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TOdays Festival 2021 – Day 1

Le attese lunghe non sono mai facili, o semplici, o innocue. E la loro fine non ritrova mai le cose così come le aveva lasciate al momento dell’arrivederci. Per certe cose, poi, anche solo alcune settimane, o pochi giorni, possono essere insopportabili da veder passare. Sì, ci si prova a far finta di nulla, a dirsi che in fondo cosa potrà mai essere una settimana, o un mese o finanche un semestre nel computo complessivo di una vita spesa ad attendere momenti come quelli che sai già per certo arriveranno. Ma è una inutile menzogna, e lo sai bene. Perché daresti parecchio, forse anche un dito della mano sinistra, perché quella attesa durasse un soffio, o anche meno.
E’ così per le persone che se ne vanno, e vorresti che fossero già tornate mentre le guardi camminar via passo dopo passo; o per cose inanimate che però ami quasi fossero persone, come il mare di cui senti il richiamo in lontananza anche quando sai che non potrai affondare nel suo vigoroso abbraccio per mesi e mesi, o forse anni. E lo è anche per cose che in realtà coincidono sia con l’una che con l’altra cosa: come in effetti è la musica dal vivo.

Che senza le persone, non sarebbe se non ascolto o esercizio piacevole ma, in fin dei conti, inanimato. E che senza il suono dal vivo, non sarebbe che essere vivente muto e sbiadito. Dopo una lunghissima attesa di due anni, questo TOdays 2021 ha ridato finalmente corpo a quell’attesa e quell’assenza, facendo ben comprendere a tutti quelli che lo hanno riabbracciato che questi due anni sulla pensilina ad aspettare non sono passati senza lasciare il segno. Quattro giorni di artisti, luci, note lanciate e riprese, facce conosciute e non, amici virtuali che diventano finalmente reali e perfetti sconosciuti che si ritrovano a cantare l’uno quasi accanto all’altro – nell’aria frizzante di una tarda estate torinese, benevola e finalmente senza pioggia – quasi come se si conoscessero da una vita. La prima serata del Festival, ha visto la partecipazione dei primi tre artisti sul palco dello Spazio211; un palco che da esattamente due anni (ora più, ora meno, ndr) di musicale aveva visto sì e no il passaggio di qualche passerotto innamorato, alcune galline residenti in loco – di cui la leggenda della loro improvvisa apparizione e permanenza quasi dal nulla si narra ormai anche in giro per l’Europa – e parecchia polvere anecoica.
Personalmente, ci sono arrivato con addosso ancora quella incredulità mista a fermento che solo le lunghe e trepidanti attese ti sanno dare, dopo un pomeriggio passato a riabbracciare amici vicini e lontani, alcuni dei quali venuti appositamente per l’evento. Lasciare ad un artista come Asgeir – islandese dall’animo nostalgico e dal cuore melodico – l’onore e l’onere di inaugurare la serie di concerti è stata la prima scelta azzeccata dell’organizzazione.

Mentre i ritardatari (come il sottoscritto, ndr) continuavano a confluire alla spicciolata, le sue note folk a colori melange, hanno subito saputo creare quella intimità con il fronte palco, che ogni buon ospite sa essere la prima e più importante premessa per un convivio ben riuscito. Ásgeir Trausti Einarsson – nome che già solo a leggerlo potrebbe creare un’atmosfera immaginifica  di poesia boreale – proviene dalla medesima terra che ci ha regalato le hiperballate di Bjork, e le melodie per  suono e silenzi  costruite per sottrazione dai Sigur Ros, arriva forte del suo terzo album uscito all’inizio del 2020, quasi in concomitanza con l’avvento di quella brutta bestia che l’anno scorso ci he negato parecchia vita musicale. Un album che narra la perdita, e il desiderio di rinascita personale. Immersi in un set che si fondeva alla perfezione con i toni del tramonto torinese e il calore degli abbracci che continuavamo a scambiarci all’interno dello spazio concerti, il quasi trentenne Asgeir ha dimostrato come a volte non serva una pioggia eccessiva di decibel per smuovere la pelle e le ossa delle persone. E così, tra una birra e qualche ‘bisticcio’ con le mascherine che continuavano a salire e scendere dal volto – in una sorta di Tic ormai consapevole – al secondo giro, e a platea ormai riempita, è arrivato il turno dei londinese Dry Cleaning.
I
nteressante e capace band fresca di uscita del primo studio album New Long Leg. In un connubio di sonorità post punk, costruite dal chitarrista (e leader carismatico del gruppo) Tom Dowse, e di una vocalità piatta ma cionondimeno sensuale della bravissima Florence Shaw – la cui voce protesa sulle melodie spigolose lanciate dai suoi colleghi spiana con liriche da poesia urbane; con uno stile vocale al limite del reading, la sua voce diventa ad un certo punto onirica presenza e ipnotica attrazione, tanto che il set di 11 canzoni proposto dal gruppo (praticamente tutto il nuovo album, finora unico della loro produzione oltre ad un paio di EP) pare proiettarti in un continuum spazio-temporale che diventa confortevole spaesamento distonico.

E se la presenza aggraziata e ironica di Florence Shaw, a metà tra eterea apparizione e diafana attrazione, pare quasi volerti mantenere in un limbo fatto di poesia e industria – in uno spazio cittadino che è un misto di natura e ‘produzione’ – a traghettarti nell’ultima parte musicale, ormai a notte inoltrata, troviamo finalmente il trentacinquenne Andrea Lazlo De Simone, un viso e una personalità casalinga, che raccoglie il testimone poetico dai testi dei Dry Cleaning, per portarlo in un territorio melodico ben più consustanziale e omogeneo. Le sue canzoni hanno il sapore e la consistenza giusta, quella che ti aspetti di incontrare in una notte di fine agosto torinese, in cui la malinconia dettata dalla chiusura del periodo vacanziero e della stagione spensierata si affaccia sul principio dell’ennesimo nuovo inizio, fatto di pragmatismo e operosità.

E l’artigiano Andrea, dal pieno della sua capacità musicale pressoché autodidatta e solipsista, è la miglior presenza che avremmo potuto desiderare in chiusura di una prima giornata di un festival che, da sempre crocevia internazionale aperto e luogo di passaggio fremente di musica multisapore, aveva bisogno di riprendere e di riprendersi i suoi spazi e i suoi tempi. Reale conforto. Così come confortante è stato l’ultimo messaggio dell’autore di “Uomo donna” e di “Vivo”, a fine concerto: a prescindere da ciò che è circolato come rumor nei giorni precedenti alla sua apparizione torinese, quel “arrivederci a presto” -ascoltata dalle sue vive labbra parzialmente nascoste da baffi e una barba che, non solo fisicamente, lo fanno spesso associare ad un Frank Zappa nostrano –  non è solo un commiato, ma assume i contorni della piacevole rassicurazione. Insomma, non un ‘addio’ (come suggerito da alcuni frettolosi interpreti giornalistici), che fortunatamente sa di liberatorio. Più o meno come il primo giorno del TOdays2021, per tutti noi che eravamo presenti. E sognanti.

Stefano Carsen

"Sentimentalmente legato al rock, nasco musicalmente e morirò solo dopo parecchi "encore". Dal prog rock all'alternative via grunge, ogni sfumatura è la mia".