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Neil Young – Powderfinger – La guerra fa schifo.

Piansi.
Non subito, ma immediatamente dopo.
Sì: la prima volta che girai il disco “Rust Never Sleeps” di Neil Young & Crazy Horse e, messa la puntina sul secondo lato, ascoltai Powderfinger, mi bloccai. Poi la riascoltai subito e piansi, in un punto preciso.
Era un disco strano: intanto era inciso dal vivo, ma era singolo in un’epoca in cui quasi tutti pubblicavano il classico “doppio live” pieno di greatest hits, mentre qui c’erano solo brani inediti (anche se non nuovi), suddivisi in due facciate speculari, la prima acustica (ma certo non morbida come il precedente “Comes A Time”) e la seconda elettrica, continuamente percorsa dalle rasoiate della Gibson “Old Black” del leader e pesantissima nella sua urgenza espressiva.
Perché piansi? Perché, fino a quel punto, mai ero stato così colpito da un testo del gigante canadese, un testo che parlava una lingua che ben conosceva qualsiasi adolescente in quel periodo.
Quale fu il punto esatto della canzone in cui piansi? Quello in cui quel giovane, che sta compiendo 22 anni, si ritrova da solo ad affrontare una cannoniera con un fucile, lo porta alla spalla, prende la mira e, mentre preme il grilletto, contemporaneamente viene colpito e la sua faccia esplode schizzando in cielo.
Correva l’anno 1979, era un periodo di tensioni non da poco, la guerra in Vietnam era finita appena l’altro ieri (1975, ma la canzone risaliva all’incirca a quel periodo ed era stata destinata ai Lynyrd Skynyrd, ma purtroppo il noto incidente aereo impedì a Ronnie Van Zandt di registrarla), il terrorismo serpeggiava e il fenomeno sarebbe ancora salito d’intensità, esattamente come il suono della chitarra di Young che, mentre termina di pronunciare “sky” inizia la ripetizione del riff che segue ogni strofa, sfogando tutta l’emotività di quel verso, rendendolo drammatico al punto giusto per far sì che l’ascoltatore possa immedesimarsi completamente con quanto sta avvenendo, in un misto di identificazione col giovane e con un ipotetico attonito spettatore, pervaso dell’orrore.
Subito dopo, la considerazione di quanto è avvenuto è espressa con un bridge corale: il ragazzo si cerca e non si trova, sente ancora la sensazione del dito sul grilletto, l’odore e l’unto della polvere da sparo.
Poi, sul finale, ci si sorprende a riflettere sulla parte precedente del brano: il ragazzo è in una ambientazione assurdamente quasi bucolica, ma figlio di una situazione famigliare e istituzionale che l’ha reso isolato, unico baluardo maschile per la difesa delle donne di casa, una sorta di trasposizione del senso di smarrimento dei giovani americani che in una lontanissima terra ostile sotto ogni punto di vista, naturale, climatico, ambientale, si trovavano a combattere una guerra assurda (ma quale conflitto non lo è?), ormai già persa, completamente abbandonati a loro stessi da un Potere incapace di prendersene cura (e che non se ne prenderà cura neanche in seguito, dimenticandosi dei veterani con tutte le conseguenze che abbiamo imparato a conoscere attraverso almeno vent’anni di cinema, per lo meno fino a quando non verranno sostituiti da quelli di ben tre guerre condotte nelle stesse condizioni, una delle quali terminata quasi nello stesso modo).
Il ragazzo non c’è più, il suo racconto sembra privo di emozione, la quale è riversata tutta sull’ascoltatore, fino al punto in cui lamenta lo sgomento per l’essere morto così giovane, con così tanto ancora da fare, e realizza che sta lasciando da sola la sua ragazza che gli mancherà per l’eternità.

Forse Powderfinger non parla di quello, forse è un racconto di un’epopea lontana, forse il ragazzo è un pellerossa che difende il villaggio dai bianchi usurpatori e violenti. Forse addirittura si tratta di un’azione di polizia nei confronti di una famiglia di trafficanti di whisky di contrabbando o di produttori clandestini di alcol o di droga, chissà : neanche lo stesso Neil pare saperlo.
Ma oggi, all’alba di un nuovo conflitto alle porte di casa, questo brano rivela la sua autentica natura: la guerra è quella cosa che ci pare impossibile non si possa evitare semplicemente facendo ascoltare una canzone che commuove, se le presti attenzione.
Perché la guerra la si vuole fare: lo vogliono i potenti e le menti più deboli, soggiogate dall’ostentazione del potere da parte dei primi.
La guerra fa schifo.

Massimo Perolini

Appassionato di musica, libri, cinema e Toro. Ex conduttore radiofonico per varie emittenti torinesi e manager di alcune band locali. Il suo motto l'ha preso da David Bowie: "I am the dj, I am what I play".