Live Reports

Patti Smith ci mostra il volto umano della storia, e riaccende i Live di Collisioni.

Avete mai percepito, intorno a voi, la Storia? Intendo dire, quella con la “S” maiuscola – qui scritta non a caso – quella che ti fa sentire ‘piccolo’ rispetto al paesaggio complessivo o particolare in questione, ma anche una orgogliosa parte di un tutto umano, di una pagina sociale in cui riesci a riconoscerti e dentro la quale puoi tranquillamente specchiarti senza alcuna remora?
A me per esempio è capitato, certe privilegiatissime volte, al cospetto di realtà culturali che esprimevano tutta la grandezza del personaggio sotteso, ma anche tutta la sua umanità. Mi è capitato per la prima e privilegiata volta parecchi anni fa, fermo di fronte alle tele di Michelangelo Merisi, quell’immortale essere umano passato al secolo col nome di Caravaggio capace di dipingere il sublime attraverso lo scontro di luce e oscurità: quella stessa oscurità che si portava dentro, tra le luci abbaglianti del suo genio.
E ancora quando incrociai per caso quel mondo di “infinite soluzioni racchiuse in uno spazio finito”, disegnato a parole sapientemente pennellate da un ‘ragazzo’ di Ithaca – dal nome così vicino alla mitologia greca – eroe tragico di un mondo in decadenza, da cui preferì staccarsi volontariamente: di fronte a quel “Infinite Jest” io provai nuovamente un senso di profondo spavento e gratitudine, accoglienza e alterità.
E mi accadde ancora quando incontrai in uno degli ultimi suoi tour, un altro newyorkese Doc, l’uomo che in musica seppe più di tanti esprimere la “wild side” delle cose e delle persone, del quale Lester Bangs – che pure non fu assolutamente un morigerato sant’uomo – disse che “è il tipo che ha dato dignità, poesia e rock’n’roll all’eroina, allo speed, all’omosessualità, al sadomasochismo, all’omicidio, alla misoginia, all’inettitudine e al suicidio.”; quel Lou Reed di cui, dal palco, si poteva percepire tutto questo e anche tutto il contrario, ma che sapeva rendere viva l’impressione di aver davanti un uomo vero e un pezzo di storia assoluto.


Ecco, se avete provato anche solo un brandello di questa sensazione, almeno una volta nella vostra vita, allora saprete di certo interpretare e far vostra l’emozione che mi ha abbracciato questo sabato, per tutta la durata del concerto di Patti Smith, soundcheck compreso. Perché, ad onor del vero, non penso di poter dire che l’evento in sé sia stato il miglior live al quale abbia assistito (e bè, di certo nemmeno assolutamente il peggiore, ndr) in termini di durata, tecnica, o potenza sonora, né credo lo potrebbero sostenere molte delle anime che vi hanno preso parte da spettatori affascinati; un’ora e mezza o poco più di successi, di musica di certo ben suonata, di qualche parola e qualche frase – detta però mai a casaccio e sempre con pienezza e densità di emozioni – e di abbracci virtuali da lei verso i pochi presenti fortunati (pochi rispetto a quelli che ci sarebbero stati, se non fossero stati contingentati a causa dell’ormai ben nota questione virus) e di baci e saluti e strette di mano anche più che virtuali che le tornavano indietro. Ma dentro a tutto questo, dentro ai brani che si susseguivano né lenti né veloci – a quelle “quote più normali” che preconizzava il maestro Battiato, che hanno consentito a tutti noi dotati di orecchie e cuore e voglia di farlo di “contemplare il cielo e i fiori”, almeno per quelle due ore – dentro alla cornice di una Alba mai così bella e accogliente, si sentiva anche qualcosa di più: quel sapore e quella atmosfera che normalmente stanno dentro ai musei o tra l’inchiostro e la cellulosa dei libri, si sono librate nell’atmosfera di quel luogo fin dall’ingresso di Patricia Lee Smith, dotate di quelle “Wing” di cui lei stessa è guarnita. Hanno elevato tutti, come spesso riescono a fare in maniera sublime tutte quelle produzioni umane che sanno cristallizzare il momento e i sentimenti all’interno di un’unica espressione artistica. E mentre la scaletta si faceva sempre più intima e sentita, andando ad esplorare buona parte della mitologia dell’universo di Patti Smith – che dai suoi anni inchiostrati di William Blake (“Blakean Year”) passava alla sua “Ghost dance” planando con sapienza attraverso le ‘spiagge di Redondo’ – la storia della musica si faceva concreta, reale, umanamente densa di commozione e referenze. Così anche attraverso un medley di canzoni di Bob Dylan, quello stesso Bob che per noi è un mito assoluto di poesia e note, e di cui lei – l’artista Patti – ha cantato le canzoni e accarezzato le note mentre ne celebrava gli anni (quegli 80 da poco compiuti, e i più di 50 di conoscenza reciproca) dentro ai quali la loro amicizia e la loro relazione ha potuto nuovamente scintillare, una volta di più, quasi come se avesse ancora quei ventiquattro anni che aveva addosso quando si conobbero. Ma la polvere sugli anni passati conta, così come conta quella sui libri scritti e sulle tele dipinte e ormai secche, e non è un male: perché quegli anni hanno fatto sì che si sia vissuto, e capito, anche le canzoni scritte e i versi dedicati. Ed è così che quella “One too many mornings”, con cui apre si apre il lungo tributo, diventa un saggio sulle relazioni umane molto più intellegibile, dall’alto di quei 50 anni e passa di polvere accumulati: perché se quella “restless hungry feeling”, quella sensazione di affamata irrequietezza contava molto quando eri giovane, ora sai perfettamente che “don’t mean no one no good \ When ev’rything I’m a-sayin’ \ You can say it just as good \ You’re right from your side”. Le ragioni cambiano, e con gli anni si avvicinano: diventano storia, e la storia si può studiare e capire meglio se c’è un po’ di distanza. E certo, la fine si può anche avvicinare, e quella “Hard rain” scritta da Bob e cantata da Patti cadrà duramente su tutti quanti, prima o poi. Ma fa parte della vita, e della storia di ognuno: non spaventa, e se lo fa è solo un attimo che passa e va via.
E se fra le righe di quelle canzoni si trova di certo una parte importante delle loro vite, e della nostra storia, si può a buon diritto continuare l’ascolto delle canzoni leggendarie che Patti Smith ci ha lasciato, a partire da Dancing Barefoot – che questo dannato periodo storico da libri ci ha impedito di ballare davanti al palco – a quella “Beneath the southern cross” che, sebbene parli di morte e dolore, può ben significare rinascita, un punto e capo da ciò che ci ha fatto male. Nella notte più lunga e nera, si può aver paura certo: ma si può anche rimanere abbracciati, come i “two lovers” della canzone che scrisse a quattro mani con il Boss. E la notte smette di essere ignoto, e diventa incanto, se si è in due. O se si è in tanti, ad ascoltare finalmente un po’ più liberi e ritti in piedi (anche se tutti rigorosamente davanti al proprio seggiolino) e a saltellare e urlare, e cantare: “People have the power”.
La sua gente, la sua musica, la nostra storia. Un senso di rispettoso riguardo che diventa appartenenza. Lo stesso che si ha davanti ad un’opera d’arte di Caravaggio. Cioè, quasi: perché in questo caso, la storia ha le note, un nome, un volto segnato ma sorridente e – per fortuna – anni di vita dietro e ancora davanti a sé.

Stefano Carsen

"Sentimentalmente legato al rock, nasco musicalmente e morirò solo dopo parecchi "encore". Dal prog rock all'alternative via grunge, ogni sfumatura è la mia".