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R.E.M. – Dieci anni dopo – Torniamo tutti a ciò cui apparteniamo

Il primo disco dei R.E.M. che mi è entrato in casa non l’ho comprato io.
Era il 1985 e “Fables of the reconstruction”, uscito da poco, era stato mio fratello minore, allora quindicenne, ad acquistarlo con quei pochi risparmi che era riuscito a mettere via con le mancette genitoriali.
Una buona fetta di dischi che anche a decenni di distanza si sono rivelati davvero importanti li devo a lui che aveva poco meno di tre anni meno di me, davvero un ragazzino.
Il primo dei Ramones, “Back in Black” degli AC/DC, “Under a Blood Red Sky” degli U2, erano sue scoperte. Erano arrivate a lui prima che a me le relative recensioni su Ciao 2001, il Mucchio Selvaggio o Rockstar e aveva scelto, aveva scelto bene.
Anche quella volta, quel disco con quello sticker sulla copertina che recitava “After Reckoning 4th best LP of the year 1984 and Murmur Best LP of the year 1983 by Rolling Stone Magazine The New Album from US most exciting band” girava sullo stereo per merito suo.
L’acida chitarra di “Feeling Gravitys Pull”, il potente drive di “Driver 8”, il quasi “funk” di “Can’t Get There From Here”, la leggiadra melodia a due voci di “Green Grow the Rushes” riempivano incessantemente la stanza in quei giorni, con quell’aroma dolce e amaro, malinconico eppure sereno, caratteristico di quel disco, un album critico per i R.E.M. che a Londra mentre lo registravano furono ad un passo dallo scioglimento, un suono quello che non poteva far altro che depositare un seme duraturo nel mio cuore, sebbene lo stesso ebbe a germogliare lentamente.
Per qualche oscura ragione della quale ancora non mi capacito ma che probabilmente ebbe a che fare con un anno particolarmente difficile, riuscii a farmi sfuggire l’uscita in tempo reale di “Lifes Rich Pageant” nel 1986, e anche “Document” del 1987 non lo acquistai subito, pur godendo non poco ogni volta che riuscivo ad intercettare su Videomusic il videoclip di “The One I Love”, allo stesso tempo così diretto nel suono ed ellittico nelle immagini.rem 2
Fu pertanto il 1989 l’anno galeotto in cui quel seme piantato quattro anni prima sarebbe germogliato definitivamente.
Il ricordo è netto, come stesse avvenendo ora: ancora una volta un videoclip, quello di “Stand”, che passa su Videomusic mentre attendo che una coppia di amici passi a prendermi su una Peugeot 205 con destinazione Vienna, l’autoradio che sputa fuori a getto continuo Cure, U2, Waterboys, e…… “Life’s Rich Pageant” recuperato da qualche settimana e registrato su cassetta proprio per portarmelo in viaggio.
Quella “Fall on me” che riempiva l’abitacolo sotto la pioggia battente mentre ci si avvicinava al Tarvisio scivolò definitivamente da qualche parte dentro il mio spirito e non ne usci più.
Purtroppo era troppo tardi per assistere a quel concerto a Milano del Green Tour il cui rimpianto, soprattutto dopo aver visto e rivisto “Tourfilm”, é rimasto ad oggi inscalfito.
Scoprire un gruppo, soprattutto un gruppo come i R.E.M., non proprio agli inizi di carriera ha il pregio di poterti permettere di dedicarti alla scoperta dei suoi trascorsi e trent’anni fa quest’operazione non era questione di qualche clic come avviene oggi. No davvero.
I dischi in una città di piccole dimensioni dovevi spesso ordinarli al negoziante di fiducia ed attendere. Poter aprire, dopo aver finalmente spalancato del tutto gli occhi e le orecchie, gli scrigni di “Murmur” “Reckoning” e “Document” oltre che dell’appena pubblicato esordio su Warner “Green” fu una delle esplorazioni musicali più entusiasmanti della mia vita, ed avvenne peraltro in concomitanza con quel momento irripetibile in cui la band passò dalla cima del mondo cosiddetto “indie” alla base del mondo “major”.
Una base che sarebbe diventata un trampolino dal quale nel giro di due anni avrebbero spiccato il volo verso un livello di celebrità mai toccato prima da un gruppo proveniente dal circuito “alternativo”, saltando in alto giusto un attimo prima che “Nevermind” dei Nirvana cambiasse definitivamente i paradigmi del mercato. Gli anni 90 che seguirono sarebbero stati per il sottoscritto all’insegna del quartetto di Athens dall’inizio alla fine. Un decennio  che fu segnato anche da quei dischi attesi come manna dal cielo, da quei videoclip che nell’era di MTV non cadevano mai nel banale e lasciavano quasi sempre una traccia forte, da quei tour che ripresero e tornarono a toccare l’Italia solo a partire dal 1995 con l’uscita di “Monster“, da quelle canzoni che venivano trasmesse davvero dappertutto, in ogni frangente, anche da quei network radiofonici che per il resto aborrivo.
E così ci fu la data al Forum di Milano nel 1995 con i Grant Lee Buffalo, una delle ultime con Bill Berry alla batteria, il cui aneurisma di qualche giorno successivo ne sancì il ritiro e l’inizio dell’ultima lunga fase del gruppo.rem 1
Ci fu il concerto al Dall’Ara di Bologna nel 1999 aperto da Afterhours, Suede e Wilco, un momento davvero perfetto nel mio ricordo.
I nuovi R.E.M. che cercavano di riprendere l’equilibrio dopo aver perso una zampa iniziarono da quel momento a perdere qualche colpo, non tutto era sempre a fuoco ma mordevano ancora anche se in modo diverso, meno diretto, più laterale.
E così a punteggiare il decennio arrivarono gli esperimenti di “Up”, la malinconia di “Reveal”, il mezzo passo falso di “Around The Sun”, il ritorno al rock’n’roll di “Accelerate”.
Gli anni dieci della band seppur non indimenticabili come i tre precedenti decenni, disseminarono comunque il terreno di preziose gemme, prove evidenti di una band che non si era arresa, come era invece accaduto a tanti gruppi coevi di altrettanta o minore fama.
E dal vivo con loro era comunque sempre una celebrazione, come i live album e i DVD pubblicati restano tutt’ora a dimostrare, ma mai tronfia e fine a se stessa, sempre invece tesa ad una comunicazione il più possibile spontanea e vera con la gente.
L’ultima mia volta in loro presenza fu nel 2003 allo Stadio Euganeo a Padova, un luogo non particolarmente felice ed una postazione ancor più infelice non lo resero memorabile come avrei voluto, nonostante la band girasse alla perfezione. Quella volta c’era anche mia madre sessantaquattrenne, l’unico concerto rock che abbiamo condiviso. Anche questo fu un miracolo..
Quindi, appena scollinato il quarto decennio, l’uscita di “Collapse Into Now”,  quella foto con Stipe che saluta, quel titolo che con il senno di poi diceva già tutto, l’annuncio dell’addio il primo giorno di autunno del 2011, le parole dolci amare di Peter Buck a suggello di una vita di musica ed amicizia: “Mike, Michael, Bill, Bertis e io ci siamo salutati da grandi amici. So che li rivedrò in futuro, come so che vedrò tutti coloro che ci hanno seguito e supportato in tutti questi anni. Anche solo nella corsia dei vinili di un negozio di dischi locale, o in un club a guardare una band di diciannovenni tentare di cambiare il mondo”.
Ed infine quel video il 17 ottobre, due giorni dopo il mio compleanno.
“We all go back to where we belong”, torniamo tutti a ciò cui apparteniamo. L’emozione di quella voce, quella melodia ancora una volta magicamente a cavallo tra serenità, dolcezza, malinconia, dispiacere. Il modo perfetto per chiudere la porta, con il viso di Kirsten Dunst o quello di John Giorno a fungere da estremo saluto. Le lacrime che scorrono copiose. Perfect circle.

L’ultimo singolo. Non ce ne sarebbero stati altri.

I can taste the ocean on your skin
That is where it all began
We all go back to where we belong
We all go back to where we belong
This really what you want
This really what you want

Sono tornato a casa dal lavoro questa sera e le dita sono andate dritte a cercare la costa di “Fables of the Reconstruction”…. o forse era quella di “Reconstruction of the Fables”.
Ho rimesso sul piatto il lato A, guardato ancora una volta quell’adesivo, pensato che quel disco è l’unico album dei R.E.M. che mio fratello ha potuto ascoltare nella sua vita.
Il riff di Buck è partito, ho chiuso i pugni, il corpo teso, ho avvertito la gravità in tutta la sua forza ancora una volta.
Mi riportava a quello cui appartengo.

Ettore Craca

"Nel suono, nella pagina, nel viaggio, nell'amore io sono. In ogni altro luogo e tempo non sono".