito in un rivestimento in tessuto che formava una specie di tascone continuo perfetto per contenere le cassette musicali da inserire in mangianastri posizionati nella maniera più fantasiosa: molti, invece di spendere soldi (di cui tutti, o quasi, eravamo a corto in quegli anni) per un’autoradio, posizionavano direttamente un radiolone modello “ghetto blaster” in quel marsupio.
I più arditi, per non spendere una fortuna in pile Varta, avevano creato collegamenti posticci con la batteria dell’auto. Il che ti faceva spesso ricevere telefonate a tarda notte del tipo: “Scusa, ma Tizia e io ci siamo fermati in un campo ad Orbassano, PER ASCOLTARE UN PO’ DI MUSICA, EH? ed è andata giù la batteria… potresti venire coi cavi?” (Ah: in quel momento non ridevate più della mia Simca, vero? Nda).
Bene: esattamente 40 anni fa, anche l’ultimo dei cremini e l’ultimo dei tamarri toglievano dal marsupio pandesco le loro cassette di Michael Franks e di Kim Wilde per fare spazio a “Combat Rock“, facendo diventare mainstream anche qui da noi, provincia dell’Impero, quel gruppo inglese cui prima erano totalmente indifferenti.
Certo, non tutto il merito era di quell’introduzione barricadera:
(Strum, strum)
“This is a public service announcement
With guitar!“
Un’introduzione che risultava inquietante, per chi non si fosse mai avvicinato alla filosofia dei Clash, ma che metteva subito in chiaro che quello non era un fottuto disco pop. Anzi, sì: ma di pop intelligente, mica robetta. Perché se Know Your Rights rendeva palese anche a chi non fosse avvezzo all’inglese da che parte fosse schierata quella musica, grazie a un incedere marziale-ma-rivoluzionario, già la successiva Car Jamming rischiava di risultare una predica ai convertiti: se il CD non fosse stato creato pochi mesi dopo, chissà quanti avrebbero “skippato” quel brano così punk (e un poco lungo e verboso, per alcuni).
Ma eccolo, il colpo di genio:
Badaradaradaradà
(Trick, trick, trick)
Badaradaradaradà
(Twiing)
Baradara-chan-pum, chan-pum-pum
Impossibile resistere, vero? Ma i colpi di genio sono due, perché il cambio di tempo del ritornello costringe (COSTRINGE!) al ballo sfrenato.
Le liriche semplici (probabilmente dovute alla frustrazione data dal rapporto ormai consunto tra Mick Jones ed Ellen Foley, più che la richiesta a Strummer di chiarimenti sul futuro del gruppo, come ipotizzato da alcuni) sono esaltate da parti in spagnolo che Joe si è fatto tradurre da uno dei fonici: e quanto le amano, gli europei continentali, le canzoni in spagnolo? E gli americani del Centro, ma anche del Nord e, soprattutto, del Sud? Lo spagnolo affratella: una lingua espressione di una terra finalmente liberata, e non da molto,dal giogo del Caudillo. Ma anche di una terra che, già deposto Videla, non è ancora definitivamente libera (lo sarà entro un anno, o poco più) e deve ancora fare i conti coi desaparecidos, per non parlare di Pinochet che spadroneggierà per ulteriori anni nel Cile represso e martoriato. Qualcosa riecheggiava anche nelle teste più vuote, a quel punto.
E poi? E poi “quella dell’armadillo“, che diamine!
Volevate un uno-due di quelli da k.o.? Come si potrebbe altrimenti definire l’esplosione ritmica di Rock The Casbah, se non con una messa al tappeto che poteva stendere gli ultimi scettici “generalisti“?
Diciamola tutta: tra il maggio 1981 e il luglio del 1984, chiunque avesse dai 14/15 anni in su avrà guardato almeno una puntata di “Mister Fantasy – Musica da vedere“, programma che andava in onda sulla Rai, ideato e condotto da Carlo Massarini.
C’erano i primi video, Mtv era una roba tutta americana (prima puntata 1 agosto 1981, ricordiamolo, ma il corrispettivo italiano, Videomusic, avrebbe cominciato a trasmettere videoclip ad aprile ’84), ma con un po’ di fortuna, avreste potuto incrociare un filmato girato nel deserto (o due: anche Tom Petty & The Heartbreakers avevano ambientato in uno scenario analogo la splendida You Got Lucky, che sarebbe uscita qualche mese dopo) in cui i Nostri suonavano davanti a un pozzo petrolifero, mentre un armadillo scorrazzava liberamente tra i loro piedi, scappando verso una strada in cui un arabo chiede un passaggio a una decappottabile, per poi scoprire che è condotta da un ebreo ortodosso. Ma, dopo un attimo di stupore reciproco, il radiolone (rieccolo!) dal quale fuoriesce la canzone li induce a cantarla assieme mentre si allontanano, per poi finire a sbevazzare allegramente sul bordo di una festa in piscina, mentre il gruppo si ritrova sul palco di un concerto atteso da un’audience multirazziale.
E se nella precedente lo spagnolo risultava vincente, qui sono gli idiomi mediorientali a dare un tono evocativo e “politico” al brano, scritto probabilmente in risposta al divieto di far musica imposto da Khomeini ai giovani iraniani, dopo la rivoluzione islamica sciita del 1979.
Un video che “spaccava“, quella ritmica ballabile-ma-non-disco (il pezzo poggia quasi esclusivamente sul riff di piano improvvisato dal batterista Topper Headon, mai abbastanza celebrato, che suona anche le parti di basso -dato che Paul Simonon, come gli altri, non è in studio in quel momento- e tutte le percussioni che si ascoltano nel pezzo), un testo che era praticamente “la cronaca in diretta” renderanno Rock The Casbah il singolo di maggior successo dei Clash durante la loro esistenza come gruppo.
Il resto dell’album è altrettanto magnifico, ma citerò solo più Ghetto Defendant, canzone dal forte impatto sociale cui il poeta beat Allen Ginsberg, da oltre un anno buon amico del gruppo, presta la voce per una sorta di rap.
Il valore universale dell’ultimo atto autentico dei Clash sta tutto in questa risonanza “pop” data da un successo che finalmente li sdoganava anche tra i nostri amici più recalcitranti, solitamente tutti presi dalle svolte dei Genesis “Collins-dipendenti“, da “novità” rappresentate da Spandau Ballett e New Romantics assortiti.
Ma c’è tempo per l’appendice che i più giovani (non COSÌ tanto, inutile tirarsela) ricorderanno: il ragazzo che è costretto a giocarsi i jeans a biliardo, col corollario ormonale della barista attratta da ciò che immagina sotto mentre lo osserva proteso sul tavolo. Lo spot della Levi’s, targato 1991, farà schizzare Should I Stay Or Should I Go, ripubblicata come singolo, al primo posto della classifica britannica un decennio dopo la prima uscita.
E qualcosa vorrà pur dire se ancora oggi, dopo 40 anni, qualsiasi serata, in qualsiasi discoteca, vede riempirsi la pista quando parte quel pezzo.
Qualcuno, dimostrando di non averli mai capiti, all’epoca pensava che si fossero venduti: forse del 1982 vi ricordate solo la Panda, ma c’erano ancora in giro anche le Simca e quelle canzoni uscivano comunque da quei finestrini. E, un anno dopo, la Panda l’avrei avuta anch’io.